L’infanzia e la scuola elementare di Rocco Scotellaro

 

     Sulla memoria paterna dei primi tre capitoli della Parte prima si innesta il racconto dell’infanzia e della scuola elementare di Rocco, frequentata a Santa Croce (capitolo IV) e, quindi, nel Capitolo V, delle prime classi del ginnasio presso i frati, a Sicignano degli Alburni e a Cava dei Tirreni. La Parte prima si concluderà, col capitolo VI, che vede ancora Rocco tornare alla vigna «dove non mettev[a] mai piede senza sentir[si] fredde le guance perché sapev[a] che ogni zolla era la tomba di [suo] padre» a riflettere sulle «tante […] vicende, ingarbugliate nell’aria di fuoco, ognuna un batuffolo d’aria, nell’anfiteatro largo fino all’orizzonte».

     Luoghi e personaggi sono descritti con limpida scrittura, che dona effetto veristico al racconto. Troviamo descritti i caratteri della scuola elementare degli anni Venti (che Rocco iniziò presumibilmente a frequentare nell’anno scolastico 1929-30), che saranno sempre gli stessi caratteri ancora per alcuni decenni. Non è la scuola descritta da Edmondo De Amicis nel celeberrimo Cuore: è una scuola classista e autoritaria. Il maestro – dopo aver distribuito la dose giornaliera di «spalmate» con la bacchetta a forma di cucchiaio, ai figli delle classi subalterne, che non hanno fatto i compiti o hanno le orecchie sporche – se ne sta assiso per ore alla sua cattedra alta sulla pedana, descritto da Rocco «come un santo tra le candele che i nostri occhi accendevano lato».

     Ai primi banchi sedevano i figli «degli impiegati» (così Rocco definisce i rampolli delle classi privilegiate del paese) e i bravi. Rocco sedeva ai primi banchi, perché era bravo, ma aveva la testa rasata, mentre i figli «degli impiegati» erano autorizzati a portare i capelli lunghi, i figli degli artigiani e dei contadini erano obbligati ad avere la testa rasata e, se non bravi, sedevano negli ultimi banchi. La testa rasata era una misura igienica per la prevenzione della pediculosi, sempre ispirata a un pregiudizio di classe, giacché la pediculosi, infezione diffusa in età scolastica, finiva col diffondersi tra i «figli degli impiegati», che portavano i capelli lunghi, dove i pidocchi si annidavano, passando da capelli e capelli.

     Rocco racconta anche del giardino di don Giovanni con l’albero di giuggiole, al lato della sua casa e accenna alla casa del notaio.

     Don Giovanni era don Giovanni Santoro, proprietario del giardino e del bel palazzo Santoro in via Roma, dopo casa Scotellaro. Sotto il giardino, sempre di proprietà Santoro, c’era il locale adibito a cinema con la gestione di Vincenzo Carolillo e Vincenzo Miseo. Il palazzo Santoro era, se non la più bella, una delle più belle case di Tricarico, bene arredata anche con mobili d’epoca. Don Giovanni non aveva figli e adottò una nipote, della quale non posso dire di essere stato amico, ma buon conoscente sì. La casa è rimasta di proprietà della discendenza adottiva per i suoi soggiorni tricaricesi. Ho saputo che recentemente ha subito il furto, degno di una sequenza cinematografica, dei mobili più pregiati caricati su un camion.

     Il notaio si chiamava Francesco Rivelli ed era proprietario del palazzo Rivelli, ben più modesto del palazzo Santoro, quasi di fronte alla casa Scotellaro. Non ho ricordi del notaio; i Rivelli sono una delle famiglie tricaricesi estinte. Negli anni Trenta si videro tornare per le vacanze signorine Rivelli eleganti e un po’ snob. Ricordo per ultimo un ingegnere Rivelli, che tornò a Tricarico nell’estate del 1941 o 1942, in divisa militare col grado di maggiore. Dopo, dei Rivelli non si è più saputo nulla, se non nei racconti di chi li aveva conosciuti e frequentati. In questo blog ho lasciato un paio di gustose notarelle nei post «Dagli al fascista», pubblicato il 9.02.2011 (tag: peppe benevento, titti bruno), dove accenno alle signorine snob e «La casina dei galantuomini», pubblicato il 27.02.2011, dove accenno al notaio (tag: tressette, batuffo)

     Ecco, ora, il testo del quarto Capitolo.

 

IV

Andai a scuola, a Santa Croce, nel vecchio monastero delle Clarisse. C’erano solo due aule, tutte le altre erano ai piani sopra e a queste si entrava dall’ingresso principale del Convento, dove c’era più folla di bambini e i maestri si vedevano venire a uno a uno facendosi  largo; noi, invece, di Santa Croce avevamo il boschetto di acacie sulla scarpata, uno spiazzo di argilla e le rocce ai piedi della torre, dove le donne venivano  per asciugare i panni: esse rimanevano libere e contente, noi ci succhiava la porticina entro le mura.

