L’UVA PUTTANELLA – Parte I, Cap. V _ Rocco tra i frati
Rocco frequenta le prime classi del ginnasio
presso i frati francescani
di Sicignano degli Alburni e di Cava dei Tirreni
Rocco si reca presso i frati, nei conventi francescani di Sicignano degli Alburni, prima, e di Cava dei Tirreni dopo, a frequentare il ginnasio. Resiste due anni e mezzo. Il padre avrebbe voluto che completasse tutt’e cinque gli anni del ginnasio, spronando invano il figlio a resistere.
Nei primi mesi del 1944 (Rocco aveva aderito al partito socialista e il giorno di Natale del 1943 aveva convocato a casa sua un’assemblea di costituzione della sezione tricaricese del partito) apparve nel corso la scritta a caratteri cubitali «Abbasso il monachicchio rosso». Fu quella scritta a farmi sapere di questo percorso della giovanissima vita di Rocco, ma non valse ad accendere una polemica o un pettegolezzo; la scritta non tardò ad essere cancellata.
L’esperienza conventuale è stupendamente raccontata nel quinto capitolo della Parte prima dell’UP, che riporto sotto, senza dilungarmi in commenti. Mi limito a brevi sottolineature, ispirandomi all’opera del prof. Bronzini tante volte citata[1], della collocazione del Convento dei Cappuccini di Sicignano nel suo paesaggio naturale, circondato dall’alone leggendario della sua fondazione, e della descrizione elefantiaca e animata dei monti degli Alburni:
San Francesco era andato in sonno a un frate dicendogli che c’era un parapetto di monti sopra la pianura salernitana, a mano destra; se si metteva in cammino quella notte senza luna, li avrebbe trovati guardando in alto, avrebbe pensato al colore del cielo prima dell‘alba e quelli invece erano i monti.
Vi fu costruito il convento sulle bocche delle sorgenti d‘acqua, che venivano fuori al punto dove la corona di roccia finiva e cominciavano le coste di terra con gli alberi. Gli Alburni erano cerei a vederli ma pesanti, massicci, come elefanti.
Per Rocco le montagne degli Alburni costituiscono una realtà anagrafica del paesaggio lucano; i monti assurgono a simboli di tenacia e di forza di una gens e nell’immaginario poetico di Rocco, i monti vengono rimossi nella loro oggettiva immobilità e possono dileguarsi d’incanto nell’ora del meriggio:
A quest’ora è chiuso il vento
nel versante lungo del Basento.
E le montagne vanscono.
E il cielo è fisso a bocca aperta[2].
O, per chi se ne è allontanato, possono perdersi lungo la strada:
La città mi appare la notte
dopo tutto il giorno
che il treno aveva singhiozzato,
e non c’era la nostra luna
e non c’era la tavola nera della notte
e i monti s’erano persi lungo la strada.[3]
Il racconto non è riassumibile: ogni periodo, ogni rigo, ogni parola sono ricche di esperienze e di immaginario poetico. Non posso non ricordare, tuttavia, la vita dura del convento: i tozzi di pane disuguali a tavola, frutto della questua; il materasso di lana che, nel trasferimento da Sicignano a Cava, viene sostituito con un materasso duro; le cimici che correvano come formiche nel letto; il puzzo dei cessi, dove grosse zoccole sembravano volersi lanciare addosso e Rocco si portava l’astuccio delle penne per fare rumore e spaventarle.
Ma l’esperienza dei frati non fu negativa:
[ … ] lo capivo appena uscito, chiaramente se ero capace di sostenere il contegno davanti agli altri petulanti, prepotenti, se tra la folla ogni uomo, con la sua faccia e il suo peccato, o con la sua bellezza, io dovevo rispettarlo come fratello.
Inoltre – a parte il latino e il pane della questua – la conduzione dell’orto fatto nel convento è un mestiere utile e delicato. Tutti gli amici prediletti, figli di contadini e di artigiani, imparavano ognuno un mestiere.
