La seconda parte dell’UP si compone di sette capitoli di racconti di storie locali, alcune leggere, altre segnate profondamente dal tempo drammatico dell’armistizio. 

     Il prof. Bronzini[1] sottolinea che le storie si snodano con un procedimento narrativo e un movimento dialogato che in più punti ricordano moduli verghiani. L’annotazione rimanda agli interrogativi che si pone Rosalma Salina Borello[2]: «Si dovrà continuare ad applicare ad uno scrittore come Scotellaro la stinta etichetta del neorealismo, in quell’accezione restrittiva e mortificante che è venuta assumendo in tante pagine della critica? E se sì non si dovrà almeno cercare di sovrapporre mentalmente al prefissoide neo che connota ormai negativamente la letteratura di un intero periodo, quell’altro prefissoide, post, non tanto per fare del realismo un termine alla moda, quanto piuttosto per ricuperare quella dimensione utopica e apocalittica, che si apre dopo la caduta delle parole forti, il crollo di tutte le maiuscole che tanta parte ha nella nostra coscienza contemporanea?»

     Si raccontano in questa seconda parte le storie di Giovanni, prototipo di generazioni di giovani tricaricesi addestrati all’amore da zia Filomena, che ha esercitato ufficialmente il mestiere più antico del mondo fino ad età avanzata; Giovanni gioca ai soldi col merco e a spaccamattoni, e col guadagno può pagare la tariffa richiesta da zia Filomena, stabilita in base al costo del biglietto del cinema (cap. I); l’asta di misere e inservibili cose pignorate dal vecchio usciere di pretura e la ribellione di mastro Innocenzo (cap. III); il suicidio di Pasquale il fuochista (il capitolo, III, il più bello dell’UP, una autentica perla incastonata nel romanzo); la misteriosa e tragica vicenda dei due fratelli inghiottiti nello spaventoso bombardamento di Potenza (cap. V); la «liberazione» di Tricarico (cap. VI), l’epilogo della vita del padre, malinconico e rallegrato dall’arrivo della figlia (Serafina) col marito sottufficiale dell’esercito e il suocero infermiere.

     Alzando il velo di queste storie emergono luoghi e persone della Tricarico di molti decenni fa.

     A metà della seconda parte, nel IV capitolo, viene riproposto il rapporto di consanguineità col paese attraverso un’immagine antropomorfica dell’aria, che, quando il paese «è vuoto» e «alzi gli occhi», «ti prende, hai voglia di goderla, di riempirla di te, quella ti prende nelle braccia sue e si sentono le nenie che hai già scritto, esclamano le stesse vacche da Serra del Cedro, ritornano i giorni passati con i fatti che successero e le tinte di allora, i luoghi, la vigna».

     In questo post riporto il Cap. I. Nei successivi post riporterò, uno la volta, gli altri sei capitoli, introdotti da brevi premesse che completeranno gli accenni fatti in questo post. Un velo copre luoghi e persone delle storie: lo solleverò per mostrare, per l’appunto, luoghi e persone di settanta-ottanta anni fa. Per le persone, ovviamente, fin quando il rispetto del diritto alla privacy me lo consentirà, a cominciare da Giovanni, che, d’altronde, Rocco scelse non per un ruolo reale esercitato da “Giovanni” , ma per il suo aspetto di cane bulldog.

    

 

Parte seconda

 

[I]

 

«Si andava a giocare ai soldi, al merco (è una pietra che fa da pallino, deve avvicinarsi il più possibile la  due soldi), allo spaccamattoni, vicino la caserma dei  carabinieri. Era una domenica, tenevo una mezza lira, vinsi due lire.

          – Be, stasera, vuoi venire da zia Filomena?

          – Dov’è? Che si fa?

          – Andiamo là e ci divertiamo.

lo per non far capire ai compagni che volevo andare, cercai di allontanarmi da loro per andare da  solo a bussare.

     La sera mi appostai, quando non passava nessuno, mi misi a bussare.

          – Chi è?

          – Vieni ad aprire.

          – Non ti posso far entrare, perché poi lo sa tua madre.

          – Ma io ho i soldi, glieli feci sentire.

Aspettai che quello che c’era dentro finisse i suoi comodi. Vide che non me nandavo e mi buttò l’acqua  addosso, quella... La seconda sera la porta non era  tutta chiusa, entrai, le detti due lire. Adesso fa a cambio merci, chi le porta ceci e fave, chi grano, formaggio,  olio.

Ne ha fatto battaglie! Sa guarire le malattie, è pulitissima.

Zia Filomena, ci dovessi fare prendere qualche malanno? È sicuro?

          – Sì.

Adesso è una schiumarola vecchia».

Il racconto è di Giovanni, che fu educato allamore  con quelle due lire, come lo furono altri giovani che oggi sono padri di figli.

