NEVE. Mio padre, Nel trigesimo di mio padre, La benedizione del padre, Per il camposanto, Così papà mio in America
Le cinque poesie di Neve, dedicate al padre, ne tracciano la biografia (Mio padre), lo ricordano nel trigesimo (Nel trigesimo di mio padre) e dopo sei anni dalla morte (La benedizione del padre), gli chiedono scusa se Rocco non lo saluta quando passa davanti al cimitero per la passeggiata (Per il camposanto), e ricordano la dura vita da emigrante in America (Così papà mio in America).
Mio padre è una bellissima poesia, fra le più conosciute di Scotellaro. Dopo la stupenda apertura ( Mio padre misurava il piede destro /vendeva le scarpe fatte da maestro / nelle fiere piene di polvere ), nella seconda e terza strofa il racconto sembra prendere una piega epica: (Tagliava con la roncella / la suola come il pane / una volta fece fuori le budella / a un figlio di cane. / Fu in una notte da non ricordare / e quando gli si chiedeva di parlare / faceva gli occhi piccoli a tutti). Ne parla, invece, proprio Rocco[i]:
Una sera, tu ti eri innamorato della serva del sindaco, che era di un paese della marina, bellissima a meraviglia, ti venne in mente di portarle la serenata.
C’era un pretendente di lei che aveva un suo zio anch’egli al servizio del Sindaco. Quando la serenata finì e il sindaco venne fuori con l’orciuolo pieno di vino per complimentare i suonatori, era presente il domestiico; al giro l’orciuolo fu subito vuoto e mancava il bicchiere per il domestico. – Te lo farò uscire di sangue! – così ti disse. Egli solo sapeva per chi andava la serenata, non per il sindaco.
Tutto finì. Il pretendente andò da suo zio: – Hai visto, lui porta le serenate e tu niente mi fai fare, vedremo chi la vincerà.
– Togliti tu, me la vedo io, con la sua pelle si farà le scarpe.
Questo domestico, scornato, quella stessa sera volle mettere a terra il suo piano di vendetta. Era ammogliato, ma non si esclude che, fingendo di dare la sua giovane bellissima collega al nipote nutrisse per lei una nascosta passione. Si armò dell’accetta e girava per la via centrale dalla piazza alta a quella bassa.
Alla sera a notte, Carmela disse a zio Innocenzo:
– Cugino, va a prendere Pietro con la lanterna al Seminario.
Pietro, suo marito, faceva il cuoco ai seminaristi.
Mentre zio Innocenzo entrava al seminario, si sentì chiamare e il servo del sindaco lo afferrò alle spalle:
– Dov’è tuo fratello?
– Che ne devi fare ?
– Gli devo fare la pelle.
– Tu7 – fece zio Innocenzo alzando la lanterna e nascondendosi la mano offesa. Il servo gli ruppe la testa con un’accettata, da terra lo presero alcuni amici e lo ricoverarono in casa loro.
– Lo sapesti, corresti al punto vicino al Seminario e trovasti il servo che ti mise in mezzo alle gambe e ti ferì al collo, ma allora ti sentisti in petto il coltello, che venne fuori da sé dalla tasca della giubba: spingendo la mano per sotto, il coltello aprì il ventre del servo e uscirono gli intestini. [ … ]
Tutti vi vollero bene, i calzolai, i contadini, le autorità, il segretario comunale, il prete, la moglie dell’ucciso, che venne dal presidente a scoprirsi la veste per far vedere i lividi avuti dal marito. Così arrivò l’assoluzione per legittima difesa, la banda calò al ponte del fiume a suonare il saluto ufficiale e il ritorno alla libertà. C’era il clarinetto e c’era il nipote del servo ucciso, che aveva preso il posto di zio Innocenzo a suonare il tamburo.