Ecco, ora, il testo del quinto capitolo:
V
Padre Gregorio aveva una mezza barba che gli fasciava la faccia: era il più trascurato e meno popolare tra i padri, non richiesto per le messe dei privati, mai inteso a predicare; a sessant’anni camminava sculacciando nel- la tonaca come un giovanotto che sta imparando un mestiere e non ancora si addrizza con la vita. Però la vigilia di Natale e a Pasqua toccava a lui: si nascondeva all’organo, che era sull’altare, noi di fronte gli vedevamo lo zucchetto che oscurava la piccola lampada sul leggìo. L’organo lo prendeva, gli dovevamo suonare il campanello dall’altare per farlo smettere al Vangelo e al Sanctus; le note lo portavano al paese – diceva lui – in mezzo ai cerri, che nacque dallo slargo dove fecero la prima volta i carboni, n suo padre e lui all’aperto battevano i timpani dei barili. Le note violette, rapide e squillanti tra il lamento continuo dei toni di zampogna e i bassi che fiatavano a lungo e riempivano la chiesa e noi e l’oratorio e riempivano le donne negli scialli e gli uomini con la coppola in una mano stesa, solo Padre Gregorio era buono a darcele.
L’organo era così, un animale stanco e grave che conosce un suo padrone e si muove con lui solo; si vide con Padre Angelo come i cinguettii venivano sguaiati alle bocche delle canne.
C’era scritto sui tiranti quello che si voleva, oboe, concerto di viole, subbasso, orchestra flauto: la tromba del banditore all’alba nel sonno, o i pianti delle donne come scoppiavano sui malati che morivano, ma di più faceva dire Padre Gregorio a quel grande animale con le zanne: la storia intera di un paesano, sera e mattina, . inverno e estate, i muli che gli crebbero, il grano che fece, la raccolta degli ulivi, i figli che sposò.
E poi mi succhiava quel suono e tutti erano belli e amabili i miei di famiglia, che, lontani da me, si muovevano e allora, eccoli, prendevano calamaio e penna per scrivermi. Io rispondevo a letterine e dicevo di pregare per farli vivere e star bene. Ero uno dei dieci alunni di prima ginnasio del Convitto Serafico dei Cappuccini a Sicignano degli Alburni. San Francesco era andato in sonno a un frate dicendogli che c’era un parapetto di monti sopra la pianura salernitana, a mano destra; se si metteva in cammino quella notte senza luna, li avrebbe trovati guardando in alto, avrebbe pensato al colore del cielo prima dell‘alba e quelli invece erano i monti.
Vi fu costruito il convento sulle bocche delle sor– genti d‘acqua, che venivano fuori al punto dove la corona di roccia finiva e cominciavano le coste di terra con gli alberi. Gli Alburni erano cerei a vederli ma pesanti, massicci, come elefanti. In mezzo a loro, ero sempre a casa mia, perché essi sono il gradino sul mare e il piano. Ebbi una stanzetta sul chiostro, ma nel cielo erano gli Alburni, notte e giorno alla finestra. La mia stanzetta era come quella dei padri, in un incrocio di corridoi dove mi piaceva farmi prendere dal vento che vi giocava sempre ed era tutti i monelli della mia strada. Ero stato poco convinto di andarmene. Starà bene, diceva il prete. I monaci mettono il collo grosso, mi sfottevano i lavoranti. 25 lire al mese, risparmio, diceva mio padre. E poi, dopo qualche anno, ti n‘esci. Arrivi al quinto ginnasio al– meno, resisti fino a tanto. Ma se hai la volontà, prendi la messa, ma meglio fino al quinto.
– Te ne devi andare – dissero Michele e Ninuccio e gli altri – a farti monaco. Facciamo l‘ultimo giro.
