Carmela Biscaglia

Presenze e permanenze arabo-musulmane a Tricarico nel contesto delle incursioni degli arabi in Basilicata nel medioevo

Intervento tenuto nell’incontro “Gli Arabi in Basilicata. Un convegno a Tricarico”

Tricarico, Palazzo Ducale, sabato 3 dicembre 2011, ore 10,00

 

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La configurazione geografica della Basilicata, in quanto terra inserita nell’ecumene mediterraneo, ha da sempre predisposto quest’area dell’Italia all’incontro di culture differenti, alla coesistenza tra etnie, all’interscambio con le civiltà mediorientali e nordafricane. Molte componenti della sua storia medievale e moderna ne sono state, pertanto, condizionate in modi e forme più o meno persistenti, le cui tracce sono giunte fino a noi. È questo il caso delle presenze arabo-musulmane, le cui permanenze costituiscono parte integrante del patrimonio della storia e della cultura della Basilicata e di Tricarico in particolare

Gli arabi già nei secoli IX e X avevano toccato con incursioni violente vaste aree dell’Italia meridionale e trasformato Bari nella sede di un loro emirato (847-871). I loro eserciti comprendevano genti islamizzate di origine camitica provenienti dal nord Africa, più note col nome di Berberi o Saraceni, coinvolte nel processo di acculturazione arabomusulmana e nel fenomeno di espansione dell’Islam verso l’Occidente in funzione di contingenti maghrebini. I Saraceni si spinsero nelle zone più interne del Mezzogiorno e raggiunsero la Basilicata, sfruttando la percorribilità delle valli per compiervi rapine e fare prigionieri da destinare come schiavi nei centri dell’impero islamico mediterraneo nel momento della sua massima espansione. Nell’872 saccheggiarono Grumento, nel 907 occuparono Abriola e Pietrapertosa, nel 994, secondo Lupo Protospata, occuparono Matera dopo averla assediata per tre mesi Superata l’iniziale conflittualità politico-religiosa, dovuta alla violenza aggressiva del loro imporsi, queste popolazioni dovettero ben presto fissare degli acquartieramenti nei centri più elevati o strategici della Basilicata e man mano manifestare la loro anima di mercanti, di artigiani e di agricoltori esperti di colture delle zone aride, intrecciando con le popolazioni indigene intense relazioni di pacifica convivenza e di interscambio economico e culturale.

Tali stanziamenti furono consistenti e di lunga durata in molti centri del medio bacino del Bradano e del Basento, del basso Potentino da Pietrapertosa ad Abriola e della Valle dell’Agri. Le diffuse, ma ancor oggi poco esplorate tracce architettoniche d’impronta arabomusulmana che vi si riscontrano, dimostrano come non si trattò solo di gruppi di soldati, ma di vere comunità che, sfruttando il loro predominio politico-militare, trassero localmente dei vantaggi, per incrementare ed espandere i loro commerci, vera anima delle cultura araba

Dagli iniziali presidi militari di confine per la concentrazione delle milizie impegnate in azioni belliche (ribàt), infatti, crebbero poi dei veri quartieri residenziali islamici (rabatane), 2 ancor oggi fortemente leggibili nel tessuto urbano di Tursi, Tricarico e Pietrapertosa, centri ove più duraturi dovettero essere i loro insediamenti in quartieri che, richiamando il fascinoso ribàt maghrebino, la tradizione locale connòta ancor oggi come Rabate o Rabatane. Tutte evidenziano la funzione di controllo delle vallate sottostanti: la Rabatana di Tursi, in posizione iperdifesa col suo intrico edilizio sovrastato dall’imponente costruzione del castello, controllava il borgo di Anglona e le valli del Sinni e dell’Agri; la Rabata e la Saracena di Tricarico le valli del Bradano e del Basento, valle – quest’ultima – su cui dominava col suo castello in gran parte scavato nella roccia, dall’alto dei suoi oltre 1.000 metri di altitudine, anche l’Arabata di Pietrapertosa

