Canti popolari – Cinque trascrizioni
Sotto il titolo Canti popolari, nell’Oscar Mondadori 2004 delle poesie di Rocco Scotellaro, sono comprese 10 trascrizioni (ossia traduzioni di canti popolari di Rocco Scotellaro) 4 stornelli e 5 poesie dialettali. I canti popolari editi da G.B. Bronzini ne L’Universo contadino e l’immaginario contadino di Rocco Scotellaro, sia in lingua popolare sia nella traduzione di Scotellaro sono molti di più. Non so qual è il criterio e il carattere dello stesso che ha determinato la selezione. Ma siccome sono un semplice lettore e non un esperto, posso tranquillamente dire che tale scarto mi pare una grave limitazione. Per ora riporto i testi pubblicati nell’Oscar 2004, secondo l’ordine di pubblicazione, riservandomi, se ne sarò capace, di riferire, sia pure molto sinteticamente, il contenuto delle carte lasciateci da Rocco Scotellaro. Perché, se è vero che il dilemma poeta contadino o poeta letterario è improprio, a Scotellaro spetta il merito, come scrive Bronzini a p. 510 dell’Universo contadino, di avere rivendicato il valore sociale e culturale dell’autore singolo, contadino od operaio, dal testo di un canto popolare e di aver messo in evidenza la collaborazione fra intellettuali e contadini nella creazione di canti popolari di contenuto sociale.
In questo post riporto le prime cinque trascrizioni o traduzioni (Aprite le porte e le finestre; Se te ne vuoi venire alla mia vigna; Verde spina; Il pianto delle vedove), con brevi commenti che traggo dal volume di Bronzini. Al prossimo post le altre cinque trascrizioni.
Aprite le porte e le finestre
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Apritele le porte e le finestre facitele trasè l’amice vostre. Tanne lu core mio ià rallegrato Quanne la luce vere appizzicata.
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Aprite le porte e le finestre fateli entrare gli amici vostri. Allora il cuore mio è rallegrato quando il portone vedo illuminato.
[1951-52] |
Se te ne vuoi venire alla mia vigna
Nella colonna di sinistra è riportato il testo tradotto di Scotellaro, in quella di destra il testo in dialetto.
Il canto riporta in ambiente contadino l’avventura galante dell’innamorato che si introduce nel letto della bella trasmessaci da un rispetto del Trecento (cfr. Poeti minori del Trecento a cura di Natalino Sapegno, R. Ricciardi, Milano-Napoli 1952) e da una canzonetta dell’Ottocento (cfr. G.B. Bronzini, Appunti sulla canzone «Mi spoglio e mi rispoglio», Clizia, III, 1957, pp. 763-768; Idem, Come vive un’antica «Napolitana», «Cultura neolatina», XXV, 1965, pp. 195-235).
Ne L’universo contadino …sono edite due versioni del canto dialettale e due traduzioni di Scotellaro.
La versione dialettale qui non riportata ha il seguente finale, che non risulta tradotto: Si lu veresse ‘n mizzi a tanta gente, // ricesse: «Fighia rammameele a me». // Mamma mamma nin lo pozzi fane // nu cumpagne a me l’ha purtate l’ambasciata // e io a cosse me voghio spusane. Tra le due verssioni dialettali si registrano altresì (ad occhi profani) alcune altre minime varianti.
La seconda traduzione, anch’essa qui non riportata, traduce in parte il testo in dialetto, fino ai versi: Amante Amante lascia star le menne // fammi che devi perché viene mamma. // – O mamma mamma, il serpente mi ha punto // un palmo sottoposto all’ombelico. Questa versione ha il titolo: Il serpente mi ha punto, sicché il tutto (titolo e traduzione parziale) farebbe supporre un diverso progetto creativo di Scotellaro.
Se te ne vuoi venire alla mia vigna il letto te l’ho fatto di gramigna. Ho preparato un letto di gramigna e i cuscini di crine di canna.
Fui alla vigna e non ci fossi andato trovai la mia bella coricata. Stava scoperta fino all’ombelico, io piano piano le toccai il polso. Piano piano io le toccai il polso ella si risvegliò tutta spantosa: – Amante, amante lascia star le menne fammi che devi perché viene mamma!
– O mamma, mamma, il serpente mi ha punto un palmo sottoposto all’ombelico. Un palmo sottoposto all’ombelico tutta la pancia mi sento gonfiare! – – Codesto non è serpe che ti ha punto è stato il proprio amante ti ha ingannato! – – O mamma mamma non lo bestemmiare perché è un giovinetto che mi vuole. Se lo vedessi in piazza a camminare egli è il migliore di tutti quanti. Se lo vedessi in mezzo a tanta gente, diresti “Figlia lo vuoi dare a me? – Mamma mamma non te lo posso dare egli è quello che mi voglio sposare. –
[1952]
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Bella fighiola, si vuò venè alla vegne lu litte l’agge fatte ri gramegne. Lu litte l’agge fatte ri gramegne e li cuscini ri cime ri canne.
