L’UVA PUTTANELLA – Parte II, Cap. 3 _ Pasquale il fuochista
In questo capitolo Rocco racconta un fatto realmente accaduto[1], che lo aveva profondamente emozionato e coinvolto fino a sentirsi responsabile. Il racconto ha inizio con un atto d’accusa a se stesso e alla comunità con le parole del saggio re Salomone (cap, 24, 10-12 del Libro sapienziale I Proverbi): «Libera quelli che son condotti a morte, e salva quei che, vacillando, vanno al supplizio. Se dici ‘Ma noi non ne sapevamo nulla!..». Scotellaro commenta: «Successe il fatto prima che queste parole fosse scritte», ossia quando la sapienza la solidarietà la pietà non abitavano la Terra.
Del fatto qui raccontato ho personale ricordo. Pasquale abitava sotto la Chiesa Madre, e sotto la Chiesa Madre abitavo anch’io. Quando il fatto accadde dalla mia casa udii il forte rumore dello scoppio del mortaretto e la lunga eco che rimbombava nei vicoli come annuncio funebre, con cui Pasquale si dette un’orribile morte. Il racconto dell’UP mi fu letto non molto tempo da dopo da Rocco nella sua cameretta. Preferisco, quindi, per sottrarmi al carico di emozioni, rifarmi, per la scrittura di questa premessa, alle due opere di Rosalma Salima Borello[2] e di Giovanni Battista Bronzini[3]., che ho spesso citato nei precedenti post,
Il fatto accadde mentre Scotellaro era Sindaco. Rinvio alla lettura del capitolo, scartando senza dubbi l’idea di riassumere il fatto, e passo all’analisi del testo compiuta dalla Salima Borello.
In tutto il capitolo Scotellaro si designa sempre in terza persona e con la funzione di sindaco «e tante volte andò a casa del sindaco» «e il sindaco però gli disse», «il sindaco lo fece assistere dall’Eca», «delle ore aspettava davanti al portone e lo videro il sindaco e quelli della Camera del lavoro», «Pasquale ritornò dal sindaco», «vide il sindaco attorniato di poveri», «il sindaco piegò il capo», «Cosa c’è ? Cosa ho fatto ? – disse il sindaco». Solo alla fine si registra un brusco passaggio alla prima persona – «l’io narrante viene ripristinato nella sua funzione») («il prete non volle ragionare con me», «il sindaco che ero io»
La scomparsa dell’io narrante consente di disporre la narrazione in una prospettiva multipla, quale potrebbe essere quella di un racconto a più voci. Si risale a un’ascendenza verista, al Verga dei Malavoglia[4], al quale, per l’appunto, si può far risalire la tecnica della compenetrazione del narratore e dei personaggi. Nel capitolo in esame possiamo assistere infatti ad una continua irruzione nel tessuto narrativo di altre voci di anonimi personaggi, nel ruolo di spettatori-narratori della vicenda.
Si veda questo esempio:
Andò per essere ricoverato all’ospizio di mendicità, i vestiti erano sporchi e logori, lì ti lavano, magari ritorni bambino e stai in chiesa e vai in fila con gli altri vecchi a due a due, ma stai comodo e c’è il letto buono e la pulizia. Gli chiesero se dava la casetta in cambio del ricovero. Doveva pensarci
Nel caso di Pasquale, le motivazioni psicologiche del suicidio sono suggerite attraverso certe notazioni di carattere «fisico », che per essere stato chiamato a preparare i fuochi pirotecnici, espressa soprattutto dall’insolita animazione dello sguardo e dal trangugiar saliva, parlando (<<gli occhi guardavano attorno, ingoiava saliva, parlava», all’umiliazione di non essere più in grado di mantenersi (« lui salutava sempre, ma con vergogna») e di dover quindi ricorrere all’assistenza pubblica («lui nascondeva la pasta sotto la mantellina») all’entusiasmo con cui, non appena intasca i soldi per la vendita della casa, si procura il materiale per concorrere alle feste e contrattare i fuochi. La delusione è espressa in un tono impersonale, con la fredda oggettività della costatazione:
Per due giorni tra l’atto del contadino, il materiale comprato e il ragazzo chiamato in aiuto, le feste tornavano a mente, i paesi vicini, le trovate dei fuochi.
