Quella Praga magica

di Pierluigi CASTAGNETTI

 

 

da 24Emilia.com del 19 dicembre 2011

Se n’è andato con passo lieve e rapido, come era il suo incedere, Vaclav Havel, il leader della “rivoluzione di velluto” cecoslovacca. E’ stato il simbolo, assieme a Lech Walesa, di quel dissenso che, corrodendo dall’interno i regimi comunisti del centro Europa, ne accelerò la caduta. E insieme il simbolo dell’utopia di una democrazia senza partiti che non riuscì a realizzarsi. Un uomo affascinante, fantasioso, poeta, drammaturgo di vocazione e per quanto gli fu possibile di professione, Havel rappresentò la speranza che la democrazia fragrante che nasceva nei paesi ex comunisti potesse innescare una sorta di rigenerazione per tutte le vecchie democrazie europee.
Quella che lui guidò fu una rivoluzione incredibile, combattuta con la forza e l’entusiasmo dei giovani, senza una goccia di sangue, semplicemente con il dialogo notturno tra le finestre che in una notte improvvisamente e progressivamente si illuminarono nei palazzi della “malà strana”, il cuore della Praga magica, come se l’una dicesse all’altra “anch’io ci sono”, sino a costituire l’esercito inerme di tutta la popolazione che chiedeva solo di poter finalmente respirare la libertà.
Sono passati poco più di vent’anni da quella stagione e personalmente ho ricordi straordinari: avevo già “visitato” la primavera di Dubcek nel 1968 in un gruppo di giovani guidati da Gilberto Bonalumi, ma fu l’esperienza della primavera del 1989 (dal 19 al 24 marzo) e quella dell’anno successivo (dal 2 al 5 gennaio) che depositarono in me ricordi indelebili e per molti versi i più importanti della mia non breve esperienza politica.
Nel 1989, infatti, insieme a due colleghi, Michelangelo Agrusti e Beppe Matulli, decidemmo di andare a Praga per assistere al processo ad Havel, fondatore di “Charta 77”. La visita fu in parte avventurosa, perché non era facile in quel tempo visitare i dissidenti, o anche solo trovarli nelle loro abitazioni, per la stretta sorveglianza della polizia e la non sufficiente autorevolezza della delegazione anche a causa dalla diffidenza della Dc e del governo italiano e, conseguentemente, dell’ambasciata italiana, che vedevano in questa nostra iniziativa un eccesso di velleitarismo e impoliticità.
Ma alla fine riuscimmo a incontrare chi avevamo deciso di incontrare.
Il vecchio Hayech, ministro degli esteri della primavera del 1968, che ci aiutò a inanellare una serie di altri incontri con dissidenti, socialisti e cattolici, spesso accompagnandoci personalmente e facendoci da interprete (era professore di storia contemporanea e di diritto internazionale e parlava correttamente sette lingue): Vaclav Benda, un professore di filosofia, cattolico, costretto a fare il minatore e poi privato anche di questa possibilità, che incontrammo a casa sua; Josef Bartoncick, presidente del Partito Popolare; Ladislay Lis, un ex comunista convertito alla socialdemocrazia. A Bratislava invece incontrammo, oltre al dissidente Jan Carnogusky, Alexander Dubceck.
Ma l’incontro più importante di quel viaggio lo facemmo con la signora Havlova, la moglie di Vaclav Havel, nella sua casa al centro della città, al quinto piano senza ascensore di un importante palazzo ancora semidistrutto dal tempo della guerra, un incontro che ci servì a capire la vicenda umana del futuro presidente della Cecoslovcchia, in quel momento recluso in carcere in attesa del giudizio d’appello dopo la prima condanna a nove mesi di detenzione. E finalmente, il 21 marzo, la possibilità di assistere – unici esponenti politici stranieri – a quel processo farsa in un’atmosfera che sembrava anticipare la fine del sistema, che in effetti implose pochi mesi dopo.
Fu questa nostra partecipazione al processo che ci spalancò le porte del castello di Praga il 4 gennaio, solo cinque giorni dopo l’elezione di Vaclav Havel a presidente della Cecoslovacchia. Ricordo ancora quell’incontro, con il nuovo presidente in jeans e maglione, che si concluse con questo saluto: “So che siete democratici cristiani, quindi dovreste credere in Dio, se così è vi chiedo anche di pregare per me e per la Cecoslovacchia”. Richiesta analoga a quella che ci fece il giorno dopo il novantenne cardinale di Praga Tomaseck. In questa seconda visita fummo accompagnati anche da alcuni giornalisti (Paolo Ruffini, Paolo Palma e Guglielmo Nardocci) e, soprattutto, dal collega Guido Bodrato che per il suo profilo politico e di governo conferiva alla delegazione un alone di ufficialità che la prima visita non poteva avere.
L’amicizia con Havel si strutturò successivamente in altri incontri, nella partecipazione alla campagna elettorale delle prime elezioni democratiche e persino in una visita ufficiale del governo italiano in cui fummo invitati come “testimoni” di una solidarietà tempestiva anche se per la verità, quando la esprimemmo, fummo costretti a farlo a titolo personale.
Potrei raccontare mille episodi, ma c’è una risposta che Havel mi diede, in uno di questi incontri, alla domanda un po’ impertinente alla presenza di Dubcek: “Perché la rivoluzione l’hai fatta tu e non Dubcek?”. “Perché le rivoluzioni le possono fare solo quelli che non sanno che le rivoluzioni non serve farle”. In questa risposta c’era tutta la carica e la forza di un’utopia che superava ogni ragione di un realismo politico che non era più in grado di capire e fronteggiare ciò che stava accadendo. Havel si è sin da subito circondato di un gruppo di ragazzi, poco più che studenti universitari, con i quali fondò un movimento che pretendeva di non essere un partito, l’Obcanske Forum, il forum civico, i cui maggiori esponenti abbiamo voluto incontrare per capire meglio che tipo di sistema politico si stesse insediando da quelle parti.
Tornammo dalla Cecoslovacchia dopo aver assistito allo spettacolo di una rivoluzione non violenta e vittoriosa, con il presentimento che anche il nostro paese, che pure non soffriva carenza di libertà e democrazia e poteva contare su un sistema istituzionale democratico, sarebbe stato investito, più prima che poi, da una domanda di cambiamento altrettanto profonda. Ci rendevamo conto che questa sensazione non era trasmissibile, proprio perché era più un sentimento che un ragionamento. Ciò che successe poi negli anni ‘90 in Italia è inutile ricordarlo, se non per rilevare che mancò in quel caso il carico di utopia, di potenzialità spirituale, di leadership paragonabile a ciò che la personalità di Vaclav Havel riuscì a sprigionare a Praga e in Europa.
Anche per questo oggi salutiamo, con il ricordo e il rimpianto, una delle maggiori personalità europee della fine del ‘900 che tentò, per molti versi invano, di scuotere il torpore del vecchio continente, divenuto incapace di vedere le cose nuove e di leggerle con gli occhi “ingenui” di chi non sa che le rivoluzioni è inutile farle. Ma se, nonostante tutto, una speranza di rigenerazione e rinnovamento culturale prima che politico l’Europa oggi è in grado di esprimerla, costretta anche dall’imprevedibilità e dall’incontenibilità della globalizzazione, questo lo deve a statisti solidi come Kohl e Mitterand e a politici fantasiosi e sorridenti come Vaclav Havel.

 

 

Comments are closed.