Catullo – come si vedrà – definì libellum il suo Liber e nugae, ossia cosucce, i suoi carmi. Piangete, ragazze è la traduzione di Rocco Scotellaro del carme 3, che riprende uno dei temi più cari ai poeti ellenistiici: gli epigrammi funebri per i piccoli animali. Qui Catullo piange la morte del passero della sua fanciulla. Il carme 3 si collega al precedente carme 2, dove il poeta canta le delizie che il passero trasmetteva alla sua fanciulla, col quale lei scherzava, giocava e si trastullava. I due carmi si fondono in una sequenza di immagini di elegante erotismo.

Franco Vitelli, nella nota al testo dell’Oscar Mondadori 2004 di tutte le poesie di Rocco Scotellaro, p. xxxv, attesta che l’edizione utilizzata da Scotellaro è Poesie, testo latino a fronte, prefazione di Ambrogio Donini, Universale Economica Milano 1950. 

 

Lugete

 

Piangete, ragazze

Lugete, o Veneres Cupidinesque,
et quantum est hominum venustiorum:
passer mortuus est meae puellae,
passer, deliciae meae puellae,
quem plus illa oculis suis amabat.
nam mellitus erat suamque norat
ipsam tam bene quam puella matrem,
nec sese a gremio illius movebat,
sed circumsiliens modo huc modo illuc
ad solam dominam usque pipiabat.
qui nunc it per iter tenebricosum
illuc, unde negant redire quemquam.
at vobis male sit, malae tenebrae
Orci, quae omnia bella devoratis:
tam bellum mihi passerem abstulistis
o factum male! o miselle passer!
tua nunc opera meae puellae
flendo turgiduli rubent ocelli.

Piangete, ragazze e giovinetti

e cosa che ti commuovi sulla terra.

Il passero è morto alla mia bella,

il passero, gingillo della mia bella,

zinna degli occhi suoi.

Perché era dolce; e la riconosceva

come uno riconosce mamma sua

e non si distacca dal suo seno,

ma, zitto, intorno, di qua e di là,

soltanto alla padrona pigolava.

Ora va per un via all’oscuro

da dove non lo faranno tornare.

Maledette ombre nere che all’Orco

tutte le cose belle vi portate,

il passero mio bello vi pigliate.

O misfatto, povero passero mio

ora per amor tuo la mia fanciulla

a piangere tiene gli occhietti rossi.

 

Caius Valerius Catullus (84? – 54? a.c.)

Traduzione di Rocco Scotellaro, 1952

 

Catullo (Caius Valerius Catullus), poeta lirico latino (n. Verona 84 a. C. circa – m. non prima del 54). Di agiata famiglia, andò a Roma appena indossata la toga virile e fu accolto nell’alta società e nei circoli letterari più noti. A Roma avvenne l’incontro e sorse l’amore per la donna che doveva essere la gioia e la tragedia della sua vita di poeta e di uomo, che egli cantò sotto lo pseudonimo di Lesbia (il vero nome era Clodia, moglie di Quinto Metello Celere).

Clodia era una donna elegante, raffinata, colta, ma anche libera nei suoi atteggiamenti e nel suo comportamento: nelle poesie di Catullo abbiamo, così, diversi accenni allo stato d’animo provato per lei, a volte di affetto e amore, a volte di ira per i tradimenti di lei: tutto, fino all’addio finale.

Notizie della vita di Catullo e del suo travagliato amore per Lesbia si desumono dai suoi stessi carmi, dei quali egli fece non si sa quando una raccolta dedicandola a Cornelio Nepote. Ma il Liber giunto a noi, con i suoi 116 carmi, non contiene tutte le poesie composte dal poeta.

I carmi di Catullo si possono dividere in tre sezioni: 1. le cosiddette nugae, ossia cosucce (1-60); 2. i cosiddetti carmina docta (61-68), di maggiore impegno (65-68); 3. epigrammi (69-116) che per l’argomento non si distinguono dalle nugae.

I carmi del primo e del terzo gruppo sono pieni degli odî e degli amori di Catullo. Egli passa attraverso tutti i gradi del sentimento alternando ad accenti delicati espressioni violente e volgari. La figura di Lesbia, predominante, non ha mai l’aspetto di una finzione letteraria.

Catullo è uno dei più noti rappresentanti della scuola dei neoteroi, cioè «poeti nuovi», i quali si ispiravano a un nuovo stile politico che rappresenta una netta censura verso la poesia epica di tradizione omerica, per concentrarsi su tematiche legate a episodi semplici e quotidiani.

Catullo ha cantato la giovinezza e l’amore. I suoi carmi  denotano impegno compositivo: nella dedica a Cornelio egli dice che ha appena finito di levigare il suo libellum con la pietra pomice (arida modo pomice expolitum), a riprova del fatto che i suoi versi sono particolarmente elaborati e curati, e ad essi consegna la propria profonda e tormentata personalità, augurandone l’immortalità. 

 

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