L’UVA PUTTANELLA – Parte I, Capitoli II e III – Racconto della vita del padre di Rocco
L’Uva puttanella – si è visto – è il racconto incompiuto e frammentato di una vita, che trae ispirazione dalla fuga alla vigna del padre. Il racconto compiuto si divide in tre parti, ciascuna delle quali si divide in capitoli. Parti e capitoli non hanno titoli: sono indicati in ordine numerico crescente in lettere le parti e in numeri romani i capitoli.
I capitoli II e III della Parte raccontano il padre di Rocco: dalla nascita alla giovinezza segnata da una tragica esperienza nel capitolo II, al fidanzamento con Francesca, la madre di Rocco, nel capitolo III: un capitolo breve, che ci consegna pagine tra le più delicate e tenere che Rocco ci abbia lasciato.
Il capitolo II ha pagine di intensa forza drammatica, che ci comunica il grande affetto tra i due fratelli Vincenzo e Innocenzo, assorbito puro e intenso dalle due famiglie nonostante le opposte scelte politiche compiute quando la democrazia ci fu restituita.
Fatti questi brevi cenni, per non appesantite in lunghezza e spezzare l’unità dei due capitoli di seguito pubblicati, rimando il commento al prossimo post.
Colgo l’occasione per augurare buona Pasqua.
II
Tra le viti e gli alberi, sono attento ai piccoli rumori: le foglie delle canne, lo sventolio sui rami, un sasso che rotola, uno scarabeo che si arrampica, le lucertole. So che questo posto ti piaceva, padre, più che ogni altro, mamma non vuol venire mai sola perché ti incontra vestito da serpente o ti ode borbottare sotto le fabbriche.
Questo tra tutti è il posto, dove sei rimasto, qui, potando, mi dicevi la tua vita: per guadagnare fosti l’unico, da bambino, a dar la scalata al balcone di un vecchio che da tre giorni non apriva la sua porta, lo trovasti addossato alla panca, col capo su una spalla e le mani puntate a terra, apristi la porta ai carabinieri dicendo «Zio Giovannino non si muove più» e ti regalarono.
Non eri dolce, se ti bisognavano due soldi i giorni di fiera per le nocelle e il torrone: prendesti una volta il piccone per tirare i gradini della scala finché tua madre non ti pagò i divertimenti. E cominciasti la vita, tuo padre alto e fino ti fece scarparo e bandista come lui, come gli altri fratelli. Tua madre andava levando i bambini, quasi tutti li ha presi lei in mano dal ventre delle mamme, si alzava di notte alle chiamate, portando con sé la sacchetta dei soldi, appuntata con le spille dentro la sottana. Tu dovevi seguirla a trasportare il seggiolone, dove doveva sedersi per arrivare ai letti alti. I giorni di battesimo veniva col cartoccio o il fazzoletto dei dolci, era lei il capo famiglia, bassa, rosea leggermente pingue e aveva le dita rotonde come pungitoi.
Tuo padre dormiva quelle notti, si gettava il lenzuolo sugli occhi quando lei, fresca e sveltissima, avevagià chiusa con rumore la porta dell’androne dove abitavate. Doveva essere stata la stalla del palazzo, cui si accedeva dall’arco romanico dalle pietre unte, solo quante mani tu solo ci avrai messe.
Le due sorelle stavano su un paglione ogni sera rimescolato e su un altro i quattro figli maschi. Michele il grande, esile come il padre, tirava calci a ogni disturbo e le prime campane lo innervosivano tanto che non poteva più dormire, era il primo a levarsi, irritato contro tutti, contro la tua prepotenza e i tuoi richiami, girava per la casa, si sedeva a lavorare e un minuto dopo si alzava, si abituò melanconico e finì sagrestano. Aveva i visceri malati e si reggeva il ventre con le mani. Tuo padre vi chiamava al deschetto, rimaneva in casa a fare la donna, mentre la madre camminava per le case portando il guadagno.
Al deschetto si sta appena comodi in due, voi eravate 5. Era necessario prendere strada, troppe volte bisognava togliersi le forme e i coltelli l’un l’altro dalle mani e le lesine, le raspe, i vetrini. Dicono che fosti il più coraggioso e intraprendente, andavi a cercar lavoro nelle campagne, facevi le scarpe nei pagliai o davi punti e facevi accomodi ai mietitori forestieri all’aria sotto il sole di giugno. La famiglia si riuniva ai concerti del maestro Saraceno: tuo padre suonava il flicorno di accompagnamento e fu nominato prefetto della banda, zio Innocenzo il tamburo, zio Michele i piattini, zio Paolo era piccolo, morì a 18 anni nella guerra e il suo nome è mezzo cancellato al monumento dei caduti, e tu la cornetta, cantavi gli a solo, avevi fiato e alle note prolungate per minuti quando tutta la piazza ribolle, tu ti impettivi e levavi alta la cornetta e una mano dalla folla ti gettava confetti sulla fronte.
