In questo capitolo Rocco racconta un fatto realmente accaduto[1], che lo aveva profondamente emozionato e coinvolto fino a sentirsi responsabile. Il racconto ha inizio con un atto d’accusa a se stesso e alla comunità con le parole del saggio re Salomone (cap, 24, 10-12 del Libro sapienziale I Proverbi): «Libera quelli che son condotti a morte,  e salva quei che, vacillando, vanno al supplizio. Se dici Ma noi non ne sapevamo nulla!..». Scotellaro commenta: «Successe il fatto prima che queste parole fosse scritte», ossia quando la sapienza la solidarietà la pietà non abitavano la Terra.

     Del fatto qui raccontato ho personale ricordo. Pasquale abitava sotto la Chiesa Madre, e sotto la Chiesa Madre abitavo anch’io. Quando il fatto accadde dalla mia casa udii il forte rumore dello scoppio del mortaretto e la lunga eco che rimbombava nei vicoli come annuncio funebre, con cui Pasquale si dette un’orribile morte. Il racconto dell’UP mi fu letto non molto tempo da dopo da Rocco nella sua cameretta. Preferisco, quindi, per sottrarmi al carico di emozioni, rifarmi, per la scrittura di questa premessa, alle due opere di Rosalma Salima Borello[2] e di Giovanni Battista Bronzini[3]., che ho spesso citato nei precedenti post,

     Il fatto accadde mentre Scotellaro era Sindaco. Rinvio alla lettura del capitolo, scartando senza dubbi l’idea di riassumere il fatto, e passo all’analisi del testo compiuta dalla Salima Borello.

     In tutto il capitolo Scotellaro si designa sempre in terza persona e con la funzione di sindaco «e tante volte andò a casa del sindaco» «e il sindaco però gli disse», «il sindaco lo fece assistere dall’Eca», «delle ore aspettava davanti al portone e lo videro il sindaco e quelli della Camera del lavoro», «Pasquale ritornò dal sindaco», «vide il sindaco attorniato di poveri», «il sindaco piegò il capo», «Cosa c’è ? Cosa ho fatto ? – disse il sindaco». Solo alla fine si registra un brusco passaggio alla prima persona – «l’io narrante viene ripristinato nella sua funzione») («il prete non volle ragionare con me», «il sindaco che ero io»

     La scomparsa dell’io narrante consente di disporre la narrazione in una prospettiva multipla, quale potrebbe essere quella di un racconto a più voci. Si risale a un’ascendenza verista, al Verga dei Malavoglia[4], al quale, per l’appunto, si può far risalire la tecnica della compenetrazione del narratore e dei personaggi. Nel capitolo in esame possiamo assistere infatti ad una continua irruzione nel tessuto narrativo di altre voci di anonimi personaggi, nel ruolo di spettatori-narratori della vicenda.

     Si veda questo esempio:

 

Andò per essere ricoverato all’ospizio  di mendicità, i vestiti erano sporchi e logori, lì ti lavano, magari ritorni bambino e stai in chiesa e vai in fila  con gli altri vecchi a due a due, ma stai comodo e  c’è il letto buono e la pulizia. Gli chiesero se dava  la casetta in cambio del ricovero. Doveva pensarci

 

     Nel caso di Pasquale, le motivazioni psicologiche del suicidio sono suggerite attraverso certe notazioni di carattere «fisico », che  per essere stato chiamato a preparare i fuochi pirotecnici, espressa soprattutto dall’insolita animazione dello sguardo e dal  trangugiar saliva, parlando (<<gli occhi guardavano attorno, ingoiava saliva, parlava», all’umiliazione di non essere più in grado di  mantenersi (« lui salutava sempre, ma con vergogna») e di dover quindi  ricorrere all’assistenza pubblica lui nascondeva la pasta sotto la  mantellina») all’entusiasmo con cui, non appena intasca i soldi per  la vendita della casa, si procura il materiale per concorrere alle  feste e contrattare i fuochi. La delusione è espressa in un tono  impersonale, con la fredda oggettività della costatazione:

 

Per due giorni tra l’atto del contadino, il materiale comprato e il ragazzo chiamato in aiuto, le feste tornavano a mente, i paesi vicini, le trovate dei fuochi.