Anche l‘angoscia è descritta nella sua fenomenologia esterna («si sentiva debole nelle gambe») e nell‘inconcludente ed umiliante andirivieni («andava da una parte e dall’altra cercando di non farsi vedere»). Nella parte conclusiva del dramma è invece omessa ogni osservazione che possa in qualche modo far luce sullo stato d’animo di Pasquale prima del suicidio:
Dormì per quel bicchiere, placido, si svegliò di buon’ora.
Il suicidio non si differenzia da qualunque altro atto della vita d’ogni giorno: Pasquale prepara l’ordigno come lo aveva preparato per le feste paesane ed il narratore può tranquillamente indugiare a descrivere com’è fatto l’ordigno e quant’è lunga la miccia. E questo perché la morte di Pasquale non ha bisogno di essere rivestita di funebri addobbi per essere tragica e sconvolgente: determina infatti nella vita del giovane sindaco una svolta importante e la rinnovata coscienza della propria missione.
Del resto, l’oggettività del racconto non è che una tecnica o una strategia un modo di disporre gli avvenimenti come « se si fossero prodotti mano a mano che apparivano all’orizzonte della storia» Scotellaro, in realtà, non rinuncia affatto ad un giudizio sulla vicenda, un giudizio che rimane però compenetrato e fuso nella narrazione, nello stesso dispositivo testuale. Si veda ancora la rilevanza che acquistano certe notazioni di tipo indiziale come quelle relative alla mantellina di Pasquale che si configura, attraverso una serie di ripetizioni/modificazioni, come un elemento portante della struttura narrativa. Pasquale è costantemente presentato avvolto nella sua mantellina che, da emblema di una condizione di estrema indigenza («portava una mantellina inverno ed estate, non doveva possedere più la sua giacca») si fa tratto individuante della sua figura («Si vedeva la sua festa, la mantellina avvolta al collo») per diventare poi elemento funzionale allo svolgimento del racconto nella frase: «lui nascondeva la pasta sotto la mantellina» che contiene una funzione (o azione) e, contemporaneamente, l’indizio di uno stato d’animo particolare.
Ma la mantellina di Pasquale, attraverso il suggerimento fornito dalla citazione dal Deuteronomio, cap. 24, 10-13 («Non mancherai di restituirgli il pegno al tramonto del sole, affinché egli possa dormire nel suo mantello») finisce per assurgere alla dignità di simbolo allusivo alla soluzione etica del dramma: la scoperta, da parte del sindaco, di quello che dovrà essere il proprio compito. Le analogie tra il fatto reale e il passo del Deuteronomio non finiscono qui: tutta la vicenda di Pasquale appare costruita su una rete invisibile di rimandi-contrasti con il passo biblico. Si può, ad esempio, scorgere un parallelismo tra la prescrizione ebraica di non umiliare il debitore (<<non entrerai in casa sua per prendere il pegno, te ne starai di fuori… ») e la brutalità dell’esecuzione forzata dell’atto di precetto («Domani alle nove del mattino sarebbe scesa la forza, i carabinieri dietro le spalle del contadino »).
Un altro importante elemento indiziale è dato dal paesaggio, estremamente stilizzato ed astratto, posto in chiusura di capitolo che costituisce, ad avviso della Borello da me condiviso, uno dei «pezzi» di maggior pregio del libro:
Ero pieno di queste parole, non avevo più scrupoli per me, i facchini tornavano dal cimitero levandosi dietro la polvere della rotabile. Poi passarono pecore e facevano polvere e poi un’autocarro se ne levò per un chilometro.
La polvere cadeva sulle siepi della rotabile e inondava le vigne.