 

* * *

 

Zia Filomena, giovane era stata bella, una gallina  faraona. La porta bassa è chiusa, al finestrino passa tra gli spacchi del battente di legno una luce tremolante  di candela, sulla strada è quasi giorno.

I due giovinastri hanno smesso di tormentarla, erano ubriachi scotti, le si sono addormentati ai fianchi,  uno a capo e l’altro a piede del letto, con le loro  mani abbandonate sul suo grembo e sulle coscie. Ma sono mani piccole: in mezzo zia Filomena dorme supina, gonfia dal collo al ginocchio, col capo appoggiato  a destra, in direzione della porta, il suo profilo è sempre  nettamente giovane sebbene cresca dalla macchia grigia  dei capelli e dal guanciale sporco, giallastro.

Nicola, il più mingherlino, le sta sotto il mento,  dorme col capo rovescio sulla nuca, col naso all’insu;  Giovanni è chiatta, una gamba zia Filomena deve avergliela allontanata con rabbia perché l’infastidiva. Si  vedono le gambe nuotanti e le natiche discrete, accostate al grembo sovrastante di zia Filomena, tanti nervi  al dorso e infine la faccia di cane buldoc di Giovanni  e il suo naso schiacciato.

     Filomena, apri.

     – Andate via, andate via, stasera ho sonno.

     Apri, Filomena, siamo Nicola e Giovanni.

     – Siete ubriachi, non vi tengo.

     – Rifiuti i tuoi figli migliori!                              

     – Sono Nicola.

     – E Giovanni, il tuo amore, rifiuti?

     – Nicola ti scassa la porta, fa presto.

     – Be, volete sapere? sono già occupata.

      – Ah, ci tradisci, e chi è?

     – Facci sentire la voce.

     – Basta, sono occupata.

     – Caccialo e veniamo.

Zia Filomena si alzava, Nicola andò al finestrino,  a livello dell’altra stradetta; si distese per terra, spiando  era tutto buio, bussò una volta, due, venti che si sentiva  un tamburo e si mise a cantare. Giovanni sosteneva  di più il vino, restò in piedi alla porta: – Amore di  Filomena mia – bisbigliava. Quando apri, le disse: –  Ah, te ne sei venuta al dolce canto. – Andò a prendere  Nicola da terra, se lo portò in braccio che cantava  brandendo una mazzarella e con quella colpendo intorno: – Dov’è? Dov’è? Devo fare prima io, la devo  sfregiare.

Giovanni lo pose sul letto. Zia Filomena lo lisciò  e lui diceva «Stenditi, non mi abbandonare» e quella  gli rispondeva «Aspetta, Giovanni mi tiene di dietro  non mi posso muovere».

– Vieni – diceva Nicola – dov’è la mazza?

– Non ti muovere – diceva Giovanni.

– Fatemi mettere in mezzo.

– Al lato mio, presto.

– Un minuto, un momento – disse Giovanni.

– Dove sei, scrofa?

– Accendiamo le candele, me l’avete portate?

Giovanni era il più forte, ora mise lui l’ordine in  quel groviglio. Accese le candele che Nicola teneva in tasca, una per accendere, le altre da lasciare in  regalo alla zia:

 – Te, le candele, non dire niente a  nessuno se no Nicola il padre lo ammazza.

Filomena staccò le mani di Nicola dal suo petto,  prese le candele come le venivano offerte in omaggio  votivo: – Adesso mi corico e siamo a posto.

Nicola ritornò impaziente, disse Giovanni: – Va  bene, io la liscio soltanto. Anzi c’è il lettino di riserva.  _ Era la cassa. – Me ne vado là. Quando ti sento russare, ritorno.

– Nicola.

– Eh.

– E svegliati.

_ Lascialo andare, fra poco vedi che vomita.

– Nicola, qua. Che collina!

Si misero a lisciare insieme la sua pancia.

– Sembra la collina di Greta Larga, come si chiama? Montagna di sole.

– Eppure, sei parente ai settanta.

_ Sono come sono – strinse i denti e li mostrò.

Trovatevi una moglie pari mia.

– Lavoratrice come te.

– Proprio.

Il paese cominciò a muoversi, si aprirono le stalle, la gallina faraona si era addormentata per l’ultimo  sonno dopo Nicola e Giovanni che aveva guardati  come una mamma.

– Adesso filate, è tardi.

Gettavano l’acqua sulla strada, gli spazzini raspavano con le scope. Nicola a un pezzo di specchio  intonacato – Ho fatto il colore olivastro – diceva.

_ Oggi ti voglio – disse Giovanni – a stare in piedi tutto il giorno.

_ Filate debolezze, – disse zia Filomena, – io devo  lavare due cesti di panni oggi in casa del dottore.

 

[1] L’universo contadino e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro, p. 142

[2] Neo e post realismo in Rocco Scotellaro, pp. 432-438, in Scotellaro trent’anni dopo – Atti del Convegno di studio, Tricarico-Matera, 27-29 maggio 1984

 

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