Nella terza strofa Rocco ricorda il padre giovane e il suo temperamento ribelle specie contro l’ingiustizia fiscale e la prepotenza dell’agente delle tasse. Invecchiando subentrano la stanchezza e la delusione, e anche nella poesia si spegne l’aria iniziale in cui si specchiava la figura del maestro calzolaio. Ora è un ciabattino, che non spera più ( Allora non sperò più / mio padre ciabattino). La vita degrada verso la morte e la poesia nel distico finale registra uno scarto stilitico.
MIO PADRE
Mio padre misurava il piede destro
vendeva le scarpe fatte da maestro
nelle fiere piene di polvere.
Tagliava con la roncella
la suola come il pane
una volta fece fuori le budella
a un figlio di cane.
Fu in una notte da non ricordare
e quando gli si chiedeva di parlare
faceva gli occhi piccoli a tutti.
A mio fratello tirava i pesi addosso
che non sapeva scrivere
i reclami delle tasse.
Aveva nelle maniche pronto
sempre un trincetto tagliente
era per la pancia dell’Agente.
Mise lui la pulce nell’orecchio
al suo compagno che fu arrestato
perché un giorno disperato
mandò all’ufficio il suo banchetto
e sopra c’era un biglietto:
«Occhi di buoi
fatigate voi».
Allora non sperò più
mio padre ciabattino
con riso fragile e senza rossore
rispondeva da un gradino
‘Sia sempre lodato’ a un monsignore.
E si mise già stanco –
dal largo mantello gli uscivano gli occhi –
a posare sulla piazza, di fianco,
a difesa degli uomini che stavano a crocchi.
E morì – come volle – di subito,
senza fare la pace col mondo.
Quando avvertì l’attacco
cercò la mano di mamma nel letto,
gliela stritolava, e lei capì e si ritrasse.
Era steso con la faccia stravolta,
gli era rimasta nella gola
la parola della rivolta.
Poi dissero ch’era un brav’uomo,
anche l’agente, e gli fecero fratuono.
(1948)
Nel trigesimo di mio padre. I primi due versi del testo originale (Montagne di nuvole brune / sui fuochi del tramonto), insieme con un settimo verso (era un lento pensiero della vita), sono espunti nell’edizione Levi. Scrive G. B. Bronzini[ii] che Levi fece bene ad espungerli, perché smorzavano l’efficacia veristica della scena, che sembra essere proprio di ambientazione malavogliesca. La scena è della famiglie del vicinato riunite.
«« Stesso ritmo e stessa atmosfera di questi due passi:
Era una bella sera di primavera col chiaro di luna per le strade e nel cortile, la gente davanti agli usci. […]. Ora non si vedrà più il lume di compar Alfio alla sera, – disse Nunziata, – e la casa rimarrà chiusa-
Una sera si fermò sulla strada del Nero Alfio Mosca, col carro, che ci aveva attaccato il mulo adesso, […].
[…] quando stavamo a chiacchierare da un uscio all’altro, e c’era la luna e i vicini discorrevano lì davanti; […].
« Il vicinato è quel ristretto spiazzo simmetrico in cui si consuma la propria vita di fanciulli. Con esso si misura nel ricordo la propria condizione attuale. Scotellaro vi si riconosce vinto con « le carni verdi del fanciullo battuto » in Storiella del vicinato[iii], che è tutta imperniata su questo amaro confronto.
« Il vicinato, che da ambito spaziale diventa istituto sociale con le sue norme, le sue tensioni e la sua funzione di comunicazione interna, ricorre come motivo formulare nelle serenate tradizionali lucane («Mi part da luntane e da Cusènz, / veng a cantà nda stu vicinanz») e con la stessa funzione ricade nel racconto de L’Uva puttanella:
« Andò alla finestra:
Vicini che dormite, risvegliatevi
Ho contrattato di vendere, ho già venduto
L’ultima figlia mia, risvegliatevi
Bella nottata fresca, Francesca se ne va.
« Erano parole che uscivano tra le corde.
