I figli di Accettura

di niente hanno paura

non li prende il magone

se gli tolgono il cannone

se ne stanno indifferenti

al cospetto degli eventi

non provano rammarico

se il cannone va a Tricarico.

(Angelo Labbate)

 

     A Tricarico c’erano, e ora ci sono di nuovo, due cannoni. Il nuovo sindaco, che è tornato a capo dell’amministrazione comunale dopo una pausa, li considerava e li considera un simbolo di Tricarico. Il sindaco suo successore e predecessore, no; e ne concesse uno in comodato al comune di Accettura, con obbligo di restituzione a semplice richiesta. Il nuovo sindaco, in campagna elettorale, promise che il cannone sarebbe tornato al suo posto entro due giorni dall’elezione. Questo è l’antefatto.

     Il fatto esige che sia innanzi tutto chiarito se e perché i due cannoni sono un simbolo di Tricarico. Il simbolo è il segno di riconoscimento ed è simbolico ciò che non vale per sé, ma per ciò che appresenta. I due cannoni giunsero a Tricarico grazie a un eminente tricaricese vissuto nella seconda metà dell’Ottocento e nella prima del Novecento, ingegnere e generale di divisione del genio militare, protagonista in memorabili opere d’ingegneria, tra cui il collaudo del primo ponte girevole di Taranto. I cannoni, che le acque del grande porto pugliese avevano inghiottito, venero alla luce e l’ingegnere decise di destinarli al suo e nostro paese. Come, non si sa con precisione. Si oscilla tra due ipotesi: il generale-ingegnere ordinò di caricare i due cannoni su un automezzo della Marina e di portarli a Tricarico, senza tante storie, oppure li fece assegnare al comune di Tricarico con formale provvedimento di concessione del Demanio marittimo. Ogni epoca ha i suoi segni e, segni di questo tipo, per il vero, sono molto pervicaci. In entrambi i casi i vecchi amministrativisti avrebbero rilevato difetto di causa, che è un elemento essenziale del provvedimento, e ne avrebbero decretato la nullità. Insomma, i cannoni a Tricarico non sarebbero dovuti arrivare. Il tempo, si sa, sana ogni ferita e sana anche la nullità dei provvedimenti amministrativi, per cui i due cannoni, da quel tempo oramai!, sono proprietà di Tricarico. Ma simbolo no.

     Forse ci fu imbarazzo, a Tricarico non sapevano cosa farsene dei cannoni. Io li ho sempre visti – e di anni, grazie a Dio, se ne sono accumulati tanti sul groppone – collocati in posizione verticale ai lati di una porta in viale Regina Margherita, nella parte meno frequentata del viale, dove s’apre uno spiazzo in seguito adibito a mercato. Durante il ventennio la porta era l’ingresso secondario della casa del fascio (e la collocazione lì aveva un qualche senso, in sintonia con la vocazione dei fasci che non per nulla erano fasci di combattimento), ma in seguito erano solo due cannoni misteriosi che stavano ad arrugginire ai lati di una porta anonima.

     Negli anni 90 il sindaco Antonio Melfi decise legittimamente di trarli dall’umiliante collocazione e destinarli ad una più acconcia sistemazione. Furono ripuliti della ruggine, lucidati e sistemati su supporti di ferro; furono quindi costruite due basi di cemento al lati dei “ferri” – la ringhiera di cemento che delimita la piazza dal Calancone, dove i vecchi ai miei tempi andavano a prendere il sole ascoltando la radio del caffè Scardillo e dove con che cuore anch’io vorrei tornare -, e su quelle basi di cemento i cannoni furono minacciosamente puntati come pronti ad aprire il fuoco contro Irsina. Ma mi si fece notare che le imboccature erano state piombate a simboleggiare la condanna della guerra.

     Il sindaco subentrato Raffaello Marsilio, altrettanto legittimamente quanto il sindaco Melfi, decise di farli rimuovere e, a richiesta del suo collega di Accettura, con delibera della giunta comunale, un cannone fu concesso al detto comune in comodato gratuito, con obbligo di restituzione a semplice richiesta.

     La restituzione è un obbligo del comodatario e la legge protegge l’interesse del comodante alla restituzione. Così dice la legge e sembra che parli chiaro. Il comodante, quando giunge il tempo o maturano le condizioni della restituzione della cosa, la chiede, e se il comodatario si rifiuta si rivolge al giudice, che gliela fa avere. Non se la può prendere con violenza, perché commetterebbe il reato, perseguibile a querela di parte, di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose (art. 392 c.p.).