Non mi ritiravo più la sera, prima di partire. Eravamo una squadra di ragazzi, girammo per tutte le strade, alla torre tirammo i colombi con la fionda, alla cabina elettrica gli uccelli, tutti i giuochi, tutte le dodici stazioni del paese. Uno si curvava a fare il cavalletto, appresso l‘altro lo saltava e si curvava anche lui a distanza, si andava avanti così picchettando le strade. Lo stesso giuoco si ripeté nel vicinato ma con un solo cavalletto, destinato a sorte, e gli altri che gli saltavano ponendo sul suo torso un fazzoletto, che non doveva cadere. Il primo saltava e diceva cantando: – Adesso passa la barca a foglie. E il secondo: Mia moglie ha le doglie. Il terzo: Ha le doglie che deve figliare.
– Ha fatto un bel figliuolo.
– Quanto il capo del mio cetriolo …
In fondo un certo entusiasmo l’avevo di partire.
Ogni mese mio padre andava a Napoli, gli andavo dietro fino alla corriera sperando, ma mi lasciava a terra piangente nella polvere. In maggio tutti andavano alla Madonna di Fonti, finalmente portarono anche me su un mulo, il viaggio fu lungo per dieci chilometri:
Ah, vado a Fonti, mi dicevo: c’erano appena due case nel bosco. Il maestro ci fece raccontare a scuola il viaggio a Napoli di un compagno. Il treno, il mare, il tram – disse lui – e Piazza della Borsa.
Piazza della Borsa! Sì, a me piaceva partire. La mattina Don Giovanni era sul suo portone: – Ah, finalmente – disse – l’andate a chiudere.
Odiai quel proprietario, non gli risposi, avrei voluto dargli un morso al naso.
Il Padre ci ricevé nella foresteria: io ero stato istruito di gettarmi ai suoi piedi e baciargli la mano.
Mi fece le domande di italiano io rispondevo a campanello, mio padre si teneva la coppola tra le gambe, si vedeva che avrebbe voluto gridare dalla gioia: – Voglio portarlo un po’ fuori con me – chiese. Chiamò la carrozzella, mi dette cioccolatine, mi voleva comprare tante cose che io non desideravo più. Si faceva la sera, suonarono le campane: posi nelle sue mani le cioccolatine e mi feci il segno della croce, la carrozzella attaccò la salita del convento. – Hai capito? – mi disse nella foresteria all‘orecchio mentre mi baciava _ Qualche anno resisti. – Il frate cuoco ogni giorno chiudeva un occhio e mi sorrideva, capii che era stato comprato da mio padre. Il pane ogni giorno era di– verso, di colori diversi, a tozzi non mai uguali, era il pane della questua. A turno, mangiando, si leggeva il vangelo fino al tocco del bicchiere del prefetto che rompeva il silenzio. Sveglia, gettarsi a terra e baciarla, preghiera, pulizia preghiera, studio, preghiera, colazione, preghiera ricreazione, preghiera I lezione. Dopo il pranzo finalmente si allargava un cancello e c’erano le terre, i nostri orti, i castani. Lavoravo solo per l‘orto piazzato in capo a un masso che aveva un terreno molle.
L’estate era terribile con quei monti e le lunghe giornate calde: il frate che mi curò la stanzetta quando fui malato scoprì anche la malattia; doveva fare il letto e rivoltò il materasso, gridò che n’ebbi paura come se ci fosse nascosto un serpente. – Ah – disse – vedi. – Vidi le cimici che correvano come formiche, mi scoprii per vedermi i morsi, ma ero tutto bianco e pulito e caldo con la febbre. La stanzetta mi stava dentro il corpo e le pareti, le mattonelle a spiga erano parte di me: dopo il pranzo fino all‘altra ricreazione, alle 6 di sera, erano le ore che passavano più lente. Padre Felice alzava la voce per prepararsi i panegirici.