Piano piano spuntavano un asino e un uomo da quella nuvola appiattita per terra. Pasquale, i suoi fuochi, la sua casa, la sua mantellina: il contadino, e la moglie con i figli, le loro terre e le loro giornate, il grano venduto e i soldi messi uno sull’altro, la casa dove stavano in fitto e la compera di quella di Pasquale; il pretore, i carabinieri, il prete, il sindaco che ero io; la Camera del Lavoro e le Acli; la piazza, le case e le terre del paese; e le parole, le leggi, le idee, su tutto era caduta la polvere, fino sulla copertina della Bibbia. Ognuno faceva la sua parte chiudendosi in casa propria a una certa ora. L’asino, che andava avanti, si fermò a occhi chiusi vicino alla porta e l’uomo lo scaricò delle canne, con un colpo di mano in groppa e lo menò dentro, e anche lui entrò, dopo aver battuto al muro le scarpe pesanti.
Mi affannai a leggere la verità in quel libro, e le massime dei Savi, ma il mio cuore non ebbe pace perché anche le scritture rifacevano la storia del giorno con ognuno la sua parte. Mi affacciavo al balcone, sui tegoli neri luccicava la notte. Mi tenni sveglio per Pasquale tutto il tempo che mi riuscì e mi era utile compagna la lampada accesa: non l’avrei più rivisto con piacere vivo davanti ai miei occhi. Dovevo fare la mia parte, gridare nelle strade, come allora gridavano i galli, l’indomani, nella polvere rimescolata».
Anche nel brano citato si può osservare la polifunzionalità di una notazione apparentemente marginale come quella della polvere che, da ingrediente reale, tipico di certi aridi e friabili paesaggi lucani, viene assunto in funzione ideo-affettiva, come simbolo di desolazione, di sfiducia, d’indifferenza o, per usare una parola cara a Scotellaro, di «disamore».
Attraverso la disposizione calcolata delle parole, prima a tre («i suoi fuochi, la sua casa, la sua mantellina») poi a due a due («la moglie con i figli, le loro terre e le loro giornate») e poi di nuovo alternativamente per due e per tre («la camera del lavoro e le Acli; la piazza, le case e le terre del paese; le parole, le leggi e le idee»), cose ed uomini si dispongono secondo un ritmo preciso, una loro logica interna che improvvisamente appare, mostruosa ed assurda: Pasquale è morto perché ognuno si è limitato a fare la sua parte, ad adempiere alla sua funzione nell’organizzazione sociale di cui è membro. La morale dell’«ognuno la sua parte» elevata a sistema di vita civile appare alla luce del recente avvenimento disumana e terribile: «ma il mio cuore non ebbe pace perché anche le scritture rifacevano la storia del giorno».
Il crollo psicologico e fisico di Pasquale il fuochista e il suo ricorso supplichevole al sindaco, alla Camera del Lavoro, alle Acli, al prete, per il ricovero all’ospizio, per G.B. Bronzini, sembrano modellati sullo sbandamento di padron ‘Ntoni, dopo la condanna in tribunale del nipote e la fuga di Lia forsennata, come viene descritto e narrato nei Malavoglia:
VERGA:
Padron ‘Ntoni adesso era diventato del tutto un uccellaccio di camposanto, e non faceva altro che andare intorno, rotto in due, e con quella faccia di pipa, a’ dir proverbi senza capo e senza coda: – «Ad albero caduto accetta! accetta!» – «Chi cade nell’acqua è forza che si bagni» – «A cavallo magro, mosche». – E a chi gli domandava perché andasse sempre in giro, diceva che «la fame fa uscire il lupo dal bosco», e «cane affamato non teme bastone»; ma di lui non volevano saperne, ora che era ridotto in quello stato. Ognuno gli diceva la sua, e gli domandava cosa aspettasse colle spalle al muro, lì sotto il campanile, che pareva lo zio Crocifisso quando aspettava d’imprestare dei denari alla gente, seduto a ridosso delle barche tirate in secco, come se ci avesse in mare la paranza di padron Cipolla; e padron ‘Ntoni rispondeva che aspettava la morte, la quale non voleva venire a prenderselo, perché «lo sfortunato ha i giorni lunghi»”.