Ulteriori tracce della presenza araba in Basilicata vanno individuate nei dialetti, ove i prestiti arabi riguardano essenzialmente la terminologia e le espressioni commerciali, ma non mancano apporti linguistici arabo-berberi con ricaduta nella sfera degli antroponimi e dei toponimi, dei soprannomi, degli epiteti, dell’alimentazione, dell’organizzazione abitativa, della proprietà terriera, dei prodotti orto-frutticoli, di molti oggetti d’uso e dell’abbigliamento. Basti ricordare ad esempio termini come musàl (tovaglia da tavola), ra’anàte (carne, pesce, patate o altro cibo profumato con origano e spezie varie e cotto sulla brace), ciuféca (bevanda disgustosa), celèpp (zucchero sciolto densamente in acqua per ricoprire dolciumi), surbètt (neve trattata con mosto cotto), scerrà (bisticciarsi), tavùt (cassa da morto), za’aglia (fettuccia) e zuquarèdd (funicella), zzirr (recipiente in rame o terracotta per contenere liquidi, specie olio)

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Il documento d’archivio più prezioso per la rarità e la materia che ci trasmette sui rapporti tra popolazioni indigene lucane e genti arabo-musulmane nell’XI secolo, è la pergamena greca di Tricarico che, tra l’altro, dice: «Luokas il miscredente e l’apostata aveva occupato anche il Kastellion di Pietrapertosa e, non contento di moltiplicare in tutta l’Italia (bizantina) oppressioni e rapine, si era impossessato di terre altrui come un brigante: così prese il territorio del kastron di Tricarico, di cui erano proprietari da lungo tempo gli abitanti e non permise più che questi entrassero nelle loro terre per coltivarle. Noi abbiamo dunque cacciato da Pietrapertosa Loukas e i suoi correligionari e allora gli abitanti del kastron di Tricarico presentarono denuncia riguardante i limiti del loro territorio. Abbiamo dunque convocato il tassiarca Costantino Kontou che portò con sè gli abitanti del kastellion di Tolve: con l’accordo delle due parti, egli ristabilì i limiti delle terre di Tricarico e di Acerenza quali erano anticamente […]»

Questo documento, proveniente dall’Archivio Capitolare di Tricarico e reso noto da due grandi studiosi di storia bizantina, Andrè Guillou e Walter Holtzmann, è un atto redatto dal catepano Gregorio Tarchanéiôtes nel dicembre 1001, e costituisce una rara testimonianza della presenza saracena in Tricarico (e in genere in Basilicata). Il documento, di eccezionale importanza per la storia delle istituzioni bizantine nel Meridione d’Italia, attesta aggressioni continuate da parte di bande musulmane che, guidate da un cristiano convertitosi all’Islam, il 3 kafir Loukas, avevano fondato nel borgo fortificato dell’antica Pietra Perciata (Pietrapertosa), tra le più impervie montagne dell’Appennino lucano, una brutale tirannia e di lì seminato terrore. Che l’occupazione dei più fertili territori della città fortificata di Tricarico fosse stata di lunga durata, è testimoniato dall’intervento successivo del chartoularios (cartografo) bizantino Myrôn, al quale toccò il compito di rideterminare i confini dell’agro di Tricarico rispetto a quello di Acerenza (che comprendeva anche Tolve)

Agli albori del Mille Tricarico era, dunque, una cittadella greca, munita di solide fortificazioni a difesa della sua particolare configurazione militare e della sua posizione geografica lungo la linea di demarcazione, duramente contesa da Bizantini e Longobardi per tutto il X secolo, cioè il confine occidentale del tema di Longobardia. Già inclusa nell’849 nel gastaldato longobardo di Salerno, era passata poi sotto il dominio greco e divenuta sede di diocesi di rito ortodosso nel 968, nel momento in cui il governo bizantino istituiva il tema di Lucania (968-969 ca) con capitale Tursicon (Tursi) e completava il piano di ellenizzazione della Chiesa del Catepanato, creando nuovi vescovi a Gravina, Acerenza, Matera, Tursi, Tricarico, tutti suffraganei di Otranto. Tricarico, in quell’epoca, fu fortemente permeata di spiritualità come dimostra la presenza della comunità monastica italo-greca di Santa Maria del Rifugio, che nel 998 aveva dato vita ad un korion (comunità economico-religiosa), nel vallone omonimo a ridosso del versante sinistro del Basento. Qui l’igumeno Kosmas, colla partecipazione di stranieri e di eléuteroi, cioè di contadini liberi da obblighi verso il fisco, aveva reso la zona partecipe di quel grande movimento, che caratterizzò l’intera Europa, di dissodamento di terreni col taglio e la bruciatura delle boscaglie, che aveva favorito la ripresa delle coltivazioni ed una prosperità economica relativa, come pure la crescita demografica

