Il padre di Rocco è il soggetto dei primi tre capitoli dell’UP, peraltro ciascuno con la propria specifica individualità: la simbologia della vigna, che è il programma ambizioso del racconto di tutto il percorso di una vita, il noto del vissuto e l’ignoto della vita da vivere, inghiottita dalle fauci della morte (primo capitolo); la vita ingegnosa, avventurosa e tragica del padre (secondo capitolo); la nuova famiglia che si sta per formare, dove discretamente e delicatamente s’affaccia la madre di Rocco con «i capelli gonfi e lucenti» e «la faccia rosa», che «teneva gli occhi sulla tovaglia bianca» (terzo capitolo).

     Il prof. Bronzini (L’universo contadino e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro) si sofferma ancora su questa prima parte del racconto di Rocco con un paragrafo intitolato, Dialettalità del racconto fra reale e immaginario, al quale di seguito faccio integralmente riferimento.

C’è, in queste prime pagine dell’UP, un continuo oscillare delle cose, dei luoghi e dei personaggi tra una dimensione reale, che dà loro concretezza, e una dimensione surreale, data da metafore, aggettivi, paragoni, apposizioni, che sembrano descrivere e in effetti ricreano. Così, per esempio, rileggiamo l’arrivo alla vigna, la vigna stessa, Rocco e il confinante della fabbrica di pietre:

Arrivai presto al vignale, abbandonando la mulattiera, fui subito nel grano che cresceva e nelle erbe altissime. Tra queste erbe si aggira il vignale, tenuto dalla fabbrica di pietre come un vaso, e cominciano le  viti, piccole foglie verdi, e i grappoli già formati, minuscoli come neonati. Sotto la prima fabbrica del vignale, il fondo è di un altro, c’è solo il passaggio che consente di metter piede nella vigna. Il convicinante  lavorava, solo lui seppe chiedermi se ero venuto per una passeggiata. – La campagna è buona – disse – quest’anno, se si mantiene -. Saltai per le erbe del passaggio, tra gli alianti, per poco non cascai nel fondo del convicinante perché c’era una caduta di pietre della fabbrica, e l’altro si  guadagnava la terra che scendeva”.

Quindi il racconto prosegue su un doppio binario, ovattando il modello veristico, come avviene per introdurre la presentazione del padre, attraverso la memoria dei luoghi di campagna in cui si  recava:

Tra le viti e gli alberi, sono attento ai piccoli rumori: le foglie delle canne, lo sventolio sui rami, uno scarabeo che si arrampica, le lucertole.

So che questo posto ti piaceva, padre, più che ogni altro, mamma  non vuol venire mai sola perché ti incontra vestito da serpente o ti ode  borbottare sotto le Fabbriche.

E fin dal principio il parlare dialettale italianizzato dilaga verghianamente nella scrittura narrativa dell’autore, in misura maggiore che nel dialogo dei personaggi. L’iniziale «uscita» di Rocco dal paese poteva apparire, agli occhi della gente, determinata da «una delle [sue] solite decisioni» di allontanamento temporaneo: «quando mi caricavano troppo, io ero solo di fronte ai loro malanni, alle  loro grida, ai loro problemi, recenti e remoti, taluni irrisolubili e disperati, allora prendevo il biroccio o la corriera o mi mettevo la  via sotto i piedi [ … ]».

Un altro esempio – sottolineato spazieggiando le parole – è nel successivo passo rivolto al padre:

« Questo tra tutti è il tuo posto, dove sei rimasto, qui, potando, mi dicevi la tua vita: per guadagnare fosti l’unico, da bambino, a dar la scalata al balcone di un vecchio che da tre giorni non apriva la sua porta, lo trovasti addossato alla panca, col capo su una spalla e le mani puntate a terra, apristi la porta ai carabinieri dicendo – Zio Giovannino non si muove più -, e  t i  r e g a I a r o n o ».

Ancora di séguito: «Non eri dolce, se  t i  b i s o g n a v a due soldi i giorni di fiera [ … ]. Tuo padre vi chiamava al deschetto, rimaneva in casa a fare la donna, mentre la madre camminava per le case p o r t a n d o il  g u a d a g n o».