SCOTELLARO:
– Sanno la mia faccia – diceva tra sé, si sentiva debole sulle gambe, andava da una parte all’altra cercando di non farsi vedere, perché per la prima volta in vita sua sentiva dire che si deve stare da una parte sola, a lottare e a morir di fame. Quei vecchi, alla cappella in piazza lo dicevano, battendo il bastone e mirando con quegli occhi grigi e cattivi e staccati, occhi di capra: – Che ne abbiano avuto di tanto lavoro nostro, quante zappate queste mani, anche tu, Pasquale, quante rotelle e bombe, chi ci ha curato, che ne abbiamo avuto?”
Rilevate queste corrispondenze, il prof. Bronzini fa notare il rilievo dato, in comune, ai lineamenti del volto e ai movimenti della persona come tratti significativi dello stato psicologico del personaggio. Il funerale di Pasquale riproduce il trasporto all’ospedale di padron ‘Ntoni, sul carro di Alfio: «nel passare davanti alla casa del nespolo, e nell’attraversare la piazza, padron ‘Ntoni continuava a guardare di qua e di là per stamparsi in mente ogni cosa». Solo che Scotellaro, se si rilegge il pezzo finale del suo pezzo, sopra riportato, assume in proprio le impressioni della scena ed esplicita la sua ribellione e accusa al potere per il suicidio di Pasquale con una immagine dell’universo contadino, che è un leit-motiv delle sue poesie sociali, e che vale la pena ripetere:
Dovevo fare la mia parte, gridare nelle strade, come allora gridavano i galli, l’indomani nella polvere rimescolata.
[III]
Trovai scritto: «Libera quelli che son condotti a morte, e salva quei che, vacillando, vanno al supplizio. Se dici ‘Ma noi non ne sapevamo nulla!…‘».
Successe il fatto prima che queste parole fossero scritte. Pasquale portava una mantellina inverno e estate, non doveva possedere più la sua giacca.
Camminava pauroso tra la gente. Un onesto artigiano che non si fidava più avrebbe avuto bisogno di figli e nipoti secondo la regola. Invece era solo, non serviva più, gli ultimi fuochi pirotecnici li preparò per la festa del 1°Maggio, scelsero lui che aveva la tessera e passava le sere seduto nella Camera del Lavoro, aveva chiesto di lavorare e proposto un prezzo amichevole confacente con la somma esigua della sottoscrizione. Aveva fatto scoppiare comuni mortaretti nei punti dove il corteo si fermava e una piccola festa gli fecero, dopo gli ultimi colpi in piazza, quelli del Comitato dicendogli un bravo e consegnandogli la somma contata a lungo, in cinque lire, nelle mani che gli fremevano: – Andrò a comprare il pane alcuni giorni.
Si vedeva la sua festa, la mantellina avvolta al collo, gli occhi guardavano attorno, ingoiava saliva, parlava: – Un’altra volta pensateci a tempo, spareremo di più, preparo dei giuochi e in ultimo faccio uscire la bandiera.
La Camera era piena, si scrivevano le domande, si trattavano le vertenze, rumore e fumo e parlottare ogni sera. Pasquale pensò se poteva anche lui svolgere la pratica della pensione vecchiaia – Tutti l’hanno, ho lavorato sempre.
Ma lui non chiese la pensione, disse che voleva un aiuto e tante volte andò a casa del Sindaco: – Sono stato un artigiano, mi muoio di fame.
Finalmente disse della pensione, qualcuno lo aveva spinto a sperare il sindaco però gli disse che non poteva averla. Lo odiava: – Perché non mi mette una firma? È un’opera di carità, devo proprio morire?
