Il frammento 1 dei Frammenti e Appunti dell’UP (in USDB, p. 105) espone il nucleo di realtà che dà avvio al racconto:

     Rocco si dimette da Sindaco. Dovrebbe mettersi a lavorare; per istinto si dirige alla vigna di famiglia, convinto che fare il contadino è l’unica soluzione moralmente e materialmente possibile nel paese.

     Nella vigna passa un giorno pieno di memoria della sua infanzia, dei fatti e di alcuni personaggi, Pasquale il Fuochista, Don Pancrazio.

 

     Il passaggio dalla realtà all’invenzione dà al racconto il ritmo di una fiaba. Il motivo iniziale della «fuga» si concretizza con l’«uscita» clandestina dalla casa nell’ora pomeridiana, attraversando il paese in direzione del monte, una «uscita» dal paese ‘reale’ verso la campagna (non, dunque, ancora «passaggio alla città»), per un ritorno al paese ‘simbolo’ con la «passeggiata alla vigna. Ispira, inoltre, impressioni sentimentali e suggestive immagini letterarie «la nostalgia ritornante fra i lontani monti degli Alburni, le malinconiche note dell’organo di Sicignano, l’accorata rievocazione del padre e i tanti rimpianti di una esistenza, breve e tormentata») (G.B. Bronzini, L’universo contadino e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro, p. 127).

     L’uscita clandestina dalla casa è il racconto del primo capitolo della Parte prima, che segue:

Parte prima

I

    

     Uscii per la seconda porta di casa, che mena alla parte a monte del paese; con la borsa che avevo, ognuno, dallo spiazzo di sant’Angelo fino in campagna, mi chiese con meraviglia dove andavo, perché sapevano tutti che sarei dovuto partire e pensavano a una delle solite improvvise decisioni: quando mi caricavano troppo, io ero solo di fronte ai loro malanni, alle loro  grida, ai loro problemi recenti e remoti, taluni irrisolubili e disperati, allora prendevo il biroccio o la corriera o mi mettevo la via sotto i piedi, dovevano lasciarmi stare, si dispiacevano per avermi irritato, tornavano calmi ad aspettare il mio ritorno e le risposte  che potevo alle loro domande.

     Con questa borsa, se non partivo, dovevo apparire stravagante, io stesso credevo di sapere le loro supposizioni e i commenti, altre cose pensavo da me così  che questa passeggiata alla vigna con la borsa era e non era per un viaggio, per una visita alle ciliegie, a un posto senza vento dove leggere e studiare, per una partenza clandestina, per un saluto ai morti.

     Mi stavo appunto avviando, in prima, verso il Cimitero, che è di fianco al paese, sulla grande strada, nella piega di due colline: da tutte le finestre e balconi si può vederlo di fianco con pudore, lì stanno i nostri morti nudi, di lì misurano loro puntualmente la nostra fedeltà.

     Mi succedevano tanti fatti, e la decisione di abbandonare il mio posto era stata così necessaria che mi paresse dovessi trovarmi avanti un insospettato squarcio di luce e una freccia certa di direzione, che al bivio presi la grande strada per il Cimitero.

     Erano le prime giornate di maggio: sotto la cava  dove la rotabile è dritta a rettifilo, si vedevano gruppetti a passeggio dietro di me, dal convitto stavano  per uscire le studentesse nei grembiuli neri per le  prime passeggiate dell’anno.

     Il Maestro Contino si distingueva con le sue mani legate dietro, i preti erano più avanti, per non imbattermi in loro ritornai sui miei passi. Presi per la via  Comunale del Corneto, che si prolunga – a ridosso  del Camposanto – fin sotto la grande Pietra, tra le vigne e gli ulivi, e si affaccia sul fiume. Tornava gente dalle vigne. Mi disse uno il posto buono, parato dal vento, dove avrei potuto leggere e scrivere. Ripensandoci, con la borsa per la campagna, era difficile non destare stupore: Ieri avevo lasciato il mio posto, oggi venivo al Corneto, come Carmelo, l’artista, Giuseppe, il pensionato, Pasquale, l’anarchico. lo potevo dare  all’occhio come uno di questi che non chiedono e  non danno ormai più il saluto a nessuno, prendono  le vie solitarie, di notte e di giorno, sono spaesati o  pazzi, uccelli senza nido.

     Incontrai, difatti, Giuseppe e mi chiamò e lo scansai a fatica, fui fortunato che nessuno ci vedesse: Via  del Corneto è quella che è a presa diretta, subito  dopo le ultime case, per chi perde la fede negli uomini.  Si incomincia di là. Nicola, lo studente fallito, cominciò di là per scampare alla monotonia e alla vergogna, poi le notti di luna lo trovarono i soldati che tornavano a licenza sul Ponte dell’Acqua a leggere i giornali, fu visto dai contadini e dai cacciatori nelle macchie, terrorizzò le donne che andavano a legnare nella Serra, fino a quando si buttò in una cisterna.

     Errava invitato dallo spirito maligno, che alla cisterna lo sedusse: venne il facchino, dopo molti giorni, a tirarlo con le funi; il facchino è sulla piazza, carica i traini di vino, i camion di grano, scarica il cemento e lo zolfo, di Nicola non vuole sentir parlare, erano  diversi, si odiavano a morte.