     Il maestro si chiudeva per ore in un alone sulla cattedra e noi lo tenevamo lì come un santo tra le  candele che i nostri occhi accendevano al suo lato.  Ero ai primi banchi come tocca ai bravi e ai figli degl’impiegati e dei signori, i soli che potevano portare  i capelli. Ero rasato come gli altri, portavo la borsa di pezza come gli altri, solo che io stavo ai primi posti. Costantino si alzava dal banco e seguìto, ogni giorno, dalla metà della classe, all’aprirsi delle lezioni, muoveva verso la cattedra a porgere le mani per le spalmate. – Chi non sa le lezioni, se ne venga! – chiedeva il maestro dopo la croce e il padre nostro.  Costantino con una spinta ai muscoli delle natiche,  veniva fuori, e poi gli altri. Poi cominciavano le lezioni e l’alone si accendeva.

     Talvolta il maestro chiamava un nome e noi tutti a voltarci verso gli ultimi banchi: Martoccia dalle o- recchie di asino, dalla faccia a scheletro si levava piano, chiudeva le labbra che sempre pendevano e i suoi occhi erano spenti. – Hai la faccia pulita? – Andava da lui, gli tirava le orecchie, gli spiava dentro fino all’arrivo della spazzina di scuola con la bacinella, il sapone e la tovaglia. Se lo metteva sotto, quando la spazzina lo aveva lavato, con la testa tra le gambe, gli apriva le brache e lo colpiva con la bacchetta sul nudo. A ridere noi tutto il tempo. La bacchetta aveva la forma di un cucchiaio piatto, era annerita alla punta e all’impugnatura come colorata, come un pupazzo vestito. L’inverno era più oscura la scuola, Martoccia e  Costantino andavano a prendere il braciere dal fornaio  che era nero e spento all’aria e che in scuola si accendeva. Aspettando l’apertura nello spiazzo coperto di neve ci lasciavamo andare, di peso, a capo indietro, per vedere, alzandoci, le nostre fotografie. La primavera crescevano le erbe tra i muri e cominciavano le guerre.  Gli altri alunni delle scuole di sopra si facevano trovare sulla roccia e ci prendevano a sassate, la mia classe  ebbe molti feriti e una volta, rimasto solo, vidi una  nuvola di pietre che mi scendeva avanti. Poi mi presero  prigioniero; fui liberato dai miei che si erano nascosti dietro la chiesa e furono furbi perché fecero scendere i nemici dalle loro posizioni alte, e io avevo pensato  che mi tradissero.

A casa ritornai sempre salvo, ma trovando verdura, non mangiavo e mi veniva da piangere e sbattevo per terra perché la libertà dopo la scuola la corsa  fino a casa, la gioia erano troppo belle e la verdura  così fetente. Allora uscivo nelle strade a trovare i compagni e mangiavo un pezzo di pane sul tardi e bastonavo le mie sorelle per la rabbia facendole correre attorno al tavolo. Sapevo scrivere alla 5a e mio padre  mi dettava le cartoline alle ditte: voleva la suola, le  tomaie, i bottoni parlava di tratte ed effetti, io non  capivo il senso e tenevo alta la penna mentre lui si  vantava della sua prima elementare.

Io nacqui e aprii gli occhi e fissai i ricordi la  prima volta che mio padre andava al negozio di cuoia-  mi con i discepoli e i lavoranti, mio nonno mi legava  le scarpe e un cane rossastro mi portava addosso,  che si chiamava Garibaldi. Ero la peste di San Vito nel vicinato, sempre a strillare e tirar sassi a dirigere le bande e le corse, a far il rumore nella chiesa tirando  calci ai confessionili la notte del Venerdì Santo, quando si smorzano le luci e Gesù muore e la terra deve tremare.

     C’era attaccato alla casa di Don Giovanni un giardino, il muro era alto sulla strada, e non c’era altro che un albero in quel recinto. Di fronte erano i balconi  del notaio e di fianco la porticina d’ingresso di Don  Giovanni: solo di là si vedeva quella terra e il tronco  dell’albero. Dalla strada si vedeva la chioma e delle palline rosse, rugose, talvolta cadevano: erano le giuggiole, sapevano dolci. Non stette più in pace quell’albero: da un angolo con le pietre taglienti si miravano i rami, qualche giuggiola saltava sulla strada per noi.  I lavoranti di mio padre mi chiamavano Pulce rossa, volevano l’acqua da bere, io portavo il bicchiere grosso e ci mettevo il sale. Nelle vacanze addrizzavo i chiodi storti o uscivo con altri a trovare le suole vecchie all’immondizzaio, che mio padre usava al posto del cartone per le scarpe quando s’informano. Le mie sorelle e mio fratello Nicola si mettevano al banco quando mio padre andava in campagna. Nicola suonava il mandolino e aveva la testa per aria. Mi disse di rimanere in bottega per un po’ in sua vece, mi sentii padrone la prima volta di quei segreti, delle carte, della bilancia, dei tiretti. Non venne nessuno a comprare, non passava nessuno sulla strada, misi la mano nel tiretto dei soldi, li sentii suonare, erano freschi.  Una due lire me la presi nascondendola nella scarpa.  Arrivò Nicola, chiese se era venuto qualcuno, e disse:

– Adesso, lévati le scarpe.

