Rapide pennellate disegnano, nel breve Capitolo II della Parte seconda dell’UP, un ricco affresco di luoghi personaggi e vicende della vecchia Tricarico.

     Cominciamo dalla piazza. Nelle seicentesche stampe di Tricarico una striscia in terra battuta attraversa il paese a metà del monte che scende verso i rioni bassi. Laddove la discesa si fa più ripida, e sembra quasi precipare, nel medesimo luogo dov’è l’attuale piazza, la suddetta striscia in terra battuta si allarga e, nelle suddette stampe, figura come piazza. Nel tempo la ripidità della discesa sarà alleviata da un salto ottenuto con un’opera di contenimento in muratura della piazza e dai gradoni del Calancone; alla piazza saranno date grandezza e la forma attuali, la striscia in terrà battuta sarà ugualmente pavimentata e prenderanno forma il corso e via Roma (ora via Rocco Scotellaro).

     La vecchia piazza qual era fino alla prima sindacatura di Scotellaro era pavimentata con un giuoco di selci bianche che circondavano i ciottoli in un quadrato che si spezzava in tanti altri, e infine in losanghe entro i più piccoli quadrati, della lunghezza del passo. La descrione trascura, nonché le losanghe, il monumento, anch’esso essenziale per descrivere il quadro completo delle consuetudini di godimento di quel centro vitale del paese: le autorità, i preti, il veterinario e gli avvocati coi loro clienti, per usare le parole di Scotellaro, che passeggiavano sulle selci bianche; gli altri che si piazzavano a parlare su uno dei quadrati; i bambini che giocavano allo scivolo sulle basi del monumento. Sulle selci bianche passeggiava solitario per lunghe ore, con l’immancabile paglietta in testa reclinata a sinistra, Renato Bitossi, militante comunista e ultimo confinato politico a Tricarico, dove si trovava il 25 luglio 1943[1].

     Lo sgabuzzino per la polizia urbana e campestre, negli anni antecedenti la descrizione di Scotellaro, era stato adibito ad ufficio dell’usciere di pretura, di cui riferirò più avanti; all’ora del tramonto ospitava i canonici del numeroso Capitolo della Cattedrale, che prendevano il fresco e chiacchieravano seduti, lungo il muro, sulle sedie dell’ufficio e su altre gentilmente prestate da Giustina Binetti, che gestiva una trattoria al lato dello sgabuzzino. In questo erano ancora visibili le tracce di una porta, la Porta di Piazza di cui parla Scotellaro.

     Non richiede commenti la puntuale descrizione dei luoghi intorno intorno la piazza che si legge nell’UP, se non per accennare che l’autore rende concretezza storica al ricordo della vigna nella piazza e al ricorrente minuetto «‘mammeng?’, ripetuto tre volte, e alla cinica risposta  ‘ammìnt e frècat’, ripreso anche in una canzone dei primi Tarantolati di Tricarico di Antonio Infantino, Franco Ferri, Rocco Paradiso e Marcello Semisa, dove si vedeva un ombrello calare dolcemente dal muraglione del palazzo ducale, al posto del povero disperato falegname Michele rovinato da un sequestro.   

     Scotellaro precisa che «La piazza la fece il sindaco che stette trent’anni sopra il municipio», aggiungendo, più avanti, che prima dei ciottoli e delle selci c’era la vigna. “Quando in piazza c’era la vigna” era espressione, forse ancora in uso, che allude metaforicamente a tempi preistorici. Ma qui Scotellaro pare dirci che il sindaco che era stato trent’anni al municipio era stato l’amministratore che aveva provveduto a compiere la grande opera che ho innanzi descritto. La «vigna nella piazza» forse non è una metafora ed è più vicina di quanto si possa pensare.

