Due traduzioni di Rocco Scotellaro sono dal poeta francese Arthur Rimbaud  (Charleville 1854 – Marsiglia 1891): Il battello ebbro, in forma parziale (24 versi su un centinaio), e Testa di un fauno, già pubblicata nell’edizione di Margherite e rosolacci del 1978.

Franco Vitelli (Nota al testo nell’edizione Oscar Mondadori 2004 di tutte le poesie di Rocco Scotellaro, p. xxxv) rileva che la sollecitazione di tradurre versi di Rimbaud era venuta a Scotellaro dal dono del professor Naville, di cui Rocco così scrive, in una lettera del 21 giugno 1948, a Anna Botteri, sua amica di Parma: «Il prof. Naville mi ha fatto omaggio di un suo libro e delle opere di Rimbaud». Il libro del professore, scrittore e sociologo francese, è Les conditions de la liberté.

 

Rimbaud (1854 – 1891), dopo studî molto brillanti, ebbe un’adolescenza assai inquieta e vagabonda, fuggendo più volte di casa e aderendo agli ideali comunardi. Soggiornò a Parigi, dove frequentò gli ambienti letterarî legandosi a Paul Verlaine in un rapporto tumultuoso. Ebbe una vita randagia per l’Europa, quindi in Asia e in Africa. In Etiopia trascorse un decennio fra Harrar e Aden, occupato in varî traffici, anche di armi, e ormai del tutto lontano dalla sua esperienza letteraria, abbandonata a vent’anni. Ammalato, si fece rimpatriare, e fu operato di un tumore al ginocchio all’ospedale di Marsiglia, dove morì alla fine dello stesso anno, dopo essersi, pare, confessato.

Scrive in un arco brevissimo di anni giovanili, dal 1869, a quindici anni di età, al 1873. La breve stagione della sua poesia originalissima e fra le più moderne e attuali, coincide con quella della sua rivolta giovanile, con il totale disprezzo di ogni convenzione sociale e morale e della stessa letteratura. È significativo che Rimbaud rifiutasse di pubblicare le sue poesie e le sue prose, e che l’unica opera che egli abbia dato alle stampe sia stata Une saison en enfer(1873), che deve essere considerata il suo ultimo scritto letterario, con la drammatica denuncia del suo fallimento.

Le sue prime poesie (1869-71) erano state l’esplosione di un temperamento lirico personalissimo. La ribellione contro l’ordine familiare, politico, religioso, vi era espressa con durezza potente. Ma Rimbaud si era poi staccato da queste sue prime opere, aveva negato la validità di tutta la poesia antica e moderna. Ma Une saison en enfer, storia trasfigurata di tutta la sua esperienza umana, poetica e religiosa, registra e confessa già un’irreversibile sconfitta, che non lascia spazio a ulteriori tentativi.

I simbolisti s’interessarono molto all’opera di Rimbaud, per merito soprattutto di Verlaine, che incluse tra i suoi Poètes maudits (maledetti) anche il “ritratto” di Rimbraud e pubblicò le Illuminations e le Poésies complètes (1895). Ma si deve ai poeti, agli scrittori del Novecento, da Apollinaire ai surrealisti, la creazione di quel “mito di Rimbaud” che non cessa di esercitare la sua possente suggestione, con la sua angosciosa ricerca di bellezza suprema e assoluta, il suo messaggio di rinnovamento sociale, la sua rivolta e la sua sconfitta.

 

A diciassette anni Rimbaud scrive Le bateau ivre (Il battello ebbro), la più celebre delle sue opere, simbolo dell’anima inquieta dell’autore, in cui già si affacciano una stanchezza profonda di tutta la sua esperienza e un doloroso desiderio di rinnovamento. Une saison en enfer (Una stagione all’inferno) è una breve intensa opera in prosa in cui si risolve la crisi della sua giovinezza, una biografia spirituale in cui è stata vista un’ispirazione cattolica. L’aveva appena pubblicata quando decise di distruggere l’intera edizione, riuscendovi quasi.