Non mi vollero più in bottega, anche mio padre mi girava gli occhi addosso vedendomi entrare dietro il bancone.

Stavo scrivendo una cartolina a una ditta quando due signori, più alti di mio padre, entrarono con le  borse ai fianchi. Fecero vedere a mio padre delle cartoline lucide, io pure le toccai, mi piacevano, e le tennero appese al muro con le dita, erano belle, ornavano la bottega:

– Dovete comprarle – dissero – una costa sei lire.  Mio padre disse di no.

– Come? vi rifiutate? Qui è sotto l’alto patronato di sua Maestà il re.

Mio padre disse ancora di no.

                         

– Non potete rifiutarvi – disse uno – è obbliga- torio, per l’igiene. Noi siamo della Federazione.

– Va bene – disse mio padre – faccio scrivere da mio figlio su un cartone a caratteri grossi le stesse parole, vediamo: La persona civile non sputa in terra e non bestemmia. Anche più grosso di questo. Mio figlio scrive stampato, è il primo della classe.

– Va bene, disse l’altro, non volete? Si penserà.

– Ma non se n’andavano.

Allora mio padre mi fece paura per come li fissò; e sempre fissandoli che quelli si giravano sui tacchi,  mosse la mano sinistra a cercare nel tiretto e gettò  le sei lire sul banco e spinse forte il tiretto e io che  ero appoggiato sentii tremare il banco; poi pacatamente  mosse la destra che teneva il trincetto e tagliò la pelle  secondo i modellini di carta.

– Tu va sempre in chiesa – mi diceva a tavola

– e mettiti sempre la camicetta nera come se io fossi

morto, va sempre ai balilla, hai capito, perché questi  sono fetenti. – Magari poco prima mi aveva notato gli occhi attenti alle sue bestemmie contro i comandanti e volgendosi a mamma aveva detto: – Ti ricordi che ti portai, a Roma, a vedere il punto di Matteotti?

Sposò la prima sorella. Ne cambiò due o tre fidanzati, pareva sempre scontenta di ognuno. lo dormivo con lei e con Serafina più piccola, la sera veniva  il fidanzato e si sedeva a una seggiola e si girava  sempre con le gambe e a tutti noi parlava fuorché a  lei. Sposò mio cognato, tozzo e nerboruto, macellaio che sollevava da solo i maiali di un quintale e mezzo per alzarli alla verga e squartarli. Passava le mattine sul suo cavallo e io aspettavo avanti la casa, nella  corsa a galoppo, mi prendeva alla giubba con le dita con una manovra da cavallerizzo mi metteva sulla cervice e il galoppo era più forte, io mi tenevo ai capelli  del cavallo fino alla masseria.

Mi tenne dieci giorni alla masseria al tempo della trebbiatura: ero contento se mi comandava suo padre a rincorrere il bue, o le asine, lasciati liberi che scantonavano all’orto. Mi muovevo con la verga e tiravo i sassi e chiamavo con i loro nomi bizzarri le bestie. Per il resto mi lasciavano lì accanto a una méta di paglia, ero chiamato ai «morsi» con i fumanti maccheroni e l’insalata e il vino caldo e frizzante. Mi sentivo guardato brutto dal padre, specie quando tagliava le fette di pane: – Che vuole questo? – mi pareva dicesse – E che fa?

C’era il pastorello della mia età che se ne era andato per i pascoli portandosi dietro il secchio e il pane, un mezzochilo. Lo accompagnai un giorno: a una cert’ora sciacquava il secchio con grazia di una donna di casa, svolgeva il tovagliolo e il pane scorreva nel secchio. Parlava con me, riguardava le pecore. Spaccava il pane gonfio e me ne offriva dei pezzi, era il pranzo! e la cena! La crosta ingrossava si poteva staccarla dalla mollica, i cui fori erano grandi – che dico!  – come balconi.

– Quando ce ne andiamo?

– Quando si pone il sole.

– E arriviamo in tempo?

– Si arriva subito dopo.

La sua faccia era bella, le sue mani, i suoi occhi.

Lui, i carpini, le pietre lisce dei tratturi, le mammelle delle pecore, e l’odore che ne andava: non è la fanciullezza che mi rimanda perfetti e armoniosi quelle cose e quegli odori. È un pastore oggi quel mio amico, ha fatto la guerra, adulto, cadente e sgangherato, ma egli è sempre senza macchia; se lo guarda la donna più bella del mondo non si copre la bocca vuota dei denti con le mani, ma l’apre e ride, più bello di tutti  lui, cresciuto nel sole e nella pioggia.

 

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