     Ritornai al bivio e per le case popolari, mi diressi alla vigna di famiglia, che si stende come un panno appeso, sui valloni che vanno verso il fiume. Ma anche per questa direzione io dovevo stupire se vedendomi le donne mi chiedevano: – E che? – tacendo il resto.  lo dicevo subito: – Alla vigna – e le faccie si distendevano, rimanevano però le voci loro dietro le mie  spalle.

     Veniva dalla città la giardiniera di un padrone, rombando, con la seconda, in curva. Lui mi vide, solo così, scendere per la campagna, mi salutò al parabrezza, ossequioso, togliendosi il cappello e mosse le labbra.  Certo mi stimò la prima volta perché abbandonavo  così apertamente un mondo di passioni e inimicizie  che non mi convenivano. Molti dicevano di volere il mio bene, anche quel padrone e mi indicavano la via della stazione, la scorciatoia per andarci prima è proprio quella che passa per la vigna: volevano per il mio bene che spendessi altrove il cervello e il cuore, mentre qui, servo degl’ignoranti, dei rivoltosi, degli scontenti, mi sciupavo i nervi e le inestimabili energie.

     Dalla rotabile si attacca in basso la mulattiera per la vigna tra due pali della linea telefonica, pieni di vento e di parole; da bambino ci mettevo l’orecchio.

     Nel triangolo tra la rotabile e il sentiero i cardi ingigantivano attorno al deposito del letame, veniva il  tanfo delle carogne delle bestie seppellite. Sovrastante un contadino, se ne andava con due caprette per i margini, mi stette a spiare dal paracarro e mi dette  la voce. Ma le mie parole non gli giungevano, tra il tanfo e il vento del telefono, che lui continuava a dire: – Alla Stazione? Il fiume come lo passi? è pieno!  – Arrivai presto al vignale, abbandonando la mulattiera, fui subito nel grano che cresceva e nelle erbe altissime.  Tra queste erbe si aggira il vignale, tenuto dalla fabbrica di pietre come un vaso, e cominciano le viti, piccole foglie verdi, e i grappoli già formati, minuscoli come neonati. Sotto la prima fabbrica del vignale, il fondo è di un altro, c’è solo il passaggio che consente di metter piedi nella vigna. Il convicinante lavorava, solo lui seppe chiedermi se ero venuto per una passeggiata. – La campagna è buona – disse – quest’anno, se si mantiene -. Saltai per le erbe del passaggio, tra gli alianti, per poco non cascai nel fondo del convicinante perché c’era una caduta di pietre della fabbrica, e l’altro si guadagnava la terra che scendeva.

     La vigna non era stata ancora zappata, aveva ragione il padre a predire che, morto lui, i figli saremmo stati dei vermi. Era il turno del fratello Paolo, quell’anno a lui toccava coltivarla e prendere i frutti; lui se ne stava a lavorare in città, impiegato al Dazio e  consumo e gli piaceva, a Settembre, portarsi moglie  e figli e smanicarsi e imitare il padre facendo attenzione  alle femmine che vendemmiavano, agli uomini che  riempivano i barili, agli altri con i muli che trasportavano, era buffo.

     Scesi tra le viti, è una scala questa vigna, ripidissima, a terrazze, fino giù alla linea di alianti sull’ultima fabbrica.

     Si arriva alla casetta che guarda in giù, coperta di lamiere tenute ferme da grosse pietre. I passi sono veloci fin là, poi si svolta a destra nella breve cunetta trasversale, dove il piede si ferma e si può toccare la casetta con la mano. Una volta c’erano due sorgenti di rose e di edera che coprivano le canne erette e davano l’ombra con le viti alla stretta rotonda, avanti la casetta. Erano ora rimasti il filo di ferro tra le canne e le lamiere, nudo e arruginito, e sarmenti secchi nella rotonda.

     Andai subito a leggere lo scritto, c’era ancora, indelebile, fu un vignaiuolo a farlo su un battente della porta, accanto alle aste contorte di mio padre che significavano i barili di vino man mano che si trasportavano e per ogni gruppo di aste, nere come formiche, era indicato l’anno: 1927, 1928 e così fino al ’41.  «Chiunque abita in questa casetta che si ricordi che è fortunato perché io ho trovato due soldi affumicati dentro la cenere del focolare». Il vignaiuolo, che era praticamente aiuto di mio padre, ottimo potatore, fu  poco fortunato, ebbe in pochi anni. una serie di figli,  poi ci fu la tempesta che si vendemmiò la vigna, un  anno di disgrazia, e preferì ritornare al lavoro giornaliero di bracciante e decadde sempre più. Fece un  figlio barbiere, un altro muratore, gli altri sono piccoli, ora è sulla piazza alto, sdegnoso delle lotte sindacali,  un contadino fallito, alla mercé dell’assistenza. lo ricordo lui e ricordo mio padre, ricordo il cammino  che ho fatto, che non era segnato in quelle parole di  augurio per due soldi affumicati.

     Adesso ero solo, svolsi la borsa, trassi fuori un libro per leggere, accesi la pipa: era scomodo sedere sulla pietra o addossato ai sarmenti, o sulla terra nuda, che aveva la crosta sottile, appena calda del primo sole.

 

 

 

 

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