Ero allegro nei giorni che toccava a me andare a prendere la posta nella buca di un muricciolo sulla rotabile per Sicignano. Era faticoso arrivarci lassù, ma poi si scendeva con le lettere e le cartoline, era quasi sempre il tramonto. Dopo il primo cancello del muro di cinta le pergole delle viti chiudevano lo sguardo, alla porta centrale stava seduto il padre guardiano, un vecchissimo col capo sul petto: – Dove sei andato?
Chi ti ha mandato? – La solita domanda. – Adesso andiamo in treno, – ci diceva nell’oratorio quand‘era allegro e sveglio – o in aeroplano? – Ci ordinava di abbassare il capo sulle mani, in meditazione, e attaccava: – Ciuff, ciuff, ciuf!
Al vespero i padri recitavano l’Ufficio, ognuno di essi con una propria cantilena, sedevano agli ultimi banchi, noi eravamo in ginocchi con il viso alla balaustrata di legno e si guardava dall’alto la chiesa deserta. Al rosario era uno di noi a recitare i misteri, le prime parti del Pater e dell’A ve: pensavo sempre che mi moriva la mamma o che uccidessero mio padre o che in casa facevano lite tra loro e io volevo porre le mie mani per separarli, ma ero lontano e aspettavo la posta per sapere. A un tratto si spegnevano le luci, solo l’olio ardeva in fondo laggiù all’altare che era un traino nella pianura di Eboli di notte: su la tonaca allora e giù le brache, ci battevamo come i padri con le catenelle. Qualcuno faceva più rumore, era un giuoco piacevole per tutti perché, accese le luci, ci guardavamo. Dopo altre cantilene affrettate suonava il campanello per la cena. La luce gialla al refettorio ci accoglieva con il nostro estremo entusiasmo; dopo ogni simile giornata di parole e canti di preghiera. Subito dopo si giocava a dama, senza troppa voglia, in fretta perché l’ultimo campanello era sempre lì per suonare, e, infine, il buio, gli Alburni, e qualche fugace desiderio, ma che desiderio? Il tempo era re- golato dai padri e la loro stessa vita era questa e non poteva essere altra più completa e ambita, a noi non si chiedeva che lo studio e di andare tutti i giorni secondo la regola di quel tempo: essi reggevano le nostre sorti, erano gli idoli dell’avvenire che ci toccava. Desideravo di predicare dal pulpito come Padre Felice da Amalfi che passeggiava e si grattava la barba e i fedeli alzavano la testa, erano i suoi momenti più felici. I preti delle parrocchie ci tengono, mi avrebbero voluto predicatore ammaliante che ingrandisce le feste per i Santi padroni.
Un calderaio forestiero gridava in un paese la sua merce, le padelle, i tegami, i coperchi di bronzo e di latta, aveva una voce forte e il predicatore, era già la vigilia, non arrivava. Perduta ogni speranza, il par- roco lo chiama, lo fa lavare, lo veste della zimarra nuova di prete perché la sera deve predicare. Fecero le prove. – È venuto disse il parroco ai fedeli – il grande predicatore dalla lingua d‘oro, sentitelo.
Si nascose, dietro di lui sul pulpito e dettava e quello predicava le parole del prete: – È la festa del Santo miracoloso, nostro padre e fratello.
– È la festa del Santo miracoloso, nostro padre e fratello.
– Bene!
– Bene!
– Bene l’ho detto io!
– Bene l’ho detto io.
– No, questo non lo devi dire.
– No, questo non lo devi dire.
– Avanti!
– Avanti!
Il prete ricominciò a dettare, attentissimo a non fare commenti, il calderaio aveva la lingua pronta, la sua voce batteva l’aria della. chiesa con il tintinnio d’un suono, piaceva. Chissà come andò a finire. Avevo desideri fugaci perché sapevo che poteva sempre ricominciare la bella vita di famiglia.