La presentazione del padre e della famiglia del padre segue in tutto e per tutto il modulo veristico, facendo però emergere punte di sarcasmo sotteso del narratore. Ad esempio in questo bellissimo passo della famiglia riunita attorno alla tavola o in piazza nella banda:

Al deschetto si sta appena comodi in due, voi eravate 5. Era necessario prendere la strada, troppe volte bisognava togliersi le forme e i coltelli l’un l’altro dalle mani e le lesine, le raspe, i vetrini. Dicono che fosti il più coraggioso e intraprendente, andavi a cercar lavoro nelle campagne, facevi le scarpe nei pagliai o davi punti e facevi accomodi ai mietitori forestieri all’aria sotto il sole di giugno. La famiglia si riuniva ai concerti del maestro Saraceno: tuo padre suonava il flicorno di accompagnamento e fu nominato prefetto della banda, zio Innocenzo il tamburo, zio Michele i piattini, zio Paolo era piccolo, morì a 18 anni nella guerra e il suo nome è mezzo cancellato al monumento dei caduti, e tu la cornetta, cantavi gli a solo, avevi fiato e alle note prolungate per minuti quando tutta la piazza ribolle, tu ti impettivi e levavi alta la cornetta e una mano dalla folla ti gettava confetti sulla fronte.

Con linguaggio secco e asciutto e con stile oggettivo sono narrate le vicende della famiglia, segnate dal grave incidente occorso, forse per invidia, cioè per malocchio, a zio Innocenzo, suonatore di tamburo, che ebbe la mano calpestata dal suo stesso mulo imbizzarrito dal rumore del tamburo [poi ucciso dal servo del sindaco][1], innamorato geloso della serva del sindaco, alla quale zio Innocenzo aveva portato la serenata, quindi vendicato dal padre di Rocco, che a diciott’anni «assaggiò i ferri e le carceri». E però fu assolto, perché:

Tutti vi vollero bene, i calzolai, i contadini, le autorità, il segretario  comunale, il prete, la moglie dell’ucciso, che venne dal presidente a scoprirsi la veste per far vedere i lividi avuti dal marito. Così arrivò  l’assoluzione per legittima difesa, la banda calò al ponte del fiume a suonare il saluto ufficiale e il ritorno alla libertà. C’era il clarinetto e c’era il nipote del servo ucciso, che aveva preso il posto di zio Innocenzo a suonare il tamburo“.

Non meno veristica è la presentazione fisica della madre, figlia  di un fabbro-veterinario, suonatore di chitarra, e la descrizione  degli sponsali:

La mamma aveva i capelli gonfi e lucenti. Suo padre era fabbro-veterinario e sapeva suonare la chitarra.

In casa i granai erano pieni per i tanti contadini abbonati, per i ferri  e le malattie dei muli.

Ella aveva la faccia rosa che ho io ora, s’affacciava alla finestra e un  giorno mio padre passò e la vide.

Il codice proverbiale vuole che le donne alla finestra attirino maggiormente gli innamorati, onde il proverbio, che non a caso ricorre nei Malavoglia, recita: A donna alla finestra non far festa.

La necessità che si sposasse la più grande e quindi la domanda di matrimonio, che il padre, uscito da poco dal carcere e ansioso di «soddisfare il bisogno che gli era cresciuto nella cella quando tutti  raccontano gli amori e uno canta “Piangete, piangete puttane, abbiamo perso la libertà” e la figlia del maresciallo corre con le vesti  corte sulla terrazza e di notte si sentono le serenate»:”, fece insieme  con un compagno, che chiese la mano della sorella maggiore; e poi  ancora il parlamento, il consenso del fabbro con la suonata di  chitarra sulle cui corde intonò canzoni allegre e piccanti che alludevano al suo sognato benessere e alla vendita dell’ultima figlia, perché detto come per proverbio) «le donne bisogna venderle e poi  fanno un chiasso indiavolato quando si muore»: sono tutte rilevazioni di scene che seguono le regole del codice nuziale della società  contadina.



[1] Ho inserito tra parentesi quadre, in corsivo, l’inciso “poi ucciso dal servo del sindaco”, deduzione erroneamente tratta dal prof. Bronzini dal punto dove si racconta che lo zio Innocenzo, al quale il servo del sindaco aveva rotto la testa con un’accettata, fu preso da alcuni amici, che lo ricoverarono in casa loro. Zio Innocenzo è il padre della prof. Carmela Scotellaro, ebbe la testa spaccata dal colpo di accetta ma non fu ucciso..

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