     Il sindaco che «fece» la piazza, se la congettura è corretta, fu don Nicola Ferri, l’amministratore di più lungo e proficuo corso del Comune di Tricarico e della Provincia di Matera. Indubbiamente un uomo di potere e del fare. «Don Tommà!» – disse al dott. Tommaso Santoliquido, nel 1932 commissario prefettizio del Comune di Tricarico, mostrandogli la «cimice», come veniva spregiativamente chiamato il distintivo del partito fascista che si portava obbligatoriamente all’occhiello – Vedete, don Tommà: qui c’è l’acronimo P.N.F. Oggi significa Partito Nazionale Fascista, ieri significava Partito di Nitti Francesco Saverio, ma ieri, oggi e domani ha significato, significa e significherà Partito di Nicola Ferri -. Questa boutade di don Nicola me la raccontò molti anni dopo lo stesso don Tommaso, che si era ritirato a Reggio Emilia, ultima sua sede di servizio, a godersi la pensione arrotondata con pareri in campo amministrativo, in cui aveva larga esperienza.

     La pavimentazione della piazza fu sostituita da Scotellaro nel corso della sua prima sindacatura (1946 – 48), con una pavimentazione di scuri mattoncini di porfido, in stridente contrasto con la luminosità e impronta medievale della precedente pavimentazione. Quell’intervento, che costò non pochi soldi a quell’amministrazione, fu indubbiamente un errore.

     La pavimentazione originaria è in un qualche modo ricordata dalla nuova pavimentazione fatta fare dal sindaco Melfi con gusto postmoderno; i due cannoni puntati successivamente ai lati dei ferri hanno un innegabile aspetto comico[2]. 

     Il «vecchio usciere di Pretura, [a cui] i baffi coprivano la bocca» era don Michele Valinotti, nonno di Mario Trufelli. Don Michele aveva lavorato in ferrovia e, all’età della pensione si trasferì a Tricarico, con la moglie, che lo lasciò vedovo dopo penosa malattia, le due figlie: Lucietta con i suoi quattro figli, il cui marito, Ciccio Trufelli, lavorava nelle Marche e a Tricarico trascorreva brevi periodi di vacanza per trasferircisi definitivamente all’età della pensione, e Vincenza con una figlia, che sposò un maresciallo dell’esercito e si trasferì con  la madre a Santeramo. Don Michele è stato un grande lavoratore. Gestì un albergo, che ospitò, durante il periodo del suo confino a Tricarico, il capo dei capi della mafia don Calogero Vizzini. Ebbe la cura dell’orologio di Santa Maria dei Lombardi e dell’orologio di San Francesco. Questo, dopo il terremooto del 1980, fu sostituito in modo da non ricordare nulla del vecchio orologio. Certamente la decisione fu presa in base a dotte consideraioni storiche e architettomiche, che ignoro e, perciò, posso permettermi di dissentire in base alle ragioni del cuore.

Don Michele, inoltre, per tutta la vita è stato facente funzioni di usciere di conciliazione e di ufficiale giudiziario di pretura. A oltre 80 anni si recava a piedi a notificare citazioni e atti giudiziari, qualunque fosse la distanza, finanche a Calciano. Si spense serenamente una notte del mese di marzo del 1953. Quella stessa mattina, di buon’ora, Michele Molinari, allora praticante procuratore legale in vista del relativo esame professionale, pensò di chiedere a don Michele la notifica di una citazione: si recò a casa Trufelli, che era in piazza, sul gradino di casa sedeva mestamente Ciccio Trufelli, genero di don Michele. Michele Molinari disse, più a mo’ di saluto che per chiedere di don Michele: – Don Michele ? -; il genero girò la testa e con un cenno dell’occhio e un sospiro indicò la scala. Michele salì, la portà era aperta, entrò e … il primo a porgere le condoglianze ai familiari affranti, che apprezzarono molto la tempestività del pensiero[3].

