EUROPA

19 agosto 2011

De Gasperi di tutti

Oggi cade il 57° anniversario della morte dello statista democristiano

 

Oggi è il 57° anniversario della morte di De Gasperi. L’omonima Fondazione di Trento lo ricorda come sempre a Pieve Tesino con una lectio magistralis affidata al prof.

Beppe Vacca su “De Gasperi e il Pci”. Cercherò, modestamente, di parlare dello stesso tema.

Affrontare il rapporto fra Alcide De Gasperi e il Partito comunista italiano equivale a cimentarsi con i passaggi epocali della nostra storia repubblicana. Dalla resistenza, alla costituente allo schieramento internazionale del paese.

Il tema ci induce a una comparazione fra un soggetto politico, più volte definito un «uomo solo», e un soggetto collettivo, con le sue liturgie ben definite, la cui ideologia di fondo consisteva in un pensiero fondamentalmente storicista, materialista e ateo che negava ogni valore alla fede cristiana pur riconoscendo un ruolo importante, paradossalmente o forse no, alla Chiesa come espressione della religiosità di massa del paese.

De Gasperi aveva, dunque, di fronte un gruppo dirigente compatto politicamente e dottrinariamente sostanzialmente allineato ai voleri dell’Urss. Allo stesso tempo un gruppo di uomini segnati da una parte dalla lunga e dolorosa esperienza del fascismo e della resistenza, dall’altra dall’aver percorso, in alcuni momenti e in alcuni suoi esponenti, quella lunga scala mobile della metropolitana che li conduceva, consapevolmente o meno, fino in fondo all’orrore, come lo storico Firsov ha descritto lo stalinismo e l’epoca dei gulag. Un gruppo dirigente che peraltro riuscì, in alcune occasioni, a resistere alle pressioni sovietiche. Alla vigilia della formazione del Cominform Togliatti disse ai delegati del Partito in partenza che: «Se vi rimprovereranno che non abbiamo saputo prendere il potere o che ci siamo fatti cacciar via dal governo ebbene, dite loro che non potevamo trasformare l’Italia in una seconda Grecia. E ciò nell’interesse non soltanto nostro ma degli stessi sovietici». (E. Reale, Nascita del Cominform, Milano 1958). Ma restava comunque il legame con l’Unione Sovietica, come dato rilevante del Pci di quegli anni. Sul piano interno il Pci cercò invece di costruire alleanze con gli altri partiti della sinistra, a cominciare da quello socialista e, nella prima fase del dopoguerra con la stessa Dc. Si trattava infatti di dare un profilo e una strategia alla fase del «frattempo» (Gramsci), frattempo fra il fascismo e la sperata «rivoluzione». Peraltro corrisposto, per ragioni diverse, dallo stesso De Gasperi il quale aveva necessità di governare la fase democratica iniziale con il massimo coinvolgimento dei partiti popolari, in attesa di una successiva normale dialettica/alternativa.

Dicevamo due soggetti che esprimevano due culture. Lo statista trentino era figlio del «cattolicesimo intransigente nella sua versione sociale e leonina» (Traniello), quella versione leonina che il curato di Torcy aveva così tratteggiato: «la famosa enciclica di Leone XIII, Rerum Novarum, […] voi adesso la leggete tranquilli, di sfuggita, come una delle tante pastorali di Quaresima. Ma all’ epoca, figliolo, è stato come se la terra ci tremasse sotto i piedi. Che entusiasmo!» (Bernanos). Dall’altra parte il Pci impegnato a costruire una egemonia culturale prima ancora che politica, capace di realizzare l’alternativa al leader democristiano e al suo partito. Un recente studio ha confermato «i tentativi del Partito comunista italiano di occupare tra gli altri lo spazio della storia contemporanea», per meglio supportare una strategia di discredito storico e culturale dell’avversario, attraverso una narrazione militante poiché: «L’egemonia politica della Democrazia cristiana, una volta espulse le sinistre dal governo, appariva il preludio di una gestione conservatrice del potere politico, improntata all’immobilismo, quando non alla nostalgia del passato». (G. Zazzara, La storia a sinistra, Laterza, 2011). E De Gasperi era “nemico” perché considerato il perno di questo disegno restauratore. Basterebbe andare a leggere la raccolta di saggi di importanti contemporaneisti Dieci anni dopo (Laterza, 1955), o l’opera di Gianfranco Carocci (1975), per non parlare dei cinque volumi della Storia dell’Italia Repubblicana, promossa dall’Istituto Gramsci, uscita nel 1994, cioè ben 17 anni dopo la coraggiosa – perché controcorrente – La proposta politica di De Gasperi di Pietro Scoppola (ed. Il Mulino).

Quando uscì l’opera di Scoppola, infatti, Giorgio Amendola vi dedicò una recensione di due pagine su Rinascita in cui confermava tutto l’impaccio del Pci a cambiare il giudizio storico su De Gasperi. Per questo bisognerà attendere il 2004 con il volumetto del vice direttore dell’Istituto Gramsci Roberto Gualtieri in occasione del 50° della sua morte, allegato a l’Unità, in cui finalmente la storiografia di sinistra riconosce il ruolo fondamentale di De Gasperi nella ricostruzione dell’Italia repubblicana e nella sua difesa da ogni insidia interna o esterna.

Non possono essere dimenticati, infatti, i lunghi anni in cui De Gasperi fu al centro di violente campagne denigratorie che lo dipingevano come servo degli Usa, del Vaticano e dei poteri forti. Quanto di più errato e fuorviante, oggi finalmente tutti lo riconoscono, soprattutto quanto De Gasperi seppe mantenere la schiena dritta, sua e della Dc, alle più varie pressioni provenienti proprio da quegli ambienti.

A distanza di anni cosa è rimasto di quella trama così fitta, di quei fili recisi, di quella serie di rapporti così duri e inquieti ? La memoria storica. Anzi la memoria di una storiografia che si era lasciata piegare alle esigenze politiche, prima che arrivasse il riconoscimento che De Gasperi aveva condotto l’Italia verso il benessere e la qualità della democrazia che conosciamo. Certo tutto ciò ha potuto fare non solo per merito proprio. Anzi. Non v’è dubbio che le stesse opposizioni di sinistra hanno contribuito a difendere quella democrazia conquistata proprio con il loro determinante apporto. Ma avrebbero potuto fare ancora di più se fossero state in grado di liberarsi, ben prima della “caduta del muro”, dal vincolo di solidarietà con l’Unione Sovietica che tanto le condizionò, come ha onestamente riconosciuto, tra gli altri, Alfredo Reichlin nel suo bel libro Il midollo del leone (Laterza 2010). E avrebbero potuto riconoscere che la stessa rottura del governo tripartito nel 1947 avrebbe potuto forse non esserci, o non esserci in quel modo così traumatico, avrebbe cioè potuto avvenire in termini “condivisi” in vista di una campagna elettorale decisiva come quella del 1948 in cui tutti avevano l’esigenza di una comprensibile libertà di movimento.

Cosa è successo negli anni sessanta con la nascita del primo centrosinistra che divise la sinistra, e soprattutto “dopo”, cioè dopo il 1989, della caduta del muro, è cronaca politica, è presente così diverso e per molti aspetti così imprevedibile da rendere forse prematuro anche se relativamente non difficile un bilancio storico.

“Dopo”, la Dc è finita, ed era per tante ragioni pressoché inevitabile. E “dopo”, il Pci è finito, semplicemente perché era fallito in modo clamoroso e definitivo il comunismo nel mondo.

 

Pierluigi Castagnetti

 

 

 

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