Agosto si quietava, i primi giorni di Settembre furono freschi, poi venne la prima pioggia con grandi tuoni ancora al buio. Era parso che l’ardore non si fosse mai spento; come le piante assecchivano, noi cercavamo di tenerci lontani dal sole con mille mezzi, l‘acqua fresca, l‘ombra e il dormire nel pomeriggio. Sarebbero tornate le lezioni e i trimestri, le freccie ai margini dei libri. Al paese c’era l‘ultima festa, dall‘otto al dieci Settembre, per la Madonna del Carmine: il paese scendeva tutto al convento la sera dei fuochi che finivano a mezzanotte; ritornando alle case, qualcuno cacciava il discorso: – Dove ti vai a scrivere quest‘anno? Da quale maestro? – Diventavano frenetici i nostri giuochi e un bel giorno prima che fosse attaccata la vendemmia, lavarsi la faccia e scappare a scuola.
Proprio allora i garofani nel mio orto erano la frescura della terra e le loro corolle si protendevano come i nostri visi di bambini che attendevamo ai banchi le spiegazioni del padre professore. Arrivò l’ordine improvviso di trasferirci a Cava dei Tirreni, fu una notizia che ci rimise tutti in moto. Si prepararono le nostre cose, si infagottarono i materassi per spedirli. Cava veniva dopo la galleria di Salerno, c’è un punto e un momento, in cui passano il treno, le automobili sotto nella strada, i piroscafi nel mare e un aereo. Imparammo dal padre accompagnatore a dire che Cava è la piccola Svizzera del Mezzogiorno. Certo il mare silenzioso dai finestrini mi aveva fatto l’impressione di una immensa partita di grano e Cava con le sue ville l’avevo letta in qualche libro con i piccoli coni di roccia, e le parate di alberi freschi e lucidati. Ma il convitto aveva una facciata biancastra che non mi fece indovinare il formicolio delle tonache dei sessanta convittori. Capii la solitudine di Sicignano, qui le camerate piene avevano letti da una sponda all’altra, e ogni letto un colore bianco o grigio. Il confronto con quelli di Cava, padroni dell‘ambiente, mi sfiduciava. Quelli facevano gruppi con i capi, c‘era il più bello, il più forte, il miglior giocatore, il più studioso. Il più studioso lo immaginavo fatto come me, quello invece era bruno e crucciato, aveva baffetti e peluria e non mi guardava. Feci un‘amicizia era necessario per sentirmi vivere perché quei sessanta non mi accoglievano: Aveva una pelle di caffè, gli occhi neri, oleosi, il labbro rosso in quella pelle, mi sorrideva prima di coricarci e si voltava a dormire dalla mia parte. Suo padre guidava un camion, la paga era poca e cercava un altro padrone: gli scriveva sempre questo e non veniva a trovarlo. Non stavamo insieme al banco di studio, in fila veniva dopo di me perché era più alto, al refettorio stavamo di spalle a due tavole se- parate dal passaggio, all’oratorio egli era al centro e io a sinistra, nelle ricreazioni non si può parlare in mezzo a tanti, ci guardavamo a lungo bisbigliando prima di dormire. Ai lavandini mi lasciò un biglietto la prima volta che i nostri occhi s’incontrarono per avvertirmi che il più studioso sparlava di me al padre di matematica.
Ebbi l’amico e mi piaceva aspettare la sera. E poi, stavano costruendo un’ala al secondo piano per un’altra camerata, noi ogni giorno uscivamo per due ore ad arrecare i mattoni sulle spalle. Mi sentivo bene, pregavo di più, lo scrissi a casa.
Il muratore disse un giorno: – È scoppiata la guerra, andate a pregare.
Il più studioso si mise a parlare dell’Abissinia e dava le notizie nelle ricreazioni, parlava dei generali. Da dove sapeva quelle cose? da dove seppe che quel locomotore imbandierato che si vide saettare giù nella stazione era una staffetta e dietro venivano certi capi d’Italia? Leggeva il giornale che gli passava il vecchio padre che era del suo paese. Parlavano tutt’e due nell’ora di latino di queste cose e tutti erano contenti perché si aveva altro tempo a ripassare le lezioni.
