Ho saputo casualmente che, non so quando, è morto il padre missionario Pancrazio Di Grazia: simbolicamente l’ho saputo nel tempo glorioso della Risurrezione del Signore.

     Per l’età avanzata e una vita d’inenarrabili privazioni e disagi in lontane regioni dell’Estremo oriente, funestate da guerre e rivoluzioni, la notizia non mi sorprende. M’interrogo sul senso di una vita vocata al sacrificio più grande per sé e imposto alla famiglia e provo la commozione e l’emozione di cielo e terra che si toccano per opera di un nuovo santo chiamato al Cielo.

     Pancrazio era più giovane di me di un anno, ma ci siamo frequentati pochissimo. Nel 1943 egli andò in seminario e io già da due anni avevo lasciato Tricarico, per proseguire i miei studi dopo le elementari. Giovanissimo Pancrazio raggiunse terre di missione in Estremo Oriente e ci siamo rivisti a Tricarico due-tre volte, l’ultima volta non ricordo quando, sicuramente non pochi decenni fa. Brevi incontri casuali: nella Chiesa cattedrale, dove mi ero recato per partecipare alla cerimonia dell’Eucarestia e lui officiava la Messa; sull’uscio di casa sua, dove mi trovavo a passare, in piazza. Erano incontri brevi, come se non ci fossimo mai persi di vista, e molto cordiali, come vecchi amici che si ritrovavano.

     Mi accorgo che di Pancrazio non so nulla e spero che la Chiesa di Tricarico lo ricordi e lo onori e si adoperi per far conoscere la sua vita di missionario. Quello che di lui posso dire si riduce a un breve saluto durante uno dei nostri rari incontri, mentre l’essenziale devo lasciarlo raccontare al padre Andrea, detto Andrea Carmusidd, estrapolando il passo relativo dal racconto, in parte scritto da Andrea e in parte dettato a Rocco Scotellaro nell’estate del 1953, Tra cinquanta piantoni uno deve essere il migliore, che compone una delle cinque interviste del libro-inchiesta di Rocco Scotellaro I contadini del Sud.

 

 «    Ho 4 figli:

– TERESA, di anni 26, sposata a un piccolo proprietario;

– PANCRAZIO, di anni 22 che prende la messa tra tre

anni nel 1956;

– MAURO, di anni 21 studente di III liceo;

– MARIA CARMELA, di anni 16, che aiuta la madre in

casa.

     Volevo far studiare Pancrazio ma dato che la possibilità non c’era, l’ho mandato con 3 anni di ritardo,  nel 1943 quando mi ripigliai di più come tutti i contadini con l’aumento del grano. Lo misi nel seminario  di Potenza, lo misi con l’intenzione di farlo studiare  da prete diocesano, l’intenzione mia era di farlo studiare, ma la vocazione è venuta a lui.

     Frequentando gli anni, è passato al liceo del Seminario a Salerno. lo ci sospettavo questo: tutto il  mio piacere, tutta la lode di Dio di avere un figlio  sacerdote e se si guastava era un dispiacere per me  se ne usciva, ma intanto Dio ha voluto ancora  una vocazione superiore di farlo andare nei Missionari  di Oblata Immacolata Maria a Ripalimusano (provincia  di Campobasso) dove ora fa il noviziato dal  14-12-1952.

     Quando veniva in licenza e figurati la mortificazione e il dolore che ci tengo nella vita, tanti sacrifici io ho fatto per lui, 9 anni in Seminario a pagare 74-75 mila lire a Potenza, 84-85 mila lire a Salerno  senza degli indumenti, una sola sottana 10-12 mila  lire. Più di 100 mila lire all’anno. Quando non bastava  il Seminario, mi scrivevano di portare qualche cosa  in tempo di guerra che non si poteva avere nulla.