 

     Anche langoscia è descritta nella sua fenomenologia esterna si sentiva debole nelle gambe») e nellinconcludente ed umiliante  andirivieni («andava da una parte e dall’altra cercando di non farsi  vedere»). Nella parte conclusiva del dramma è invece omessa ogni osservazione che possa in qualche modo far luce sullo stato d’animo di Pasquale prima del suicidio:

 

Dormì per quel bicchiere, placido, si svegliò di buon’ora.

 

     Il suicidio non si differenzia da qualunque altro atto della vita d’ogni giorno: Pasquale prepara l’ordigno come lo aveva preparato per le feste paesane ed il narratore può tranquillamente indugiare a descrivere com’è fatto l’ordigno e quant’è lunga la miccia.  E questo perché la morte di Pasquale non ha bisogno di essere rivestita di funebri addobbi per essere tragica e sconvolgente: determina infatti nella vita del giovane sindaco una svolta importante  e la rinnovata coscienza della propria missione.

     Del resto, l’oggettività del racconto non è che una tecnica o una strategia un modo di disporre gli avvenimenti come « se si fossero prodotti  mano a mano che apparivano all’orizzonte della storia» Scotellaro, in  realtà, non rinuncia affatto ad un giudizio sulla vicenda, un giudizio che  rimane però compenetrato e fuso nella narrazione, nello stesso dispositivo testuale. Si veda ancora la rilevanza che acquistano certe notazioni di tipo indiziale come quelle relative alla mantellina di Pasquale che si configura, attraverso una serie di ripetizioni/modificazioni, come un elemento portante della struttura narrativa. Pasquale è costantemente presentato avvolto nella sua mantellina che, da emblema di una condizione di estrema indigenza portava una mantellina inverno ed estate, non doveva possedere più la sua giacca») si fa tratto individuante della sua figura Si vedeva la sua festa, la mantellina avvolta al collo») per diventare poi elemento  funzionale allo svolgimento del racconto nella frase: «lui nascondeva la pasta sotto la mantellina» che contiene una funzione (o azione) e, contemporaneamente, l’indizio di uno stato d’animo particolare.

     Ma la mantellina di Pasquale, attraverso il suggerimento fornito dalla citazione dal Deuteronomio, cap. 24, 10-13 Non mancherai di restituirgli il pegno al tramonto del sole, affinché egli possa dormire nel suo mantello») finisce per assurgere alla dignità di simbolo allusivo alla soluzione etica del dramma: la scoperta, da parte del sindaco, di quello  che dovrà essere il proprio compito. Le analogie tra il fatto reale e il passo del Deuteronomio non finiscono qui: tutta la vicenda di Pasquale appare costruita su una rete invisibile di rimandi-contrasti  con il passo biblico. Si può, ad esempio, scorgere un parallelismo tra la prescrizione ebraica di non umiliare il debitore (<<non entrerai in casa sua per prendere il pegno, te ne starai di fuori… »)  e la brutalità dell’esecuzione forzata dell’atto di precetto («Domani  alle nove del mattino sarebbe scesa la forza, i carabinieri dietro le  spalle del contadino »).

Un altro importante elemento indiziale è dato dal paesaggio, estremamente stilizzato ed astratto, posto in chiusura di capitolo  che costituisce, ad avviso della Borello da me condiviso, uno dei «pezzi» di maggior pregio  del libro:

 

Ero pieno di queste parole, non avevo più scrupoli per me, i facchini tornavano dal cimitero levandosi dietro la polvere della rotabile. Poi passarono pecore e facevano polvere e poi un’autocarro se ne levò per  un chilometro.

La polvere cadeva sulle siepi della rotabile e inondava le vigne.

Piano piano spuntavano un asino e un uomo da quella nuvola appiattita per terra. Pasquale, i suoi fuochi, la sua casa, la sua mantellina: il  contadino, e la moglie con i figli, le loro terre e le loro giornate, il grano  venduto e i soldi messi uno sull’altro, la casa dove stavano in fitto e la  compera di quella di Pasquale; il pretore, i carabinieri, il prete, il sindaco che ero io; la Camera del Lavoro e le Acli; la piazza, le case e le  terre del paese; e le parole, le leggi, le idee, su tutto era caduta la polvere, fino sulla copertina della Bibbia. Ognuno faceva la sua parte chiudendosi in casa propria a una certa ora. L’asino, che andava avanti, si  fermò a occhi chiusi vicino alla porta e l’uomo lo scaricò delle canne,  con un colpo di mano in groppa e lo menò dentro, e anche lui entrò,  dopo aver battuto al muro le scarpe pesanti.