Il mio amico cacciò la mano dal lenzuolo e mi faceva segni, con l’altra si coprì gli occhi, piangeva con lievissimi sbuffi e singhiozzi, si mise un rotolo di lenzuolo in bocca. Cacciai la mia mano alla sua e gliela tenni stretta, così finì di piangere e poté dirmi che il padre aveva perduto il posto.
Ci chiamavano ai funerali in città, puliti con le candele in mano recitando le preghiere. Un prete commemorava il morto parlando dal pulpito, per la città la gente ci guardava, io e il mio amico andavamo sempre, scelti per la diversa altezza.
Andavamo anche a Cetara per i morti, sulla costiera di Amalfi, in filobus fino a Vietri e poi con le carrozzelle. Il mare era tutto fili e specchiava i monti, su qualche piccola spiaggia che pareva una poltrona si vedevano persone all’ignudo. Andammo due volte anche al manicomio di Cava, i pazzi erano seduti come noi nelle loro vesti verdognole. Una marchesa faceva dire la messa a casa sua ogni domenica dai cappuccini, dopo la messa c’era la colazione di latte e briosce. lo non sapevo servire bene, era pesante il messale, tremavo a porgere il vino dalle ampolle, temevo di addormentarmi nei miei pensieri e mancare alle risposte. Nella cappella della marchesa quando non risposi all’Orate fratres, il padre si voltò come un bue, mi chiamò due volte, scit, scit, attaccammo insieme la risposta, mi sentii bruciare le spalle, non mi potetti mangiare la brioscia, dissi che mi sentivo male.
Mio padre seppe che avevo la parte a cantare la settimana santa nel Duomo della città; fece scrivere da mamma che forse veniva. Venne, infatti, ma partì a Napoli per le commissioni. Vidi il treno dal convento, il fumo si perdeva sulla città, il Duomo sorgeva maestoso in mezzo alle case, in un angolo della finestra dondolava la chioma d’un albero.
Cominciai con la mia voce di contralto, il Venerdì santo, la lamentazione seguendo nel «Liber Usualis» gli uncini neri della musica gregoriana: «Incipit lamentatio Jeremiae Prophetae». L‘amico mio mi venne vicino col suo labbro rosso in mezzo alla pagina del libro, che poi toccava a lui.
«Aleph. Quomodo sedet sola civitas plena populo: facta est quasi vidua domina gentium». Le teste della gente si muovevano appena, tutti si tenevano le mani al volto, chini. «Non est qui consoletur eam ex omnibus caris ejus». Ero sicuro di me, ogni tanto volgevo gli occhi abbasso. Sentii una donna gridare e piangere.
«Ghimel. Migravit Judas propter afflictionem et moltitudinem servitutis». L‘armonium aumentava il suono ed io alzavo la voce, il nervoso maestro era contentissimo e m‘incoraggiava muovendo la bocca. La donna piangeva e gridava si sentiva dal fondo d’ingresso della chiesa.
«Daleth. Viae Sion lugent... omnes portae ejus destructae; sacerdotes ejus gementes: virgines ejus squalidae, et ipsa oppressa amaritudine … ». «Parvuli ejus ducti sunt in captivitatem ante faciem tribulantis». E poi tutti in coro: «Jerusalem, Jerusalem, convertere ad Dominum Deum tuum».
Avemmo i confetti da Monsignore. Mio padre non tornava, i campanelli e le campane non suonavano, la sveglia veniva data con una raganella, i crocefissi erano coperti, tutto il giorno silenzio a tavola e alle ricreazioni. Chi era stato Geremia? Perché ancora si cantavano i suoi lamenti? La città vedova, le vie di Sion che piangono, le vergini squallide, e Gerusalemme? Chi era quella donna in chiesa e che voleva con le sue grida? Tutte queste domande in quel si- lenzio.