Il sindaco lo fece assistere dall’Eca, lui nascondeva la pasta sotto la mantellina come se la rubasse. Intanto tentava altre vie. Alle Acli gli davano un rancio, aspettava delle ore davanti al portone e lo videro il sindaco e quelli della Camera del Lavoro, lui salutava sempre, ma con vergogna. Andò per essere ricoverato all’ospizio di mendicità, i vestiti erano sporchi e logori, lì ti lavano, magari ritorni bambino e stai in chiesa e vai in fila con gli altri vecchi a due a due, ma stai comodo e c’è il letto buono e la pulizia. Gli chiesero se dava la casetta in cambio del ricovero. Doveva pensarci. La casetta era a pianterreno, sotto la chiesa madre: il letto e una cassa vecchia avevano lo stesso colore di unto e di fumo, la carta per i mortaretti, un ripostiglio per la polvere e lo spago e le stecche di legno per le girandole alla rinfusa qua e là. Un contadino del vicinato andò a trovarlo: – Perché non me la vendi questa casa?
Si accordarono e fecero l’atto, ma lui doveva restare nella casa, fino a che si trovava un bugigattolo di affitto.
E con i soldi che si vide, malgrado il freddo che si sentiva addosso e gli anni, comprò materiale per concorrere alle feste e contrattare i fuochi. Si prese un ragazzo ad aiutarlo, ma non aveva ancora avuto il materiale in casa che la legge gli fece la perquisizione, non stava a posto con la licenza, dovette pagare il materiale requisito e la contravvenzione, e la casa era già bell’e venduta senza un soldo.
Per due giorni, tra l’atto col contadino, il materiale comprato e il ragazzo chiamato in aiuto, le feste tornavano a mente, i paesi vicini, le trovate dei fuochi.
Pasquale ritornò dal sindaco, alla Camera del Lavoro, alle Acli, dal prete per il ricovero all’ospizio: – Sanno la mia faccia – diceva tra sé, si sentiva debole sulle gambe, andava da una parte all’altra cercando di non farsi vedere, perché per la prima volta in vita sua sentiva dire che si deve stare da una parte sola, a lottare e a morir di fame. Quei vecchi, alla cappella in piazza, lo dicevano, battendo il bastone e mirando con quegli occhi grigi e cattivi e staccati, occhi di capra: – Che ne abbiamo avuto di tanto lavoro nostro, quante zappate queste mani, anche tu, Pasquale, quante rotelle e bombe, chi ci ha curato, che ne abbiamo avuto?
Anche la causa ci voleva, il contadino lo aveva citato per il rilascio della casetta.
_ E che hai fatto? La citazione, e io dove vado a stare?
_ E che vuoi da me? Come fa la legge, la casa mi necessita e me la devi lasciare.
_ Questo è ricco – diceva – mi ha preso la casa con quattro soldi, ha la casa sua e non gli basta, trovatemi un bugigattolo e me ne vado.
Il pretore non l‘ascoltava, gli avvocati ridevano.
Quando mai, in pieno inverno, sparano i fuochi e poi come scoppiarono, tutt‘insieme e tuonarono senza un ritmo, il paese si scuoteva come una tenda, i fossi si riempivano di quei boati, colombi e cornacchie a schiere nel cielo non sapevano dove più correre, «che fanno?» dicevano nelle case.
Restò un vento che percorse le campagne agli ultimi scoppi, era stato il fuoco di Pasquale che la legge aveva incendiato e distrutto. Egli aveva sperato che un giorno o l’altro per compassione glielo avrebbero restituito o pagato o utilizzato in qualche festa. Senza avvocato, avrebbe perduto anche la causa ma il pretore non poteva dargli torto. Andava a piangere dal Sindaco, da quelli che potevano raccomandarlo, ora non gli bisognava solo il rancio, aveva questo fatto della casa.
– Chi mi accoglie, dove vado? È una sentenza di morte, povero me, quindici giorni di tempo, leggetemi la carta, come dice?
Era l‘atto di precetto e parlava di esecuzione forzata in caso di opposizione.
Domani, alle nove del mattino, sarebbe scesa la forza, i carabinieri dietro le spalle del contadino. Vide passare il pretore con la borsa sotto il braccio, che rispondeva ai saluti con rapidi scatti del mento; vide il sindaco attorniato di poveri, giovani e vecchi, lo tenevano in cerchio, si accostò anche lui: – Sei anche tu nella lista, avrai la tela. – Chi domandava se c‘era pure la moglie, il figlio, il nipote ... Pasquale ringraziò franco, ebbe un sorriso infantile, contento si stette nel cerchio fin che fu sciolto.