     E’ invece accaduto che il prof. Antonio Melfi avesse fatto dei cannoni il cavallo di battaglia della campagna elettorale del movimento CRD «Cristianamente riprendiamo a dialogare» da lui fondato negli anni 90. Se sarò eletto – prometteva solennemente – i due cannoni torneranno in piazza Garibaldi entro il secondo giorno dalla mia elezione a sindaco. Forse la vecchia amministrazione gli lasciava in eredità sciagure ben gravi, come lo sfregio alla tomba di Rocco Scotellaro, di cui sarebbe valso la pena occuparsi dal primo minuto dopo l’elezione.

     Eletto sindaco, alla cinque della sera del secondo giorno dalla sua elezione, il nuovo/vecchio sindaco parte alla volta di Accettura alla testa di un manipolo di vigili e coraggiosi pronti a ogni cimento, seguito da un camioncino con una gru e ogni tipo d’attrezzature atte all’impresa; giunti ad Accettura, in pochi minuti il cannone è disancorato con una smerigliatrice, imbracato e issato con la gru sul camioncino, lasciando vuoto lo spazio dove il cannone era stato collocato, tra la statua della madre piangente, che annota i nomi dei figli morti, e la stele dei caduti accetturesi. Al ritorno a Tricarico il sindaco fu accolto trionfalmente.

     Il fatto non può essere insensato fino a questo punto. Un senso – se così si può dire, perché, per la contraddizione che non lo consente, non può aver senso una cosa insensata – deve averlo per forza.

     Sono state rivangate vecchie ruggini tra Tricarico e Accettura per il possesso della foresta di Gallipoli-Cognato, sulla quale i tricaricesi vantavano pretese perché già di pertinenza delle Clarisse di Tricarico, ma inclusa nel territorio di Accettura a seguito di una lunga e complessa lite giudiziaria. Per il vero nessuno ricordava più questa vecchia lite e, d’altronde, se il casus belli fosse la foresta di Gallipoli-Cognato, perché riprendersi il cannone e non la foresta? Districandosi nel labirinto dei federalismi una mente acuta un appiglio l’avrebbe saputo trovare nel federalismo forestale; ci sarà anche un federalismo forestale!

     Sono state elaborate antropologie, che farebbero risaltare il carattere arrogante dei tricaricesi o il loro temperamento sanguigno. E’ stato ricordato il dott. Giovanni De Maria, «tricaricese in terra accetturese», medico condotto di Accettura agli inizi del secolo scorso, che s’accendeva facilmente come uno zolfanello, e, dunque, era un fumino non un arrogante. Ma posso testimoniare, perché il dott. De Maria è il nonno di mia moglie, che in famiglia si raccontavano ridendo con simpatia storie del nonno, che s’accendeva come uno zolfanello e come s’accendeva si spengeva.

     Si è ricorsi nientemeno alla testimonianza di Rocco Scotellaro per dimostrare il carattere sanguigno dei tricaricesi. Una testimonianza evocata a sproposito con citazioni a vanvera o false, riportate senza ritegno tra virgolette. Peccato, perché l’articolo della giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno era cominciato con una garbata presa in giro del blitz tricaricese.

     Qual è, dunque, il senso dell’insensatezza? E’ la «restaurazione», la negazione della continuità istituzionale, la frattura violenta con la precedente fase istituzionale e, nel caso in questione, con la precedente amministrazione.

     I cannoni il sindaco Melfi li aveva fatto collocare in piazza ai piedi del monumento ai lati della ringhiera e lì dovevano rimanere, nessuno si doveva o poteva permettere di toglierli. Restaurato il suo potere, la decisione della precedente amministrazione doveva essere messa sotto i piedi coram populo, calpestata e distrutta; doveva essere soppressa non nel senso giuridico di annullare, ma etimologico (dal latino supprimĕre composto di sub «sotto» e premĕre «premere»), di calpestare sotto i piedi.

E questa farsa del cannone è solo l’anteprima, direbbe Michele Santoro.

* * *

POSTILLA. Angelo Labbate, accetturese, pubblicò due articoli di commento alla guerra del cannone sulla Gazzetta del Mezzogiorno. Tra l’altro, non mancò riferire le aspre critiche rivolte al sindaco e all’amministrazione comunale da un paese che si sentì offeso e pubblicate sui social. Il sindaco non la prese bene e soppresse Paese, una rivista fondata e diretta da Angelo, di proprietà del Comune. Paese aveva come sottotitolo una frase di Cesare Pavese, tratto dall’ultimo suo romanzo, La luna e i falò, pubblicato quattro mesi prima che si suicidasse: «Un paese vuol dire non essere soli». La frase completa è: «Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».

     Su questa rivista stava per essere pubblicato uno scritto di mio suocero, in mio possesso, che evocava vicende accetturesi degli anni Venti, di cui Angelo mi aveva chiesto l’autorizzazione per la pubblicazione. Angelo mi comunicò con una mail: “Il cannone ha fatto bum e Paese è morto”.

 

 

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