Il testo del battello ebbro narra le visioni di un battello privo di equipaggio, abbandonato al suo destino e alle correnti di un maestoso fiume di una lontana America. Non a caso Rimbaud sceglie un fiume incontaminato nella allora primitiva America simbolo di libertà e istinto naturale ad evadere dalla innaturale seppure rassicurante realtà sociale, ed è qui che il battello-uomo si lascia trasportare dalla nuova dimensione fatta di sensazioni intense ed estenuanti che vengono affrontate dallo scrittore come una barca che anela il mare eppure lo teme.

Come accennato, la traduzione di Scotellaro è molto parziale, ma significativa. La prima quartina, a me pare volutamente, di difficile comprensione sembra così introdurre il sentimento di evasione-confusione del poeta. Il battello – dice il testo – non era più guidato controcorrente dai bardotti (il bardotto è l’incrocio tra asina e cavallo, diverso e più piccolo del mulo, incrocio tra asino a cavalla), inchiodati a pali colorati e bersagliati da pellirossa urlanti. Scotellaro scrive che il battello-uomo non è invece più guidato dalle alzaie (funi adoperate per trascinare controcorrente battelli, barche e simili) perché “dei pellirossa chiassosi li avevano presi a bersaglio/ avendoli inchiodati nudi ai pali di colore/. Bisogna evidentemente intendere che i pellirossa avevano inchiodato ai pali colorati i bardotti che, legati alle alzaie, trascinavano controcorrente il battello.

Le successive quartine non devono essere commentate: bisogna leggerle e godere la grande poesia che Scotellaro riesce a regalare, dando l’impressione che la traduzione (che è del 1943) non sciupa, come solitamente accade, l’originale.

 

Il battello ebbro

 

Come io discesi per dei fiumi impassibili

io non mi sentii più guidato dalle alzaie

dei pellirossa chiassosi li avevano presi a bersaglio

avendoli inchiodati nudi ai pali di colore.

 

Io ero noncurante di tutti gli equipaggi

portatore di grani fiamminghi o di cotoni inglesi.

Quando con le mie alzaie hanno cessato quei rumori

i Fiumi mi hanno lasciato discendere dov’io volevo.

 

Nei gorgogli furiosi delle maree,

Io, l’altro inverno, più sordo dei testardi fanciulli

Io corsi! E le penisole disormeggiate

non hanno subito caos più trionfanti.

 

La tempesta ha benedetto le mie veglie marine.

Più leggero d’un turacciolo io ho danzato sui flutti

che richiamano carrettieri eterni di vittime

dieci notti senza rimpiangere l’occhio balordo dei lampioni.

 

Più dolce che ai fanciulli la polpa delle mele acerbe

l’acqua verde penetrò la mia scorza di abete

e delle macchie di vino bleu e di vomiture

mi lavò disperdendo timone e ancorotto,

 

E da allora io mi sono bagnato nel Poema

del Mare, infuso d’astri e lattescente,

divorando gli azzurri-verdi: dove, ondeggiamento pallido

e rapito, un perduto pensiero talvolta discende.

 

La tête de faune (La testa del fauno). Il Fauno è una figura della mitologia romana, una divinità della natura, in particolare della campagna e dei boschi. Il suo aspetto ha forme umane, ma con i piedi di capra e con le corna sulla fronte. Più tardi fu fatto corrispondere al Satiro della mitologia greca, che era legato al culto del dio Dioniso (Bacco per i Romani).

Nell’epoca moderna i Fauni sono stati spesso soggetto di dipinti, sculture, poesie, nonché sono presenti in film e produzioni varie e sono rievocati in musica e in danza. La tête de faune è il contributo poetico di Rimbaud a tale figura mitologica, scritto a soli 15 anni,  tradotto da Rocco Scotellaro nel 1951.

TESTA DI UN FAUNO

di Arthur Rimbaud

 

Nel fogliame, scrigno verde macchiato d’oro

nel fogliame incerto e fiorito

di fiori splendidi dove il bacio dorme

vivace e scoppiante lo squisito ricamo

 

un fauno smarrito mostra i suoi denti bianchi.

Nero e sanguigno come un vino vecchio

il suo labbro scoppia in riso sotto i rami.

 

E quando egli è fuggito – quale uno scoiattolo –

il suo riso trema ancora ad ogni foglia,

e lo si vede spaurito da un uccello

il Bacio d’oro del Bosco, che si raccoglie

 

(1951)

 

 

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