« I compari del vicinato vennero e le canzoni del fabbro, fatte più allegre e piccanti, durarono fino al mattino. [iv]»»
Montagne di nuvole brune
Sui fuochi del tramonfo
In quei viottoli neri
una serata di queste,
sedevano le famiglie dopo cena
ai gradini delle porte,
contavano i defunti e i nati
dell’estate che correva.
E il contadino tardo che trascorse
per i monti sul mulo
con l’ultimo raccolto
passava salutando i suoi compari.
Una porta era deserta
del compare scomparso un mese fa.
(1942)
Con La benedizione del padre Rocco si rivolge in modo accorato al padre, ne ricorda gli insegnamenti e misura il tempo (sei anni) che è passato dalla sua morte, un tempo lungo « che tu pare non sia mai esistito ». La poesia è del 1948 e il quinto verso dice « Mi hanno messe le manette già una volta », alludendo a un breve fermo che Rocco subì nel 1948 – episodio poco noto -, nell’ambito della vicenda per cui subì l’ingiusto arresto due anni dopo.
LA BENEDIZIONE DEL PADRE
Oggi fanno sei anni[vi]
che tu m’hai lasciato, padre mio.
Attento, dicesti, figlio mio
in questo mondo maledetto.
Mi hanno messe le manette già una volta,
sto bussando alle locande per un letto
ed arrivo così lontano
che tu pare non sia mai esistito.
(1948)
Rocco chiede scusa al padre se, passando davanti al cinitero per la passeggiata, non lo saluto. E ricorda. Per il camposanto è la poesia che ho sentito recitare più spesso da Rocco. Recitare è la parola giusta, perché Rocco si divertiva a rifare la scena, sceneggiando il gesto imperioso e la voce severa del padre. Tornando dopo i giochi e avendo salito di corsa le scale, irrompeva in casa tutto accaldato, sudato e ansimante, senza salutare. Specialmente se c’erano ospiti, il padre levava il braccio con l’indice teso verso la porta, intimandogli : « Fuori! Torna e dici buona sera ».
Allora non c’erano automobili, tranne quelle dei noleggiatori. Nella passeggiata sulla via Appia, fino a Santa Maria, si riversava tutto il paese. Era un bel momento di svago e di serenità e, passando davanti al cimitero, qualcuno faceva il segno della croce, non tutti, pochissimi si ricordavano dei loro morti.
PER IL CAMPOSANTO
Quando passo, per la passeggiata,
avanti il tuo cancello,
papà mio bello
che stai di casa oltre la murata,
allora c’è la pica, se è sera, che ride,
sono scostumato ché non ti saluto:
mi rimandavi indietro sulla porta,
avevi ospiti e forestieri,
perché imparassi a dirti buonasera.
(1948)
Così papà mio nell’America, presente solo nell’edizione Levi, la riporto benché in contraddizione con la scelta di privilegiare l’edizione Vitelli, che è quella filologicamente più vicina alla raccolta curata dallo stesso Scotellaro. Non può essere lasciato cadere l’interessante capitolo Tradizione simbolica nedievale: luce e cammino, che consiglio di leggere per intero, de L’universo contadino e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro di Bronzini[vii]. Ne astraggo qualche passo aventi come riferimento il «cammino», negli ultimi versi della poesia:
Così Papà mio nel’America
stette degli anni a camminare
e poteva anche cadere
nessuno lo avrebbe chiamato.
«« Il camminare è un bisogno della vita: si vive camminando, secondo un’antica concezione proveniente dal mondo primitivo e cristianizzata, che è rimasta profondamente impressa nella mentalità contadina. E’ naturale quindi che la parabola della vita umana venga delineata anche poeicamente con le metafora del cammino, che ben collima col nomadismo reale del Kirghiso pastore leopardiano errante per l’Asia »».