Nonostante la “grande paura”, che per quasi 200 anni (IX e XI secolo) generarono le endemiche incursioni saracene e il clima di ostilità del governo bizantino verso le popolazioni saracene islamizzate, è tuttavia ipotizzabile un più realistico e duraturo inserimento di queste nel tessuto sociale ed economico di molti centro lucani a iniziare da Tricarico

I Saraceni furono certamente attratti dalla rinascita che caratterizzava la cittadina come un po’ tutti i centri della valle del Basento, nei primi decenni del Mille, ove l’aumento della domanda di beni di consumo, che aveva stimolato l’agricoltura, fu causa e conseguenza della crescita demografica, favorita pure dalle immigrazioni greche e, presumibilmente, anche delle presenze arabe. Queste dovettero trasformarsi, peraltro, in ulteriori elementi di sviluppo specie in campo agricolo e commerciale, rivitalizzando l’arboricoltura e l’orticoltura, con la diffusione di tecniche irrigue di matrice araba, simili a quelle poste in atto nelle aree ai margini del Sahara, così ben studiate da Pietro Laureano, che come tutti sappiamo è un tricaricese. Fu proprio questo contesto positivo che avrebbe indotto le successive invasioni dei Normanni, i quali avrebbero occupato Tricarico nel 1048 in una battaglia combattuta sotto le sue mura, sottraendola ai Bizantini

Le conseguenze della lunga permanenza dei Saraceni a Tricarico, sono attestate non solo dalla persistenza dei toponimi Rabata e Saracena e da altre sopravvivenze linguistiche arabo-berbere riscontrate nel dialetto locale, quanto pure dal contesto urbanistico per la 4 presenza dei quartieri della Rabata e della Saracena, ai quali durante il medioevo faceva da contraltare anche una giudecca e, nel Cinquecento, una nutrita comunità albanese

È probabile che in quell’intreccio di civiltà coesistite a Tricarico, fossero stati proprio gli ebrei, presenti in città fino ai primi anni del ‘500 con una industriosa giudecca e relativa sinagoga, a mediare la cultura araba nella cittadina dove, su commissione del giudeo David b

Menachem Zarfati di Tricarico, giunse la versione ebraica del Gioiello perfetto, opera medica dell’arabo Abul Qasim al-Zahrawi, il maggiore rappresentante e il grande maestro della chirurgia ispano-arabica dei primi anni del Mille, ricopiata a Melfi tra il 1452 e il 1454 ed oggi custodita nella Biblioteca Nazionale di Parigi

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La stupenda, preziosissima e rara veduta raffigurante Tricarico, stampata nel 1618 a Colonia da George Braun ed Franz Hogemberg, tratteggia con efficacia i due quartieri della Rabata e della Saracena che, con le loro mura di cinta, i giardini terrazzati, le torri emiforiche a protezione delle relative porte d’accesso, tra le quali la porta rabatana che insiste ancor oggi col suo originario arco acuto islamico, testimoniano il lungo episodio insediativo degli Arabi in questa cittadina

Devono ancora essere chiarite le vicende urbanistiche di questi e degli altri ribàt della Basilicata, come quello di Tursi o di Pietrapertosa che, da impianti fortificati di confine preposti alla concentrazione di milizie impiegate in attacchi bellici, divennero poi delle rabatane, ovvero dei quartieri residenziali arabi

Parimenti dicasi dell’etimologia del termine Rabata: dall’arabo ribãt (la cui pronuncia maghrebina dà nome alla città di Rabat) con riferimento a “posto dei cavalli, luogo di sosta; ricovero per viaggiatori, caravanserraglio; posto fortificato di frontiera, fortezza di monaci guerrieri”, o a rábbatu “nucleo abitato posto su altura”, come leggiamo nel Glossario dei termini urbanistici del mondo islamico, curato da Paolo Cuneo e Ugo Marazzi