     Mi affannai a leggere la verità in quel libro, e le massime dei Savi, ma il mio cuore non ebbe pace perché anche le scritture rifacevano la storia del giorno con ognuno la sua parte. Mi affacciavo al balcone, sui tegoli neri luccicava la notte. Mi tenni sveglio per Pasquale tutto il tempo che mi riuscì e mi era utile compagna la lampada accesa: non  l’avrei più rivisto con piacere vivo davanti ai miei occhi. Dovevo fare la mia parte, gridare nelle strade, come allora gridavano i galli, l’indomani, nella polvere rimescolata».

 

     Anche nel brano citato si può osservare la polifunzionalità di una notazione apparentemente marginale come quella della polvere che, da ingrediente reale, tipico di certi aridi e friabili paesaggi lucani, viene assunto in funzione ideo-affettiva, come simbolo di desolazione, di sfiducia, d’indifferenza o, per usare una parola cara a Scotellaro, di «disamore».

     Attraverso la disposizione calcolata delle parole, prima a tre i suoi fuochi, la sua casa, la sua mantellina») poi a due a due («la moglie con i figli, le loro terre e le loro giornate») e poi di  nuovo alternativamente per due e per tre («la camera del lavoro e  le Acli; la piazza, le case e le terre del paese; le parole, le leggi e  le idee»), cose ed uomini si dispongono secondo un ritmo preciso, una loro logica interna che improvvisamente appare, mostruosa ed  assurda: Pasquale è morto perché ognuno si è limitato a fare la  sua parte, ad adempiere alla sua funzione nell’organizzazione sociale  di cui è membro. La morale dell’«ognuno la sua parte» elevata a sistema di vita civile appare alla luce del recente avvenimento disumana e terribile: «ma il mio cuore non ebbe pace perché anche le scritture rifacevano la storia del giorno».

    Il crollo psicologico e fisico di  Pasquale il fuochista e il suo ricorso supplichevole al sindaco, alla Camera  del Lavoro, alle Acli, al prete, per il ricovero all’ospizio, per G.B. Bronzini, sembrano  modellati sullo sbandamento di padron ‘Ntoni, dopo la condanna in  tribunale del nipote e la fuga di Lia forsennata, come viene descritto e narrato nei Malavoglia:

VERGA:

Padron ‘Ntoni adesso era diventato del tutto un uccellaccio di camposanto, e non faceva altro che andare intorno, rotto in due, e con quella  faccia di pipa, a’ dir proverbi senza capo e senza coda: – «Ad albero  caduto accetta! accetta!» – «Chi cade nell’acqua è forza che si bagni» –  «A cavallo magro, mosche». – E a chi gli domandava perché andasse  sempre in giro, diceva che «la fame fa uscire il lupo dal bosco», e «cane  affamato non teme bastone»; ma di lui non volevano saperne, ora che  era ridotto in quello stato. Ognuno gli diceva la sua, e gli domandava  cosa aspettasse colle spalle al muro, lì sotto il campanile, che pareva lo  zio Crocifisso quando aspettava d’imprestare dei denari alla gente, seduto a ridosso delle barche tirate in secco, come se ci avesse in mare la  paranza di padron Cipolla; e padron ‘Ntoni rispondeva che aspettava la  morte, la quale non voleva venire a prenderselo, perché «lo sfortunato  ha i giorni lunghi»”.

SCOTELLARO:

– Sanno la mia faccia – diceva tra sé, si sentiva debole sulle gambe,  andava da una parte all’altra cercando di non farsi vedere, perché per la  prima volta in vita sua sentiva dire che si deve stare da una parte sola, a  lottare e a morir di fame. Quei vecchi, alla cappella in piazza lo dicevano, battendo il bastone e mirando con quegli occhi grigi e cattivi e  staccati, occhi di capra: – Che ne abbiano avuto di tanto lavoro nostro,  quante zappate queste mani, anche tu, Pasquale, quante rotelle e bombe,  chi ci ha curato, che ne abbiamo avuto?”