Lo studioso materano ricerca quindi i riferimenti al camminare e al camminante in poesia e in prosa di Scotellaro, che lo porta a delineare, dall’analisi dell’opera scotellariana, la straordinaria costruzione di un sistema paura ↔ ansia, «« che riflette un antico e rinnovato comportamento di crisi esistenziale, di cui [si trova] un singolare ricalco dantesco ( di Dante personaggio che tenta di salire la montagna sacra ed è ostacolato dalle belve e sta per essere vinto dalla paura della loro ferocia nell’oscurità della selva, allorché si rincuora alla vista del sole) nell’episodio, rappresentato per iscritto da Chironna evangelico, del suo attraversamento della foresta di Brunswich (Canada), dove, emigrato col padre, all’età di 11 anni, lavorava per la costruzione di una ferrovia[viii]»», come pure nell’analoga situzione esistenziale raccontata, «« con lo stesso modulo medievale, da Giappone, compagno di carcere di Rocco, nell’ultima strofa delle Memorie della mia vita:
E io, tra monti e valli, sfiderò la mia sorte
fra boschi fitti inzinnati pietre
sarà lì il regno della mia morte
con guardie gigantesche e bestie nere[ix] »»
«« Ma, più della presenza nominale o letteraria, ci interessa quella sottesa e reale, che fa di Dante smarrito nella selva un personaggio simbolico in cui si riconosce il contadino o il pastore lucano, insidiato nella masseria o nell’ovile dalla paura, che il vento gli porta e gli toglie, del lupo. Una paura reale che viene così rappresentata dal vivo da Scotellaro:
Ma là, fuori la masseria,
oltre il pontone
vicino alla pineta
è l’ululare del lupo inferocito
è il grido selvaggio delle agnelle
che corrono oltre il placido Basento.
Il vento che mi ronza tutt’intorno
m’appaura : giaccio.
Più tardi all’ombra della luna piena
è il cane, è il pastore
che lotta con la belva
e poi la fuga per la vita
là nel bosco dove il lupo azzarda
l’imboscata, dove rimane
con la gola squarciata.
E’ il vento che mi porta il sonno
ora che nell’ovile è morta la paura.[x]
«« Ciò non vuol dire – si badi – che Dante possa essere considerato un’altra delle fonti o suggestioni letterarie di Scotellao, da affiancare tout court a quelle di poesia moderna e contemporanea (Pascoli, Leopardi, Corazzini, Moretti, Quasimodo, Ungaretti). Il problema è diverso, in quanto il poeta non sembra attingere e neppure ispirarsi direttamente: è la ideologia contadina che gliene propone strutture mentali análoghe della società e corrispondenti forme espressive, penetrate nella cultura popolare e trasmesse dal Medioevo a oggi. Certe fasi storiche della cultura, come quelle del cristianesimo evangelico e medievale, sono rimaste indelebilmente impresse nella ideologia contadina e ne fanno parte integrante »»[xi]
COSI’ PAPA’ MIO NELL’AMERICA
E queste sono lucciole traverse
nella mia strada le ragazze pinte
e so che il mio nome non lo gridano
è scritto in un libro di pensione.
Così Papà mio nel’America
stette degli anni a camminare
e poteva anche cadere
nessuno lo avrebbe chiamato.
(1948)
[i] Rocco Scotellaro, L’Uva puttanella .Contadini del Sud, Editori Laterza, Bari-Roma, 2000, pp. 8 – 10.
[ii] G.B. Bronzini, L’universo contadino e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro, Ed. Dedalo, Bari, 1987, pp. 64 – 75.
[iii] Storiella del vicinato è un poesia compresa nella sezione Eli Eli, settima del parte prima di E’ fatto giorno.
[viii] Il racconto si legge in Rocco Scotellaro, L’Uva puttanella .Contadini del Sud, Editori Laterza, Bari-Roma, edizione riveduta da Franco Vitelli UP- CdS, p. 240
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