La Saracena e la Rabata di Tricarico, comunque, mantenendo ancor oggi distinte le due tipologie urbane, ne rappresentano emblematicamente le fasi evolutive: dell’una è, infatti, distinguibile il carattere di fortilizio o primo acquartieramento sull’estrema propaggine Nord dello sperone di roccia su cui sorge Tricarico, a vedetta delle valli del Bradano e del Basento; dell’altra – la Rabata – sono evidenti i connotati di un nucleo di espansione a S-E della cittadina, che reca molto evidenti i segni della tradizione insediativa islamica: l’abitato della Rabata, nella sua struttura compatta è diviso in due zone da una strada principale molto stretta, l’araba shari, l’una a oriente a ridosso delle mura e l’altra a occidente più sviluppata; da essa si dipartono le vie secondarie o darb, che s’intrecciano in varie direzioni e si concludono spesso in vicoli ciechi o sucac, che definiscono piccoli tessuti residenziali ben distinti tra loro

I nuclei abitativi, spesso ipogei, dalla modesta tecnica edilizia, non privi di dignità architettonica, se tendono a chiudersi in difesa rispetto all’esterno, con questo, peraltro, comunicano mediante i prospicienti terrazzamenti su terreni aridi coltivati a frutteti, che fanno da corona all’attuale abitato altomedievale di Tricarico e degradano sul sottostante uaddone 5 del torrente Milo, il cui letto si articola in una miriade di orti, resi irrigui da tecniche di canalizzazione delle acque sorgive di impianto arabo

Si tratta di coltivazioni che fin dal IX-XII secolo, cioè dal periodo bizantino-arabonormanno, si sono poi protratte lungo il corso dei secoli, come ci documenta un codice tricaricese di fine Cinquecento, che ci tramanda l’esistenza di una gran quantità di horti seu frutteti dislocati al di fuori delle muraglie e delle porte d’accesso di Tricarico, ma che si ritrovavano in tutte le città medievali del Mezzogiorno d’Italia ed erano destinati a piccole produzioni per lo smercio e il consumo interno della comunità cittadina. Il codice distingue gli horti dai frutteti, termine quest’ultimo utilizzato anche col suo sinonimo di “giardino”

Pensiamo, ad esempio, al “giardino” della mensa vescovile, volgarmente detto “giardino del vescovo”, esistente nella zona compresa tra il monastero del Carmine, la cappella di S. Rocco (oggi inesistente) e posto sopra le grotte della Ravita. Era un frutteto dislocato dunque lungo le pendici della Rabata, corrispondente al lato destro del Vallone delli Lavandari e prospiciente all’area detta Porta della Ravata. I prodotti di questi frutteti per i costi di gestione che comportavano, – val la pena di ricordarlo – costituivano comunque un alimento privilegiato del ceto nobiliare ed ecclesiastico

Gli horti, invece, dominavano la parte più bassa del Vallone delli Lavandari oggi denominato vallone del Caccarone, conca di S. Antonio e torrente Milo, area ricchissima di acque sorgive e utilizzata per la coltivazione delle verdure, vendute sul mercato locale. Era anche la zona delle fontane pubbliche e del lavatoio pubblico, dove l’uso dell’acqua non era tassato

L’insieme di questi horti e frutteti rappresentavano una sorta di appendice, di completamento dei palazzi della nobiltà tricaricese tra Cinque e Seicento. Anche il vescovo ne aveva alcuni, come pure l’Università (Comune), che utilizzava queste sue più o meno estese aree demaniali per il piccolo pascolo, oppure per tenere fiere e mercati periodici. Questi orti e giardini, piccoli fertilissimi fazzoletti di terra, delimitati da muretti a secco, costituivano il primo anello dei coltivi suburbani dalle essenze arboree mediterranee, che si giovavano e si giovano sia della presenza dell’abbondante acqua sorgiva canalizzata, sia di un microclima più protetto e mite favorito dallo stesso alveo del torrente