     È una mortificazione a fare un giovane grande di 22 anni e poi non vederlo più e io non l’ho scritto  neanche con questo disturbo che mi ha dato di farsi  missionario. Però lui venne quando fu la votazione del 7 giugno[1], io stavo facendo l’istruttore alle Acli di agricoltura generale, ci vado a casa e trovo lui e difatti io non gli dissi nulla. Pancrazio mi chiamò, è rimasto mortificato, quasi piangeva. Allora io gli domando: – Come hai fatto tu di fare questo spostamento da prete diocesano andare nelle Missioni? Come io  non volevo pagare? Io stavo in corrente a pagare. E gli dissi: – Tu pensaci se puoi ritornare ancora a Salerno. Lui mi confortò, disse: – Babbo, io mi faccio sacerdote per salvare le anime e facendo le carità, non mi faccio sacerdote per tenere la casa o per la  famiglia o per la campagna perché sono scrupolosissimo delle critiche. Dio mi ha voluto così e io debbo  essere a sua soddisfazione. E io gli risposi: – Pensaci  che io ci ho 500 mila lire di debiti per fare studiare  a voi a te e a tuo fratello. E sto lavorando per il solo interesse che devo pagare ai creditori e pensaci che ho venduto anche un pezzettino di terreno il 1952 (quello di 70 are che mi presi per 500 lire) e mi  vorrei vendere ancora la vigna e le ulive per saldare  il debito che io tengo. Ma quando mi vorrei vendere anche qualche altra cosa, pure che tu ritornassi al solito posto a Salerno. – Ma non è stato possibile.  Adesso, per amore di padre, ho cominciato a rispondere a qualche lettera, ma lui è tutto contento e io sempre  mortificato ».

    

     La vocazione missionaria di Pancrazio è raccontata anche da Rocco Scotellaro nella Premessa al racconto di Andrea:

 

« […]Chi arriva alla messa è la « grandezza della famiglia: Beata quella casa dove cappello di prete trase.

     Ma il figlio di Di Grazia né si spoglia né potrà arrivare alla messa di prete diocesano, perché è capitato questo particolare riferito in confidenza: i frati missionari, ogni tanto, vanno in giro nei seminari in cerca di giovani anime disposte alla più grande rinuncia del mondo. Capitò nel seminario di Salerno uno di questi frati e chiese al Padre Rettore se c’era qualcuna di quelle anime disposte. Nessuna avrebbe osservato in prima il Rettore e, dopo un momento di meditazione, forse uno sì, il Di Grazia Pancrazio di Andrea. E lo avrebbero «convinto» il figlio di Andrea con tutte le buone maniere, con tutte le lusinghe, Andrea dice «convinto» e rotola le mani aperte per dire quasi «imbrogliato» […] ».

 

     La risposta che Pancrazio dette a una mia domanda in occasione di quello che forse fu l’ultimo incontro che ebbi con lui alcuni decenni fa, rende plasticamente il senso di una vita di dedizione al prossimo e di sacrifici.

     Forse non avevamo cinquant’anni, ma lui ne mostrava novanta. Con le parole della sconvolgente catechesi di Papa Francesco ora posso dire che padre Pancrazio aveva addosso la puzza, che impregnava tutte le sue carni, delle pecore del lontanissimo gregge affidato, di là dalla fine stessa del mondo, alle sue cure spirituali.

     Gli chiesi in quale parte del mondo allora esercitasse il suo ministero e come vivesse. Mi rispose che viveva nel Borneo in un villaggio di capanne di paglia o di legno costruite su palafitte, in una zona acquitrinosa. – Chissà le zanzare! – mi venne fatto di osservare, vergognandomi mentre ancora pronunciavo queste parole. Pensavo alle zanzare di Ferrara, incantevole città sull’acqua dal clima caldo-umido, dalle quali ci difendiamo nelle nostre comode case con le doppie imposte, zanzariere interposte e gli innovativi rimedi, gli spray e le creme contro le zanzare che la ricerca e l’industria ci forniscono, e l’aria condizionata. E mi vergognai, pensando che non si può paragonare il fastidioso problema delle zanzare a Ferrara con quello delle zanzare in un acquitrino del Borneo, con un grado di umidità inimmaginabile, un clima incandescente e irrespirabile, che ottunde le menti. E non immaginavo la risposta che Pancrazio doveva darmi: – Le zanzare? Sì, dobbiamo stare attenti alle zanzare, portano malattie. Ma quelle che danno veramente fastidio sono le sanguisughe, se ne attaccano tante al corpo. –

     Riposa in pace nella gloria dei Santi, caro Pancrazio: le sanguisughe non si attaccano al tuo Spirito.

 

 



[1] Elezioni del 7 giugno 1953 per il rinnovo della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica

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