Introduzione alla (ri)lettura dei canti popolari di Rocco Scotellaro
L’ultima sezione dell’Oscar Mondadori 2004 di tutte le poesie di Rocco Scotellaro, intitolata Canti popolari, comprende10 trascrizioni, 4 stornelli e 5 poesie dialettali. Materiali di questo genere non sono pubblicati nelle precedenti edizioni (E’ fatto giorno 1954 e 1982 e Margherite e Rosolacci 1978). Circa dieci anni dopo, tutto il materiale fu edito da Giovanni Battista Bronzini, professore ordinario di Storia delle tradizioni popolari nella facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari, Accademico dell’Arcadia e della Pontaniana e direttore di «Lares»[1]. Il libro, della cui gestazione e pubblicazione ero informato da Rocco Mazzarone, fu per me una rivelazione pur d’interessi e metodi di lavoro di Scotellaro, di cui, direttamente o tramite Antonio Albanese, avevo qualche cognizione, informazione o intuizione.
E’ un’emozione tornare a rileggere, venticinque anni dopo, pagine del suddetto libro, fondamentali per capire molto e meglio della poesia di Rocco Scotellaro, che mi auguro possano aiutarmi ad accompagnare con qualche parola utile queste prove di poesia popolare che ci accingiamo a rileggere. E con la riluttanza dettata dalla piena consapevolezza della mia estraneità alla materia, tento quindi di tracciare una breve introduzione, che ricavo estrapolando alcune righe dal denso volume di Bronzini. Di esso, inoltre, mi avvarrò per accompagnare con commenti ogni trascrizione, stornello e poesia dialettale. Credo, infatti, che chi non avesse avuto la fortuna di aver letto il libro di Bronzini non debba avere trovato facile e interessante la lettura di quest’ultima sezione delle poesie.
Bronzini è nativo di Matera e contemporaneo di Rocco Scotellaro, di cui per uno o due anni era stato compagno di adolescenza al ginnasio di Matera, per ritrovarsi a Bari e a Roma durante i primi anni di università, ed avere quindi avuto, verso la fine degli anni Quaranta, interessi comuni e qualche iniziale rapporto di lavoro. Ricevuto tutto il materiale (e vedremo che materiale) da Rocco Mazzarone, confessa di essere stato lettore saltuario, disattento e forse anche un po’ diffidente di Scotellaro, come spesso succede a chi, come lui, l’aveva conosciuto personalmente. Il suo interesse critico responsabile nei riguardi dell’opera letteraria di Scotellaro cominciò nel 1977, quando, per l’appunto, Rocco Mazzarone gli affidò l’incarico di esaminarne una sezione comprendente testi di canti popolari e altro materiale demologico, al fine di un’eventuale edizione. Leggendo quindi il materiale consegnatogli, Bronzini si convinse che l’interesse di quelle note e appunti non si restringeva all’àmbito strettamente demologico, ché, lungi dall’essere – come potrebbero apparire – occupazioni accessorie nei ritagli di tempo, facevano parte della progettazione e realizzazione delle prose e poesie di Scotellaro, nelle quali Bronzini dichiara di aver ritrovato, attraverso una lettura antropologica distaccata e consapevole, una profonda e consistente vena popolare. «E questa – conclude testualmente Bronzini – a fissare ora e ad analizzare i ricordi personali che ho di lui, si attaglia al Rocco che conobbi da vicino».
Le carte di Rocco contenevano testi popolari e non popolari, in dialetto e in lingua, e altro vario materiale di appunti e annotazioni d’interesse sociologico, demologico e antropologico, nonché poesie edite e inedite dello stesso Scotellaro.
Il modo disordinato in cui i testi di repertorio demologico furono raccolti da Scotellaro e lasciati sparsi su svariati pezzi di carta, intramezzati finanche a poesie sue[2], a Bronzini appare rispondente a un programma di lavoro connaturato con l’indole dell’Autore. Ciò che Scotellaro dichiarò per l’Uva puttanella parve a Bronzini che valesse anche per queste carte inedite:
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L’ordine che non c’è non lo troverete come è appunto nel grappolo d’uva che gli acini sono di diversa grandezza anche a volere usare la più accurata sgramolatura |
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L’ordine che non c’è – è la conclusione – non è, in effetti, disordine. Nel caso specifico risulta essere un pregio, non un difetto, perché si tratta di un misto di cose sentite come proprie, che fa ricordare altre celebri commistioni di analogo senso, come quella del quaderno di spese di Grapelino, il fedele servo di Matteo Maria Boiardo, dove egli trascrisse componimenti popolari e poesie del Boiardo.