     Don Michele, nel racconto dell’UP, batteva l’asta, andata deserta, di povere cose pignorate, che nessuno aveva interesse a comperare. Con poche parole (l’elenco delle cose pignorate, il sequestro del falegname Michele, che si lancia dal muraglione del palazzo ducale in viale Regina Margherita) Scotellaro rende il dramma della grave crisi sociale del paese. A questa reagisce mastro Innocenzo (mastro Innocenzo Bertoldo), calzolaio, suonatore di clarinetto nella banda musicale locale, socialista e vice del sindaco Scotellaro. Mastro Innocenzo era un rivoluzionario dal cuore mite e dal linguaggio violento, col quale sfogava la sua rabbia contro  le ingiustizie del mondo. Fu confinato alle Tremiti, dove, scrive Scotellaro: «vi rimase degli anni apprendendo una larga cultura di grandi uomini, scienziati e artisti di tutti i paesi, che non avevano nulla a che fare col nome scritto sui muri di tutt’Italia». Il confino, con tali frequentazioni, fu l’Università di mastro Innocenzo. Alle Tremiti imparò tutto quanto sapeva. Non si è mai sentito dirgli: – Quand’ero al confino -, ma – Quand’ero all’isola – o più spesso – Quand’ero all’Università-.

 

Ecco, ora, il testo del secondo capitolo della Parte seconda dell’UP:

 

[II]

 

Al vecchio usciere di Pretura, i baffi coprivano la bocca.  Con gli stessi più folti e più neri aveva baciato il re  a Messina nei giorni dei febbrili soccorsi ai terremotati:  Tenaglie con un manico. Manico appena rotto, due  soldi per la spazzola, il piede di porco, la raspa. Si  accende la prima candela. Accese altre candele, che si spensero senza offerte.

La piazza la fece il Sindaco che stette trent’anni  sopra il municipio. È un giuoco, un disegno di selci  bianche che circondano i ciottoli, un quadrato che si  spezza in tanti altri fino al più piccolo della lunghezza  del passo.

Pochi ci passeggiano, sotto e sopra, seguendo le  liste bianche: le autorità, il veterinario, i preti, gli  avvocati, con i loro clienti ed amici; gli altri si piazzano  in uno dei quadrati e parlano.

      Dal crocchio del vecchio usciere qualcuno si voltava a quello di Mastro Innocenzo ridendo: – Fate  pure, – diceva lui, – e poi mi dite quanto costa la  mia mercanzia. – Sulla piazza le case intorno  intorno:  la Loggia dei Nobili, ora Cappella del Patrono, che  nel disegno della fine del Cinquecento appare sormontata da una cupola uguale a quella delle orchestre e  forse perciò è scomparsa e non si sa quando: all’altro  angolo la Porta di piazza col corpo di guardia ridotto  uno sgabuzzino per la Polizia Urbana e Campestre.  È l’entrata dalla rotabile, che la chiamano viale per  qualche albero di acacia. Sulla farmacia e su altre  costruzioni disuguali la chiesa di San Francesco col  campanile e lorologio francese si trova alta dove comincia il rione Monte. Opposti allentrata i bastoni  di ferro lunghi tutto un lato e le due vie che scendono  ai rioni bassi, perché qui la piazza è stata riempita,  cè un muro per farla piana. Dopo lalbergo e il caffè, comincia il corso, da dove rientra al Palazzo ducale  che si schiera sullintero quarto lato del quadrato addossandosi alla Loggia dei Nobili.

I venti vi giuocano tutti; quando cera la vigna, prima dei ciottoli e delle selci, doveva essere più riparata, perché secondava la discesa stendendosi a sud-ovest, dove cè il muro e i ferri; soltanto i filari di  sopra, verso la Loggia a nord-ovest, dovevano essere  sconvolti.

