FRUNTONE

Fruntone era un trainiere di Tricarico. Facevano lo stesso mestiere Implicito e Santangelo, padre di Antonio, Beny e di Isabella, la ragazza di Rocco Scotellaro (Io non so più viverti accanto/ qualcuno mi lega la voce nel petto/ sei la figlia del trainante/ che mi toglie il respiro sulla bocca/ …).

Era dura la vita dei trainanti: viaggi lunghi lenti faticosi scomodi, sotto il sole, la pioggia e la neve, protetti da enormi ombrelli verdi rigati, che riparavano come tende. Erano gli autotrasportatori di quel tempo, non erano contadini dei grossi paesi pugliesi che, con i loro traini, in lunghe teorie, si recavano nei campi dei latifondi e a sera tornavano al proprio paese e alle loro case.

Nell’estate del 1943, quella della caduta del fascismo e dell’armistizio, tra l’uno e l’altro evento, 25 luglio – 8 settembre, feci un viaggio col traino di Implicito e un’esperienza da trainante.

Una anziana sorella di mia madre, che viveva a Palazzo San Gervasio, era rimasta vedova, senza figli e in difficoltà. Chiese ai miei genitori di accoglierla a Tricarico e mio padre, uomo dal cuore grande (fece onore al santo col nostro cognome un giorno di tormenta, quando incontrò il più miserabile del suo paese d’origine, Pauerch, che batteva i denti per il gran freddo: si tolse il cappotto e glielo regalò). Mia madre e io andammo a Palazzo San Gervasio, paese d’origine dei miei genitori, col traino di Implicito a prendere mia zia e le sue poche masserizie. Fu un viaggio di quattro giorni, due all’andata e due al ritorno, con sosta e pernottamento a Pietragalla, paese natale di don Michele Lauria, don Michele Laposta, l’ufficiale postale storico di Tricarico, padre di due sindaci di Tricarico, Benito e Gino, che è stato anche presidente della provincia.

Qui conviene aprire una parentesi sulla gran confusione dei nomi non dei sette fratelli e sorelle Lauria, che non si finirebbe più, ma su Benito e Gino, sindaci e presidente di provincia, che con qusti nomi non compaiono in nessuno dei registri e dei documenti del comune e della provincia, perché erano chiamati e conosciuti con altro nome. Il nome di Benito era Amedeo e quello di Gino Umberto, che era il nome col quale era chiamato e conosciuto il fratello maggiore, primario di pediatraia, che si chiamava Giuseppe, ma lo sapevano solo pochi intimi.

A Pietragalla c’era una taverna e una locanda con un un paio di camerette, gestita dallo stesso taverniere. All’andata la locanda era tutta occupata e, solo dopo lungo insistere e supplicare, si trovò modo di arrangiare mia madre, ma per me non ci fu alcuna possibilità di trovare una qualsiasi sistemazione. Mi dovetti rassegnare a dormire nella taverna, che ospitava cavalli, muli e trainieri. Costoro cedettero immediatamente al sonno e presero a russare così sonoramente e dare libero sfogo al vento compresso nel ventre, così rumoroso da sembrare il cannoneggiamento di una colonna di carrarmati che avanzava. Con gli occhi spalancati, incredulo, mi guardavo attorno, quando improvvisamente davanti ai miei occhi si presentò lo spettacolo più spaventoso che avessi potuto immaginare e a cui abbia mai assistito. Come dal nulla sbucarono decine di topi, grossi come gatti, che sembravano danzare ritti sulle gambe posteriori, tra le gambe dei muli e dei cavalli alle greppie e attorno ai trainieri ronfanti da una parte e dall’altra del corpo. Fuggii velocissimamente, col cuore in gola e la voce strozzata per il terrore, e passai la notte su una panchina che fortunatamente c’era nella piazza del paese.

Tra i trainieri di Tricarico Fruntone si distingueva per come beveva forte. Sulle bevute di Fruntone fiorivano leggende. Di una bevuta fummo testimoni io, Benito e Gino Lauria. Accadde nel 44 o 45. Mio padre aveva procurato per noi tre un passaggio per Potenza col traino di Fruntone, per la ripresa dei nostri studi a Potenza dopo le vacanze di Pasqua. Il traino aveva un carico di alcune botti di vino. Il viaggio sulla via Appia – allora era più lunga di qualche chilometro, 46 chilometri dalla pietra miliare posta davanti al cimitero di Tricarico – durò tutto il giorno. Fruntone, steso sulle botti, calò un sifone nella prima botte e per tutto il giorno lo sentimmo succhiare a un ritmo costante: vvvvsciuuuuu – vvvvsciuuuuu – vvvvsciuuuuu … . Quando arrivammo a Potenza, Fruntone attaccò il sifone alla fontanella che c’è ancora a San Rocco e stemmo a lungo, molto a lungo in attesa che il vino fosse rifuso con l’acqua di san Rocco.