Si giravano i paesi vicini nei giorni di festa, eravate quattro a guadagnare, suonando le marcie e le fantasie delle opere. Ancora oggi, a ogni riunione di calzolai alle vendite di vino, ricorrono le note allegre di quei giorni. C’è il clarinetto che vive e va alle rare feste, dove può andare un complesso bandistico ridotto di numeri e di qualità: ormai ossa e pelle egli va dicendo l’antica gloria La banda si avviava sui traini, arrivava nelle piazze accolta dal giubilo delle folle Era contrattata l’ora dell’arrivo, eran previste le suonate del giro del paese, i pezzi di orchestra, i numeri speciali Qualcuno veniva per imbottitura, a muovere vecchi stru- menti o grancasse per impressionare e far rumore e numero, anche con trombe senza suonarle, come va il vecchio clarinetto superstite ora, cui non riescono fuori le note volute, per il labbro che si è guastato con gli anni Prima su lui e pochi altri si reggeva l’onore del complesso «Quando era qui Vincenzo, era da sentire il mio clarino C’era l’entusiasmo, la gioventù, il bisogno di guadagnare un altro soldo e la gioia di mangiare, quelle feste, un chilo di carne ognuno» Si guadagnava la zuppa, si compravano merci alle fiere, da un paese a buon prezzo si prelevava un maiale all’anno
Per questo si muoveva la famiglia sotto il prefetto di banda A San Chirico era più comodo andare coi muli Quella volta zio Innocenzo fece rumore col tamburo e il mulo si turbò e lo menò a terra, gli calpestò la mano. Era l’invidia, che fu? certo le cose mutarono da allora La famiglia doveva affrontare le sue prove a quel suono di tamburo Adesso sana, adesso non sana la mano di Innocenzo, si avvilupparono le dita, diventò come uno straccio
Una sera, tu ti eri innamorato della serva del sindaco, che era di un paese della marina, bellissima a meraviglia, ti venne in mente di portarle la serenata.
C’era un pretendente di lei che aveva un suo zio anch’egli al servizio del Sindaco Quando la serenata finì e il sindaco venne fuori con l’orciuolo pieno di vino per complimentare i suonatori, era presente il domestico; al giro l’orciuolo fu subito vuoto e mancava il bicchiere per il domestico. – Te lo farò uscire di sangue! – così ti disse. Egli solo sapeva per chi andava la serenata, non per il sindaco.
Tutto finì. Il pretendente andò da suo zio: – Hai visto, lui porta le serenate e tu niente mi fai fare, vedremo chi la vincerà!
– Togliti tu, me la vedo io, con la sua pelle si farà le scarpe.
Questo domestico, scornato, quella sera stessa volle mettere a terra il suo piano di vendetta. Era ammogliato, ma non si esclude che fingendo di dare la sua giovane bellissima collega al nipote nutrisse per lei una nascosta passione. Si armò dell’accetta e girava per la via centrale dalla piazza alta a quella bassa.
Alla sera a notte, Carmela disse a zio Innocenzo: – Cugino, va a prendere Pietro con la lanterna al Seminario.
Pietro, suo marito, faceva il cuoco ai seminaristi. Mentre zio Innocenzo entrava al seminario, si sentì chiamare e il servo del Sindaco lo afferrò alle spalle:
– Dov’è tuo fratello?
– Che ne devi fare?
– Gli devo fare la pelle.
– Tu? – fece zio Innocenza alzando la lanterna e nascondendosi la mano offesa. Il servo gli ruppe la testa con un’accettata, da terra lo presero alcuni amici e lo ricoverarono in casa loro.
Lo sapesti, corresti al punto vicino al Seminario e trovasti il servo che ti mise in mezzo alle gambe e ti ferì al collo, ma allora ti sentisti in petto il coltello, che venne fuori da sé dalla tasca della giubba: spingendo la mano per sotto, il coltello apri il ventre del servo e uscirono gl’intestini. Era fatto. Nessuno voleva andarlo a prendere: avevano tutti paura di lui, il paese era libero così almeno dissero di un prepotente, di un bruto. Fu portato dai facchini a sua moglie. Il prete De Giacomo andò a confessarlo: – È vero, io sono stato il primo a colpire – disse. Il mattino morì dissanguato perché i medici non vollero andare.