Scette alla vegne e nen ci avesse sciuto truvaie la bella mia alla culcata. Stacia scuverta fine allo vellico chiane chiane li tuccaie lu puzo. Chiane chiane li tuccaie lu puzo eddi mò si svegliaie tutta spantosa. Amante amante assa scè le menne famme ce m’aia fa po’ vene mamma.
Mamma mamma ca lu serpe oi m’à cighiate nu palmo sottasposto allu vellico. Nu palmo sottaposto allo vellico tutte la panze me sente da gunfià. cosse nen ià serpe ca t’à cighiate è state lu proprio amante ca t’à ngannate. Mamma mamma nun lu astemà ca ià nu giuvinille ca me vole a me. Si lu veresse ‘n piazza de cammenà Éddi ià lu meghio de tutti quanti. Si lu veresse ‘n mizze a tanta gente, ricesse: «Fighia rammele a me». Mamma nel tu lu pozzo dare ca ie a codde me voghio spusare
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Verde Spina
Riporto due traduzioni di Rocco Scotellaro: nella colonna di sinistra è pubblicata la trascrizione dell’Oscar 2004, nella colonna di destra la versione edita nell’Universo contadino…, che ha la variante dell’aggiunta, dopo il quarto verso, dei due versi in corsivo.
Sotto sono riportati due canti in dialetto, editi nell’Universo contadino: una versione dialettale di Spinoso nella colonna di sinistra e a destra una melfese; nello stesso volume sono inoltre citate, a pag. 209, coi relativi riferimenti bibliografici,varianti calabresi e molisane e una versione lucana di Bella
Vorrei diventare verde spina e nella strada tua vorrei piantarmi. io per gonnella vorrei acciuffarla. – Allora ti lascerò, Ninnella mia, c allora ti contento Ninno mio. Ora vi andai dopo maritata: – Sarebbe peccato, disse, ingannarlo! più fesso fosti tu, che vuoi da me?- [ 1952]
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Vorrei diventare verde spina e nella strada tua vorrei piantarmi. io per gonnella vorrei acciuffarla. – Ed ella mi direbbe: Dio mio, sei verde spina e non mi vuoi lasciare. – Allora ti lascerò, Ninnella mia, c allora ti contento Ninno mio. Ora vi andai dopo maritata: – Sarebbe peccato, disse, ingannarlo! più fesso fosti tu, che vuoi da me?-
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Vurria rivindare verde spina, ‘mmiezzo a la chiazza mmi vurria piantare; po’ nc varchesse chillu ninno mio, pri cavuzunciello lu vurria tirare. Idd ssi vota e dice: – ‘dDio mmio! ‘Sta verde spina nu’ mmi vvo’ lasciare. – «I’ nun ti lasso, ca ti voglio bene: ammami, ammore mio, ca pe’ te moro»
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Vurria divintà na verde spena, ‘mizz la chiazz m vurria chiantare. Passa la bella mei la matena, p la unnella la vogli angappare. «Oddio che vole da me sta verda spena, m’hava angappata e no m vole lasssare». «Tann t lass a te bella gigliola, quann lu cilu firnisce e ie n moro».
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Il Pianto delle vedove
Fra le carte di Scotellaro non è stata rinvenuta la versione dialettale del testo tradotto, riportato nella colonna di sinistra, né questo testo corrisponde alle versioni sullo stesso tema registrate in Toscana e nelle regioni meridionali (L’universo contadino, pag. 297, dove si riporta, come esemplare del tipo più corrente, quella di Pietrastornina, Avellino, riportato nella colonna di destra).
Il pianto delle vedove è a sera quando tornano gli uomini da fuori. Io vedo gli uomini che vanno e vengono solo l’uomo mio non torna mai.
[1952]
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La vedovella quanno ‘u fa lu lietto co’ gran sospire vota le lenzola; po’ sse mena le mane pe’ lu pietto, «so carni cheste de dormire sola? » |
Vorrei
Nella colonna di sinistra è riportato il testo tradotto di Rocco Scotellaro e, in quella di destra, la versione dialettale, che varia solo per la fonetica da altre versioni lucane, come quella stiglianese. Si tratta di un motivo svolto in strambotti di tipo meridionale dell’area napoletana. Nell’Universo contadino è altresì pubblicata una variante lucana aggiunta alla versione potentina del canto del bracciante, che pure riporto.
Vorrei salire al cielo se potessi a una scaletta di trecento passi, in braccia alla mia bella mi trovassi!
[1952] |
Vurria nchianà li cili si putessi chi na scalelle ri tricinte passe avia arrivà lu mizzi si spezzasse nbrazza alla mia bella mi truvasse
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Vuless sagli n’ ciel si putess cu na scaletta di tremila passi arrivassi alla metà e si spezzassi e sott la mia bella m’abbracciass.
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