Era dunque un ubbriacone, Fruntone. Ma la faccia tradiva come una pena o un disagio o una malinconia, era un uomo che suscitava simpatia. Mio padre, che era un uomo integerrimo, all’antica, austero e severo, parlandogli del viaggio a Potenza, mi disse: «Fruntone è un galantuomo». Un galatuomo, disse mio padre; non disse: «Fruntone è un buonuomo» o «un brav’uomo».

Quella sera del 22 dicembre donna Giuditta De Maria andò a dormire preoccupata. L’aria era calma dolce e trasparente. «E’ aria di neve» si diceva donna Giuditta «Quei poveri figli miei rimarranno bloccati alla stazione. Come faranno?» – Pensava ai figli Titina e Giovanni, che tornavano da Roma per le vacanze di Natale.

L’indomani mattina donna Giuditta si alzò presto e si affrettò al balcone per scrutare il tempo. Non si vedeva nulla, le vetrate del balcone erano coperte di neve. Donna Giuditta aprì le vetrate e le si parò davanti un muro di circa un metro e più di neve; lo stesso sui tetti di fronte e nel corso, dove erano bloccate tutte le porte dei negozi e delle case a pian terreno di fronte – la casa di De Sopo, la farmacia di Biscaglia, il dazio, il negozio di Fulmiodda.

«Questa è come la nevicata del ’29» si disse donna Giuditta «Titina e Giovanna sono già arrivati alla stazione. Ma quanto tempo rimarranno bloccati? forse giorni, rischiano di passare il Natale alla stazione, di doversene tornare a Roma. Dobbiamo fare qualcosa, si deve fare qualcosa».

«Mimì, che possiamo fare?» chiese al marito angosciata ma fiduciosa che don Mimì avesse una soluzione o potesse fare un miracolo.

Don Mimì si informò della situazione, si vestì e, racatosi al balcone, con uno sguardo dietro i vetri se ne rese personalmente conto.

«Ci vuole un traino; solo un traino con le sue grosse ruote può farsi strada tra questa neve. Sarè difficile passare tra la Pietra e la Serra, lì battono i venti che soffiano dal Basento, la neve si ammassa in muraglie che possono raggiungere anche i tre metri di altezza e confondere la strada con la campagna» rifletteva a voce alta don Mimì. Poi si rivolse alla moglie:

« Giuditta, mandami a chiamare Fruntone e manda Felice Mezzacozza a reclutare alcuni spalatori.

Si vestì. Giunsero gli spalatori e si fece accompagnare alla Posta. Ci volle una buona mezzora, con l’aiuto degli spalatori, per giungere alla Posta. Lì pregò don Michele Laposta di telegrafare al capostazione di Grassano – Funaro, una bella amicizia di famiglia da due generazioni, una mezza parentela, una bella figlia, Elena – per informarsi della situazione.

Don Mimì si assicurò che i figli fossero ospitati al caldo e per il momento non soffrissero alcun disagio e venne a sapere che erano rimasti bloccati, oltre a Titina e Giovanni, don Peppe Santoro con la figlia Giuseppina – coetanea e amica di Titina, che vive a Matera, avendo sposato Giovanni Padula, titolare dell’omonima e rinomata industria pastaia materana, che alcuni anni fa ha ceduto l’attività alla Barilla –, che tornavano da Bologna, dove don Peppe aveva una sorella ed era andato a farsi fare un busto ortopedico al Rizzoli, e donna Giuseppina Santoro, vedova di don Nicola Ferri, di cui a Tricarico si conservava vivo il ricordo di amminitratore ai vertici del Comune e della Provincia durante il periodo nittiano e il fascismo.

Don Mimì tornò a casa, si chiuse nello studio con Fruntone, che lo stava aspettando.

«Don Mimì, e che ci vuole? Non vi preoccupate – disse sull’uscio dallo studio, uscendo – Vado, preparo il traino e al massimo tra un’ora sono in piazza».

Don Mimì disse a donna Giuditta di preparare un termos di cioccolata calda, una pila di coperte e panini e di mandare a comprare al bar di Scardillo una bottiglia di cognac – per cognac si intendeva l’italianissimo brandy – , nonché di mandare a dire la stessa cosa alle altre due famiglie.

«Alla stazione con Fruntone, vuoi scendere… . Madonna mia» diceva donna Giuditta. Ma fece come il marito aveva detto e anche i parenti di don Peppe e di donna Giuseppina Santoro prepararono cioccolata calda, panini, cognac e coperte. Panini è un modo di dire: ovviamente si trattava di ruccoli e schcanate di pane e provoloni, salsicce e soppressate e quant’altro aveva detto don Mimì.