 

Rilevate queste corrispondenze, il prof. Bronzini fa notare il rilievo dato, in comune, ai lineamenti del volto e ai  movimenti della persona come tratti significativi dello stato psicologico del personaggio. Il funerale di Pasquale riproduce il trasporto all’ospedale di padron ‘Ntoni, sul carro di Alfio: «nel passare  davanti alla casa del nespolo, e nell’attraversare la piazza, padron  ‘Ntoni continuava a guardare di qua e di là per stamparsi in mente  ogni cosa». Solo che Scotellaro, se si rilegge il pezzo finale del suo pezzo, sopra riportato, assume in proprio le impressioni  della scena ed esplicita la sua ribellione e accusa al potere per il suicidio di  Pasquale con una immagine dell’universo contadino, che è un leit-motiv delle sue poesie sociali, e che vale la pena ripetere:

 

Dovevo fare la mia parte, gridare nelle strade, come allora gridavano i galli, l’indomani nella polvere rimescolata.

 

 

[III]

     Trovai scritto: «Libera quelli che son condotti a morte,  e salva quei che, vacillando, vanno al supplizio. Se  dici Ma noi non ne sapevamo nulla!…».

Successe il fatto prima che queste parole fossero  scritte. Pasquale portava una mantellina inverno e estate, non doveva possedere più la sua giacca.

Camminava pauroso tra la gente. Un onesto artigiano che non si fidava più avrebbe avuto bisogno  di figli e nipoti secondo la regola. Invece era solo,  non serviva più, gli ultimi fuochi pirotecnici li preparò  per la festa del 1°Maggio, scelsero lui che aveva la  tessera e passava le sere seduto nella Camera del Lavoro, aveva chiesto di lavorare e proposto un prezzo  amichevole confacente con la somma esigua della  sottoscrizione. Aveva fatto scoppiare comuni mortaretti  nei punti dove il corteo si fermava e una piccola  festa gli fecero, dopo gli ultimi colpi in piazza, quelli  del Comitato dicendogli un bravo e consegnandogli la somma contata a lungo, in cinque lire, nelle mani che gli fremevano: – Andrò a comprare il pane alcuni giorni.

Si vedeva la sua festa, la mantellina avvolta al  collo, gli occhi guardavano attorno, ingoiava saliva,  parlava: – Un’altra volta pensateci a tempo, spareremo  di più, preparo dei giuochi e in ultimo faccio uscire  la bandiera.

La Camera era piena, si scrivevano le domande,  si trattavano le vertenze, rumore e fumo e parlottare  ogni sera. Pasquale pensò se poteva anche lui svolgere  la pratica della pensione vecchiaia – Tutti l’hanno,  ho lavorato sempre.

Ma lui non chiese la pensione, disse che voleva  un aiuto e tante volte andò a casa del Sindaco: –  Sono stato un artigiano, mi muoio di fame.

Finalmente disse della pensione, qualcuno lo aveva  spinto a sperare il sindaco però gli disse che non  poteva averla. Lo odiava: – Perché non mi mette  una firma? È un’opera di carità, devo proprio morire?

Il sindaco lo fece assistere dall’Eca, lui nascondeva  la pasta sotto la mantellina come se la rubasse. Intanto  tentava altre vie. Alle Acli gli davano un rancio, aspettava delle ore davanti al portone e lo videro il sindaco  e quelli della Camera del Lavoro, lui salutava sempre,  ma con vergogna. Andò per essere ricoverato all’ospizio  di mendicità, i vestiti erano sporchi e logori, lì ti lavano,  magari ritorni bambino e stai in chiesa e vai in fila  con gli altri vecchi a due a due, ma stai comodo e  c’è il letto buono e la pulizia. Gli chiesero se dava  la casetta in cambio del ricovero. Doveva pensarci.  La casetta era a pianterreno, sotto la chiesa madre:  il letto e una cassa vecchia avevano lo stesso colore  di unto e di fumo, la carta per i mortaretti, un ripostiglio per la polvere e lo spago e le stecche di legno  per le girandole alla rinfusa qua e là. Un contadino del vicinato andò a trovarlo: – Perché non me la  vendi questa casa?

Si accordarono e fecero l’atto, ma lui doveva restare nella casa, fino a che si trovava un bugigattolo di affitto.

E con i soldi che si vide, malgrado il freddo che si sentiva addosso e gli anni, comprò materiale per  concorrere alle feste e contrattare i fuochi. Si prese  un ragazzo ad aiutarlo, ma non aveva ancora avuto  il materiale in casa che la legge gli fece la perquisizione,  non stava a posto con la licenza, dovette pagare il  materiale requisito e la contravvenzione, e la casa era  già bell’e venduta senza un soldo.