Il caos delle carte di Rocco non rende certo facile la sistemazione filologica, ma acuisce l’attenzione dell’antropologo e ripropone il problema del rapporto tra folklore (o cultura popolare) e letteratura (cultura ufficiale). Perché l’importanza di questo materiale demologico o parademologico è duplice: da una parte esso conferma un incompiuto interesse scientifico di Scotellaro per la letteratura e la cultura in genere dei contadini e del mondo contadino; dall’altra attesta l’effettiva incidenza dell’immaginario poetico popolare nella produzione letteraria di Scotellaro.
Le oltre duecento pagine, che precedono la sistemazione dei canti, danno plastica dimostrazione dell’osmosi che fonde e separa i due registri.
Con tutta la cautela che ho il dovere di avanzare, mi pare che viene così stabilito il senso autentico e originale della poesia di Scotellaro, dove, come poi noterà Sebastiano Martelli, citato in un precedente post[3], si realizza «un incontro-scontro tra due codici, quello egemone e quello contadino subalterno» e i risultati sono quelli di una carica dinamica e internamente propulsiva che fa delle poesia di Rocco una cosa viva. Un senso che percepirà con nitore la sensibilità artistica dell’architetto Ernesto R. Rogers.[4] Sicché, con la ragione del cuore, parafrasando Sinisgalli, sappiamo che non può nascere un altro poeta come Rocco[5].
Nella produzione poetica di Scotellaro davvero convivono, come è scritto nella quarta di copertina dell’opera di Bronzini, i temi della sofferenza contadina nell’attesa del riscatto dall’oppressione e quelli personali esistenziali del poeta. La componente popolare, proveniente dalla cultura di base, e quella letteraria, derivata dai modelli della letteratura, trovano consonanza di temi, motivi, immagini e, talvolta, di concezioni ideologiche nella poesia di Scotellaro, mentre i rispettivi limguaggi s’impastano in un miscuglio assolutamente originale.
Le carte di Scotellaro sono divise nel libro in tre gruppi, contrassegnati con lettere dell’alfabeto maiuscole, con una numerazione progressiva dei testi di ciascun gruppo.
Il gruppo A comprende carte manoscritte da Scotellaro o dattiloscritte presumibilmente da lui stesso. I canti popolari raccolti in questo gruppo sono 129, ciascuno composto anche di più versioni del testo e della trascrizione in lingua di Scotellaro.
Il gruppo B comprende 22 carte manoscritte e 5 dattiloscritte. Si tratta di testi inviati a Scotellaro da amici, compagni di partito, anonimi informatori[6].
Il gruppo C comprende quattro quadernetti.
1° «Canzoni e proverbi popolari di S. Chirico Nuovo».
2° Contiene 4 raccontini, 2 strofette religiose, 3 proverbi, 2 indovinelli, un brindisi e «cose che si dicono in dialetto irsinese». Il quadernetto reca la dedica «Al professore Pedio con molti ossequi. Maria Mastroroberto-Mazzasetta». Irsina 30 novembre 1924.
3° Raccoglie versi per nozze datati dal 1886 e altri divertissiments conviviali ed occasionali di Vito Sansone di Bella (Basilicata), che si definisce nella dedica del primo carme nuziale «un più che settantenne vecchio cucco di poeta»
4° Versi popolari del sac. Nicola Tomasulo vergati da due mani su tredici pagine. La prima mano ha trascritto le prime tre pagine del quaderno (copertina, epitaffio funebre, l’ode per le nozze d’argento di Umberto e Margherita di Savoia, sovrani d’Italia. Di altra mano sono le successive pagine, dove si leggono in rima schermaglie politiche fra don Nicola Tomasullo, aspirante alla carica di consigliere provinciale di Bella, e il suo avversario Paolo Ferrone; fra don Puustulese e Grippo, aspiranti alla carica di deputati in Parlamento. Il paese è San Fele, l’anno il 1982.
[1]L’universo contadino e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro, Edizioni Dedalo, Bari, 1987, pp. 530.
[2] Anche per gli appunti dell’Uva puttanella Levi rilevò, dal modo in cui li trovò trascritti, che Rocco aveva «l’abitudine di mettere su carta (e spesso su foglietti microscopici, scatole di cerini, risvolti di buste, pagine di quaderni, pacchetti di sigarette) ogni cosa veduta, ogni immagine e sentimento ed espressione», citato da Bronzini p.229, n.
[5] Sei il simbolo di questo tempo,/ lo devi sapere povero amico,/ devi sapere che sei il re/malgrado la tua modestia. /Al confronto noi siamo bambini /che balbettano, non riusciremo mai/ a capire i tuoi calcoli ostinati. /Sappiamo però che non può nascere/un altro poeta finché ci sei tu/che ti affacci a guardare/così da vicino l’abisso. /Sei l’unico che deve vivere/fino al compimento dell’Opera. /I nostri sono destini trascurabili. La lettera di Cazalis a Mallarmé.
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