Tornò Fruntone fatto a vino il giusto per affrontare l’impresa. Il traino era pronto in piazza, Fruntone caricò cognac, ruccoli, schcanate, salsicce e provoloni, cioccolata calda e coperte, un paio si spalatori aiutarono don Mimì a salire sul traino, poi tutti gli spalatori salirono anche loro con le pale. Fruntone prese i cavalli per le briglie, le tirò e via per il folle viaggio, preceduti dal fedele cane del trainiere. Fruntone, i cavalli e il cane erano una comunità affratellata. Con i suoi animali Fruntone forse ritrovava la felicità e certamente affogava la malinconia che lo affliggeva e scacciava col vino. Gli animali lo capivano.

Dal bar Scardillo e dal bar Benevento i clienti uscivano incuriositi, affollandosi sull’uscio e negli stretti viottoli da cui era stata spalata la neve per l’accesso ai due locali:

«Ma cosa fanno? Dove vanno? C’è circa un metro e mezzo di neve. Non si distingue la strada dai fossi, dalle scarpate, dai diruppi. Si vanno ad ammazzare. Don Mimì come fa ad azzardare nelle sue condizioni? Sono due pazzi!»

«Non c’è da preoccuparsi.» – dicevano altri – «Quando arrivano alla Pietra dovranno per forza tornare indietro. Lì non si passa».

Alla Pietra poco o nulla potettero fare gli scalatori contro quella montagna di neve che si era accumulata fino alla Serra. Non si distingueva la strada dai fossi, dalle scarpate, dai dirupi. Fruntone, con una strattonata alle briglie, diresse il tiro dei cavalli verso destra – verso un campo, un’orto o una vigna, chissà che c’era lì sotto – e poi decise di seguire il percorso più breve, tagliando in diagonale verso la stazione, attraverso i campi e chissà che altro, fidandosi del fiuto del cane che precedeva la marcia. Lui guidava i cavalli attaccato alle loro briglie, sondava il terreno e ogni tanto si staccava e si avvicinava al traino a dare una generosa sorsata alla bottiglia del cognac. La neve era fresca e non bloccava le grosse ruote del traino, solo tre o quattro volte fu necessario l’intervento degli spalatori. I cavalli affondavano nella neve per tutta l’altezza delle gambe e avanzavano lentamente e pazientemente, con grandi sforzi. Miracolosamente non incapparono in un fosso o in un dirupo e dopo diverse ore giunsero alla stazione. Da Tricarico alla stazione c’è un dislivello di oltre cinquecento metri.

Al ritorno Fruntone seguì le orme lasciate all’andata. Ma la forte pendenza e il carico del traino rendevano l’impresa disperata. I cavalli sembravano non farcela, Fruntone gli accarezzava la testa, gliela baciava, tornava al traino per una sorsata di cognac. Il traino avanzava, lentamente, passo dopo passo, come una tartaruga, l’opera degli spalatori si rivelò provvidenziale. Le signorine, in principio, si rifiutavano di bere il cognac. Non se la sentivano di attaccarsi al collo della bottiglia dove aveva bevuto Fruntone, ma alla lunga il freddo ebbe la meglio.

I clienti del bar Scardillo e del bar Benevento erano in attesa e chiedevano notizie ad ogni nuovo avventore. «Niente. Saranno finiti in un fosso. Fruntone si potrà pure salvare, ma don Mimì non ce la può fare. Speriamo di no. Ma una persona nelle sue condizioni non ce la può fare». La preoccupazione e l’ansia si sentivano nell’aria.

Ad un tratto, a sera avanzata, qualcuno portò l’annuncio tanto atteso prima nel bar Benevento e poi nel bar Scardillo: «Stanno arrivando. Fra poco saranno in piazza. S’è visto il traino in viale Regina Margherita». Tutti i clienti dei due bar si riversarono fuori ad assistere increduli alla conclusione della pazzesca impresa. «Solo don Mimì poteva pensare di fare una cosa del genere – dicevano – e solo Fruntone poteva starlo a sentire. Due pazzi, due diavoli. E ce l’hanno fatta». –

Mario Trufelli sentì suonare a morto la campanellina di San Francesco e dalla sua finestra vide passare il carro funebre. Osservò il lento procedere fino alla svolta dalla piazza al viale Regina Margherita, e scrisse questi versi:

Andiamo, carrettiere che t’alzavi
col segno delle stelle, è l’ora di migrare.
La mula zoppa è pronta nel mortorio
all’ombra delle case.

Ti porteranno in processione, vecchio
che t’alzavi col segno delle stelle
quando il gallo sperdeva gridi innamorati
dall’alto della greppia.

La frusta adesso è consumata
e il carro si è sfasciato che facevi
con quella mula zoppa al bilancino?

Portavi frasche e paglia
un sacco di carrube
memorie per le strade
impolverate nel sole.

Ora t’aggiustano le mani
nella cassa da morto, vecchio
che in un bicchiere di vino
ti sentivi il padrone del mondo.

E voi, uomini con le mani grosse
Venite, aiutate sulla collina
dietro la mula zoppa il carrettiere
perché è venuta l’ora di migrare.

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