Non è infrequente ritrovare nei contratti di affitto di simili orti o frutteti ancora del Sette-Ottocento, il riferimento esplicito ai lavori di canalizzazione e costruzione di vasche di raccolta delle acque, generalmente a carico dei proprietari dei fondi e al pagamento di annui canoni per il reperimento dell’acqua a volte fornita dai convicini. Non mancavano neppure le vertenze

Solo per comprendere il valore di simili coltivi all’interno di quell’uso del territorio e delle sue risorse che più saggiamente caratterizzò i tempi passati, ricordiamo che a questo primo anello di orti e giardini, che circondava la città, seguivano in maniera concentrica quello dei vignali, poi dei vigneti e oliveti, quindi le grandi estensioni cerealicole ed, infine, a chiusura dell’agro comunale, le vaste distese boschive di natura demaniale

6 Nella coltivazione di questi terreni suburbani, che per primo Pietro Laureano ha definito “orti saraceni” per le connessioni riscontrate e riscontrabili nelle aree sahariane e in altri siti arcaici del Sud d’Italia e della Cappadocia, gli arabi dovettero dar prova della loro abilità idraulica. Sfruttando le acque delle numerose sorgenti drenate dalle rocce su cui sorge Tricarico ed incanalando quelle piovane, prima che confluissero e si disperdessero nel sottostante uaddone, essi organizzarono un sistema di irrigazione capillare, utilizzato per secoli – come ho poc’anzi illustrato – e i cui segni si leggono a tutt’oggi. Ed è altrettanto probabile che anche a Tricarico gli arabi avesso introdotti quelle varietà di specie arboree tipiche dei giardini mediterranei, spesso citati nei documenti: i cedri, i limoni, gli aranci amari detti “cetrangoli”, unici agrumi di questo tipo conosciuti nel Mezzogiorno fino alla fine del Quattrocento, quando si diffusero gli aranci dolci. Le fonti attestano, infine, anche i salici e i gelsi

Si tratta di prodotti che alimentavano una vivace economia, tutta regolamentata dagli Statuti municipali, che entravano nel merito dei furti di frutta, insalate e salici, come pure dei danni a vario titolo apportati ai “frutti pendenti” nei giardini e ai germogli negli orti, sia dagli uomini che dagli animali pascolati. Una materia, ovviamente, allora come oggi, gioia e delizia degli ortolani, sottoposta a tasse comunali, dette “gabelle”

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Conclusione: la Rabata e la Saracena di Tricarico costituiscono un unicum nel Mezzogiorno in quanto a testimonianza urbanistica e paesaggistica rimasta quasi inalterata per secoli. È pertanto responsabilità di tutti noi la salvaguardia e la tutela di questo patrimonio storicoculturale e identitario di grandissimo valore, che sottende un saggio uso delle interrelazioni tra città e natura, e che andrebbe tutelato innanzitutto con opportuni provvedimenti legislativi relativi all’area degli orti e dei giardini. Un “parco degli orti e dei giardini suburbani”

Salvaguardia e tutela che saranno assicurate e, a mio parere, ben accettate dalla stessa popolazione, se torneranno a rivivere nell’ottica per cui questi quartieri e questi orti-giardini vennero originariamente pensati e vissuti: un’ottica di mantenimento della presenza umana e di mantenimento di un’economia, ma anche di rispetto delle ragioni del territorio (pensiamo all’importanza della regimentazione delle acque). Si tratta, infatti, di tutelare e valorizzare un bene che è nel suo insieme urbanistico e paesaggistico, un bene che oggi si definisce del paesaggio urbano, proprio per l’evidente interrelazione tra abitato e natura, tra esigenze della città e uso del suo territorio. Valorizzare un bene non solo e non tanto a fini puramente estetici, ma ripristinando le sue originarie potenzialità di risorsa economica

È in questa organica dimensione il motivo per cui gli “orti urbani” hanno da sempre costituito parte fondamentale della cultura architettonica ed economica europea, e verso la quale si indirizzano oggi i modelli culturali della sostenibilità delle aree urbane e del ruolo del verde pubblico dentro le città

 

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