Per due giorni, tra l’atto col contadino, il materiale comprato e il ragazzo chiamato in aiuto, le feste tornavano a mente, i paesi vicini, le trovate dei fuochi.

Pasquale ritornò dal sindaco, alla Camera del Lavoro, alle Acli, dal prete per il ricovero all’ospizio: –  Sanno la mia faccia – diceva tra sé, si sentiva debole  sulle gambe, andava da una parte all’altra cercando  di non farsi vedere, perché per la prima volta in vita  sua sentiva dire che si deve stare da una parte sola,  a lottare e a morir di fame. Quei vecchi, alla cappella  in piazza, lo dicevano, battendo il bastone e mirando  con quegli occhi grigi e cattivi e staccati, occhi di  capra: – Che ne abbiamo avuto di tanto lavoro nostro,  quante zappate queste mani, anche tu, Pasquale, quante  rotelle e bombe, chi ci ha curato, che ne abbiamo avuto?

Anche la causa ci voleva, il contadino lo aveva citato per il rilascio della casetta.

_ E che hai fatto? La citazione, e io dove vado a stare?

_ E che vuoi da me? Come fa la legge, la casa mi necessita e me la devi lasciare.

_ Questo è ricco – diceva – mi ha preso la casa con quattro soldi, ha la casa sua e non gli basta,  trovatemi un bugigattolo e me ne vado.

Il pretore non lascoltava, gli avvocati ridevano.  

Quando mai, in pieno inverno, sparano i fuochi  e poi come scoppiarono, tutt‘insieme e tuonarono senza  un ritmo, il paese si scuoteva come una tenda, i fossi  si riempivano di quei boati, colombi e cornacchie a  schiere nel cielo non sapevano dove più correre, «che  fanno?» dicevano nelle case.

Restò un vento che percorse le campagne agli ultimi scoppi, era stato il fuoco di Pasquale che la legge  aveva incendiato e distrutto. Egli aveva sperato che  un giorno o l’altro per compassione glielo avrebbero  restituito o pagato o utilizzato in qualche festa. Senza  avvocato, avrebbe perduto anche la causa ma il pretore  non poteva dargli torto. Andava a piangere dal Sindaco,  da quelli che potevano raccomandarlo, ora non gli  bisognava solo il rancio, aveva questo fatto della casa.

– Chi mi accoglie, dove vado? È una sentenza  di morte, povero me, quindici giorni di tempo, leggetemi la carta, come dice?

Era latto di precetto e parlava di esecuzione forzata  in caso di opposizione.

Domani, alle nove del mattino, sarebbe scesa la  forza, i carabinieri dietro le spalle del contadino. Vide  passare il pretore con la borsa sotto il braccio, che  rispondeva ai saluti con rapidi scatti del mento; vide  il sindaco attorniato di poveri, giovani e vecchi, lo  tenevano in cerchio, si accostò anche lui: – Sei anche  tu nella lista, avrai la tela. – Chi domandava se cera  pure la moglie, il figlio, il nipote ... Pasquale ringraziò  franco, ebbe un sorriso infantile, contento si stette  nel cerchio fin che fu sciolto.

Domani, alle nove del mattino: non ci pensò. Un  vecchio amico lo trasse a bere un bicchiere, la porta  del contadino era chiusa come sempre quando restava in campagna. L’amico però gli disse: – Domani dove
te ne vai?

– Non possono – lui rispose – cacciarmi in mezzo alla strada.

Dormì, per quel bicchiere, placido, si svegliò di  prim’ora. Ma la donna del contadino già parlava con  altri, dovevano essere tornati tardi dalla campagna.

Allora si mise sotto il ripostiglio, prese la miccia  e la carta e la polvere. Legava forte lo spago intorno,  fece un petardo di quelli mezzani che si piazzano ognuno alla distanza di un metro nelle batterie quando  ferma a mezzogiorno la processione in piazza: c’è una  trama di scoppi minori, il filo della batteria arde come  stoppie bruciate poi s’incendia il petardo che pende  grosso come un cinquechilo, e detona isolato, secco,  intermittente e la fiamma corre e il fragore si rafforza  per preparare l’udito alle bombe finali.

Pasquale accese la miccia, era lunga tutta quella  che aveva, il ronzio uguagliava le voci della strada, il  tuono del petardo, fissato al suo petto, egli lo sapeva  bene, distinto nell’orecchio, la casa non sarebbe crollata.