– Mi ha detto il padre che hai cantato bene, come stai qui? – Venne mio padre, volle vedere i cessi, i lavandini, le camerate e il mio letto. Scoprì le coperte, tastò. – È duro, – disse, – come mai? Ma questo non è il nostro materasso, a chi lo hai dato?
Era un altro, quello mio non era arrivato da Sicignano. – Ma, padre, dove si trova il materasso di mio figlio? – Tutto il corredo mia madre l’aveva apparecchiato secondo la nota, il materasso era di lana e mi sarebbe servito per tutta la vita. Stava a Giffoni Vallepiana, nella stanza riservata al Padre Provinciale.
– No, mi dispiace, non va bene quello che ha, – disse mio padre. Partì di nuovo a prendere il materasso. – Ci stava bene il padre Provinciale! – mi disse al ritorno. – Ho sfacchinato.
– Tu stai attento a queste cose, non farti imbrogliare; mangi bene? – Mi cacciò in città, s’era fatto troppo premuroso e temeva, mi fissava negli occhi perché vedeva che io sapevo sopportare. – Hai ancora le cimici? e quel puzzo ai cessi, ma non li lavano? – Non sapeva e non gliela dissi che uscivano certe grosse zoccole sul soffitto di legno, andavo il meno possibile ai cessi portandomi dietro l’astuccio della penna per fare rumore e spaventarle, ma quelle si volevano lanciare addosso. Egli ripensò al materasso: – Non sapevo che i padri facevano queste cose. Ma tu – disse poi – ti ricordi sempre della casa nostra, di tua madre? – Risposi di sì, – Vorrei una fotografia, – dissi. Le faccie dei miei mi pareva di non ricordarle.
– Tua sorella grande tiene una bambina, tuo fratello se non mette la testa a posto!, l’altra sorella cerne farina ogni tanto, – si mise a ridere. Si gratta addosso – spiegò – quando è comandata di andare alla fontana. – Scrivi se non stai bene e accorto! – Mi salutò per partire. Era andato e venuto tre volte in quei giorni. Rientrato nello studio, aprii il libro e le lettere ballarono per conto loro sotto gli occhi.
Aspettai il campanello del silenzio e il mio amico. Stemmo zitti per una mezz’ora quanto si sentì fischiare il treno di mio padre e gli altri si addormentarono. Gli detti una pastella ogni notte fino a che mi disse: _ Me ne vado, hanno scritto da casa a Padre Rettore. Mio padre ha trovato un lavoro, ma ha bisogno di me per aiuto a caricare, deve vedersela tutta lui, secondo il patto col padrone. E allora, non posso più studiare, ci dobbiamo separare. – Ci tenemmo strette le mani ancora due notti, faceva un acquazzone quando se ne andò che accendemmo le luci nello studio. Mi affogavo, il fiato degli altri riempiva la camerata, non mi gettavo a baciare la terra il mattino, ma correvo ad aprire le finestre.
Mi venne a riprendere mio fratello, con una cravatta a farfalla, una domenica, tutti i negozi erano chiusi e bussammo fino a trovare un paio di calzoni. – Ah, Pulce rossa, vuoi cibarti. Angelina non l’hai scordata, te ne sei venuto, e lì come facevi? – mi disse un lavorante sputando sulla suola e ridendo. – Lascialo andare, – diceva mio padre, – avesse resistito un altro poco.
Avevo resistito due anni e mezzo. Il paese era annerito e fumoso, le donne che mi attorniavano avevano vocette stridule.
I frati non furono un’esperienza negativa, lo capivo appena uscito, chiaramente se ero capace di sostenere il contegno davanti agli altri petulanti, prepotenti, se tra la folla ogni uomo, con la sua faccia e il suo peccato, o con la sua bellezza, io dovevo rispettarlo come fratello.
Inoltre – a parte il latino e il pane della questua – la conduzione dell’orto fatto nel convento è un mestiere utile e delicato. Tutti gli amici prediletti, figli di contadini e di artigiani, imparavano ognuno un mestiere.
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