     Il Palazzo del Duca si congiunge con le abitazioni vescovili da una parte e dall’altra col suo torrione  cadente e uno spiazzo elevato guarda alla Serra e alle  terre di pianura, queste le tiene sott’occhio. Si entra  nel Palazzo da un portone tutto chiodi, grossi come  quelli della Croce, e c’è una strada che va su fino  all’arco, tra due muri alti un rettangolo di cielo, a  destra che si affacciano sulla piazza sono gli uffici  statali delle Imposte e della Pretura. Passato l’arco, l’abitazione dell’amministratore, i magazzini, la casa del  mulattiere oltre la cisterna in mezzo allo spiazzo. Da  questo, scavalcando un muricciolo, al viale è il capitombolo mortale. Lo scelse Michele, il falegname, quando fu rovinato da un sequestro: la mattina presto  passavano i contadini per il sopportico che congiunge  il corso al viale, l’arco lo fece fare Federico secondo  di Svevia e ogni pietra in tutto il sesto porta scolpita  una figura di animale vivo o mitico, quanti più ne  sapeva, la corriera faceva fumo e puzzo di nafta ed  era partita illuminando le campagne, i gruppi di contadini non finivano mai, salivano dai rioni, attraversavano il viale con i rumori dei muli, dei basti, delle  zappe, degli aratri e prendevano la discesa, sotto le  latrine, per le terre lontane, Michele disse una volta:  Adesso mi butto – a voce alta, ma nessuno lo sentì.  Rimase appoggiato al muricciolo, indeciso. – Adesso  mi butto, – ripeté. Laria diventava di cenere, i contadini passavano come tante formiche, il sole, tra un  po‘, avrebbe avanzata la Cresta della Serra. Lo disse  unaltra volta, lo sentì qualcuno che gli rispose: – E  bùttati, e fregati! Allora lui spiccò il salto e si  ammosciò a terra.

    Lusciere aveva finito. Mastro Innocenzo disse: Delinquenti! – rivolto al suo crocchio in modo che non fu sentito dall’altro. Aveva scherzato tutto il tempo: – Gli ho fatto trovare uno scendiletto di orso  bianco, roba da salotto parigino, un comò di mogano, voglio vedere che prezzo fanno. Delinquenti! – disse  poi più forte. Quelli se ne andavano al Palazzo del  Duca, lui lasciò gli stessi che avevano riso, magari  gli avevano detto: – Lasciali fare, sta zitto che ti sentono. Stasera c’incolli un bicchiere in più per il danno.

    Prese per il viale, c’è il tratto di case, poi la campagna, andava a passi lesti come inseguito se lo avessero sentito, ma ormai era deciso, parlava da solo  «Delinquenti, delinquenti». Svoltava sotto la torre e  ritrovava le case dopo la tempa degl’Impisi.

– Che c’è Innocenzo?

       – Delinquente sei pure tu e il governo che ti garantisce. – Si liberò con un gomito, era già a casa: le donne che si trovavano a quellora nel vicinato, i  vecchi, i ragazzi che uscivano di scuola si fermavano.

Hanno fatto affari al mercato, – chiamava la  moglie, – non potevi portare i tuoifermagli doro!  Nemmeno un pezzo hanno venduto. Accendevano i cerini senza le sigarette. Sentite a me, questi dobbiamo  scannarli.

Lo mandarono al confino alle isole Tremiti, vi rimase degli anni apprendendo una larga cultura di  grandi uomini, scienziati e artisti di tutti i paesi, che  non avevano nulla a che fare col nome scritto sui  muri di tutt’Italia. Fece bene ai marinai il giorno che portò le scarpe al Commissario di polizia al palazzo.

Non lo trovò, c‘era un caldo, di camera in camera  arrivò in terrazza, stavano stesi quattordici materassi  di lana al sole.

Il commissario non gli pagava le riparazioni né lopera per le scarpe nuove: il gomito di Innocenzo era sempre inquieto o bevendo o ragionando delle cose come andavano, con uno scatto che diede, un materasso andò giù. I marinai videro la scena, si avvicinarono con le barche sotto, nel mare. «Delinquenti, delinquentle parole ritornavano alle labbra dInnocenzo, tutti i quattordici materassi li menò giù. Il mare era largo, i marinai però capirono secondo  lui – le sue parole.

 



[1] Alla vita e alla carriera sindacale e parlamentare di Renato Bitossi ho dedicato un apposito  post.(lo si può leggere cliccando il tag: bitossi)

[2] Chi vuole può leggere il post Guerra del cannone tra Tricarico e Accettura del 22.5.2011 (tag. Accettura)

[3]  Si possono leggere altre notizie su don Michele Valinotti nel post “L’orologio di Santa Maria dei Lombardi” dell’11.02.2011 (tag: don michele valinotti).

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