Non più di venti persone l’accompagnavano, il sindaco chiese a un prete perché non andava dietro a  quel corteo, «Portano Pasquale, che si è ucciso» rispose  quello.

– Chi Pasquale?

– Il fuochista.

Il Sindaco piegò il capo, il corteo andava svelto,  la bara giocava sulle spalle degli uomini, i pochi tocchi  di campana suonarono non per lui, l’ora del convento  delle suore: – Cosa c’è? Cosa ho fatto? – disse il  sindaco – mi sento in colpa, sto male.

Il prete lasciò andare, cambiò discorso. Il contadino  era in piazza, aveva raccontato il fatto, la gente lo  guardava.

Il prete non volle ragionare con me il suicidio, io capii infine, era l’unico fatto degli uomini che la  chiesa rispettava e fui contento che Pasquale non andasse in chiesa e corresse senza campanelli e acqua  santa e giaculatorie, al suo riposo. Andai a rileggermi  il libro di quegli anni al punto che dice «Quando  presterai qualsivoglia cosa al tuo prossimo, non entrerai  in casa sua per prendere il suo pegno; te ne starai  di fuori, e luomo a cui avrai fatto il prestito, ti porterà  il pegno fuori. E se quell’uomo è povero, non ti coricherai, avendo ancora il suo pegno. Non mancherai  di restituirgli il pegno, al tramonto del sole, affinché  egli possa dormire nel suo mantello, e benedirti; e  questo ti sarà contato come un atto di giustizia agli  occhi dell’Eterno, ch’è il tuo Dio» 10-13, cap. 24, Deuteronomio.

Ero pieno di queste parole, non avevo più scrupoli  per me, i facchini tornavano dal cimitero levandosi  dietro la polvere della rotabile. Poi passarono pecore  e facevano polvere e poi un autocarro che ne levò  per un chilometro.

La polvere cadeva sulle siepi della rotabile e inondava le vigne. Piano piano spuntavano un asino e  un uomo da quella nuvola appiattita per terra. Pasquale, i suoi fuochi, la sua casa, la sua mantellina; il  contadino e la moglie con i figli, le loro terre e le  loro giornate, il grano venduto e i soldi messi uno  sullaltro, la casa dove stavano in fitto e la compera  di quella di Pasquale; il Pretore e i carabinieri, il  prete, il sindaco che ero io; la camera del Lavoro e  le Acli; la piazza, le case e le terre del paese; e le  parole, le leggi, le idee, su tutto era caduta la polvere,  fino sulla copertina della Bibbia. Ognuno faceva la  sua parte chiudendosi in casa propria a una certa ora.  L’asino, che andava avanti, si fermò a occhi chiusi  vicino alla porta e l’uomo lo scaricò delle canne, con  un colpo di mano in groppa lo menò dentro, anche lui entrò, dopo aver battuto al muro le scarpe pesanti.

Mi affannai a leggere la verità in quel libro, e le  massime dei Savi, ma il mio cuore non ebbe pace  perché anche le scritture rifacevano la storia del giorno,  con ognuno la sua parte. Mi affacciavo al balcone,  sui tegoli neri luccicava la notte. Mi tenni sveglio  per Pasquale tutto il tempo che mi riuscì e mi era  utile compagna la lampada accesa: non l’avrei più rivisto con piacere vivo davanti ai miei occhi. Dovevo  fare la mia parte, gridare nelle strade, come allora  gridavano i galli, l’indomani, nella polvere rimescolata.

 



[1] Il racconto che si legge nell’UP è il primo e più genuino dei racconti  che Scotellaro dedica a questo sfortunato personaggio col nome alternativo Pancrazio in Giovani Soli.  

[2]A giorno fatto,Basilicata editrice Matera, 1997. All’UP in questo libro è dedicato un lungo saggio, intitolato L’Uva puttanella, con  i seguenti capitoli: La borsa dei libri (p. 129-133), La mantellina di Pasquale (p. 135-143), accurata ed erudita analisi del testo, di cui riporterò solo una piccola parte, Quando caddero le bombe (p. 145-150), La liberazione (p. 151-156), La conquista di uno spazio libero (157-162).

[3] L’universo contadino e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro, Edizioni Dedalo, Bari 1987, p. 143 s.

[4] sulla quale si tornerà più avanti con la segnalazione delle corrispondene segnalate dal prof. Bronini

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