Bell’affare, a diciotto anni, le mani piene di sangue. A tuo padre, agli zii caddero le braccia quella notte, ma mamma tua si mise in cammino e ti raggiunse alla fontana. – Mi dispiace – le dicesti, ma lei ti afferrò le guancie e ti segnò il cammino: – Va da Pircicuco, che ti ha tenuto a battesimo, nella masseria sotto il bosco e nasconditi.
Pensò lei a tutto. Dopo un mese ti venne a trovare, c’era anche zio Innocenzo, era opportuno presentarvi insieme alla Caserma, lei stessa vi condusse e assaggiaste i ferri e le carceri.
Veniva a trovarvi fino a Matera a piedi e vi portava la roba un giovane amico. Tua madre disse alla sorella grande: – Se non ti prendi quello per marito, guai a te. Quello rinfresca i miei figliuoli.
Tutti vi vollero bene, i calzolai, i contadini, le autorità, il segretario comunale, il prete, la moglie dell’ucciso, che venne dal presidente a scoprirsi la veste per far vedere i lividi avuti dal marito. Così arrivò l’assoluzione per legittima difesa, la banda calò al ponte del fiume a suonare il saluto ufficiale e il ritorno alla libertà. C’era il clarinetto e c’era il nipote del servo ucciso, che aveva preso il posto di zio Innocenzo a suonare il tamburo.
III
La mamma aveva i capelli gonfi e lucenti. Suo padre era fabbro-veterinario, e sapeva suonare la chitarra.
In casa i granai erano pieni per i tanti contadini abbonati per i ferri e le malattie dei muli.
Ella aveva la faccia rosa che ho io ora, s’affacciava alla finestra e un giorno mio padre passò e la vide.
Ci fu una discussione in casa del fabbro quando mio padre fece sapere che voleva sposarla, perché c’era Domenica, la sorella, ancora da maritare, a cui toccava dopo Teresa, già maritata a un muratore. Mio padre era uscito dal carcere allora e doveva soddisfare il bisogno che gli era cresciuto nella cella quando tutti raccontano gli amori e uno canta «Piangete, piangete puttane, abbiamo perso la libertà» e la figlia del Ma- resciallo corre con le vesti corte sulla terrazza e di notte si sentono le serenate.
Si trovò un compagno e andarono insieme dal fabbro: – Quella per lui e questa per me – gli disse.
Il fabbro accettò e si fece il parlamento, si riunirono le famiglie una sera, a un capo della tavola era la nonna levatrice, all’altro il fabbro.
Mio padre chiese tante volte di passare dalle chiacchiere ai fatti delle nozze, ma ci fu il generale discorrere e mia madre teneva gli occhi sulla tovaglia bianca. Il fabbro stese una mano e si mise la chitarra in grembo: – Quando io mi sposai – disse prima – intendevo creare una famiglia grossa di tanti figli con un mestiere ciascuno. Quant’è bello avere una casa dove non manca niente: il grano, le scarpe, il vestito, la roba pulita. Volevo fare un figlio muratore e un altro dottore, un prete e un calzolaio, un fabbro e un falegname. Niente mi doveva mancare.
E cantò toccando con le unghie le corde:
lo se mi accaso quattordici figli faccio
tanti ne voglio, neanche uno mancante …
– Ma questa – riprese, (la nonna era ai piatti e girava per la casa) toccò di nuovo le corde:
Tu per cacciarli presto
hai fatto nascere la peste.
– Le donne bisogna venderle e poi fanno un chiasso indiavolato quando si muore.
Allora chiese da bere, lo guardarono tutti per il tempo che tenne il canaletto dell’orciuolo alle labbra. – Sì – disse. Il primo figlio l’ho voluto fare maestro e sapete che da Roma ogni tanto mi scrive. Ma avanti.
Andò alla finestra:
Vicini che dormite, risvegliatevi
Ho contrattato di vendere, ho già venduto
l‘ultima figlia mia, risvegliatevi
Bella nottata fresca, Francesca se ne va.
Erano parole che uscivano tra le corde.
I compari del vicinato vennero e le canzoni del fabbro, fatte più allegre e piccanti, durarono fino al mattino.
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