Domani, alle nove del mattino: non ci pensò. Un vecchio amico lo trasse a bere un bicchiere, la porta del contadino era chiusa come sempre quando restava in campagna. L’amico però gli disse: – Domani dove
te ne vai?
– Non possono – lui rispose – cacciarmi in mezzo alla strada.
Dormì, per quel bicchiere, placido, si svegliò di prim’ora. Ma la donna del contadino già parlava con altri, dovevano essere tornati tardi dalla campagna.
Allora si mise sotto il ripostiglio, prese la miccia e la carta e la polvere. Legava forte lo spago intorno, fece un petardo di quelli mezzani che si piazzano ognuno alla distanza di un metro nelle batterie quando ferma a mezzogiorno la processione in piazza: c’è una trama di scoppi minori, il filo della batteria arde come stoppie bruciate poi s’incendia il petardo che pende grosso come un cinquechilo, e detona isolato, secco, intermittente e la fiamma corre e il fragore si rafforza per preparare l’udito alle bombe finali.
Pasquale accese la miccia, era lunga tutta quella che aveva, il ronzio uguagliava le voci della strada, il tuono del petardo, fissato al suo petto, egli lo sapeva bene, distinto nell’orecchio, la casa non sarebbe crollata.
Non più di venti persone l’accompagnavano, il sindaco chiese a un prete perché non andava dietro a quel corteo, «Portano Pasquale, che si è ucciso» rispose quello.
– Chi Pasquale?
– Il fuochista.
Il Sindaco piegò il capo, il corteo andava svelto, la bara giocava sulle spalle degli uomini, i pochi tocchi di campana suonarono non per lui, l’ora del convento delle suore: – Cosa c’è? Cosa ho fatto? – disse il sindaco – mi sento in colpa, sto male.
Il prete lasciò andare, cambiò discorso. Il contadino era in piazza, aveva raccontato il fatto, la gente lo guardava.
Il prete non volle ragionare con me il suicidio, io capii infine, era l’unico fatto degli uomini che la chiesa rispettava e fui contento che Pasquale non andasse in chiesa e corresse senza campanelli e acqua santa e giaculatorie, al suo riposo. Andai a rileggermi il libro di quegli anni al punto che dice «Quando presterai qualsivoglia cosa al tuo prossimo, non entrerai in casa sua per prendere il suo pegno; te ne starai di fuori, e l‘uomo a cui avrai fatto il prestito, ti porterà il pegno fuori. E se quell’uomo è povero, non ti coricherai, avendo ancora il suo pegno. Non mancherai di restituirgli il pegno, al tramonto del sole, affinché egli possa dormire nel suo mantello, e benedirti; e questo ti sarà contato come un atto di giustizia agli occhi dell’Eterno, ch’è il tuo Dio» 10-13, cap. 24, Deuteronomio.
Ero pieno di queste parole, non avevo più scrupoli per me, i facchini tornavano dal cimitero levandosi dietro la polvere della rotabile. Poi passarono pecore e facevano polvere e poi un autocarro che ne levò per un chilometro.
La polvere cadeva sulle siepi della rotabile e inondava le vigne. Piano piano spuntavano un asino e un uomo da quella nuvola appiattita per terra. Pasquale, i suoi fuochi, la sua casa, la sua mantellina; il contadino e la moglie con i figli, le loro terre e le loro giornate, il grano venduto e i soldi messi uno sull‘altro, la casa dove stavano in fitto e la compera di quella di Pasquale; il Pretore e i carabinieri, il prete, il sindaco che ero io; la camera del Lavoro e le Acli; la piazza, le case e le terre del paese; e le parole, le leggi, le idee, su tutto era caduta la polvere, fino sulla copertina della Bibbia. Ognuno faceva la sua parte chiudendosi in casa propria a una certa ora. L’asino, che andava avanti, si fermò a occhi chiusi vicino alla porta e l’uomo lo scaricò delle canne, con un colpo di mano in groppa lo menò dentro, anche lui entrò, dopo aver battuto al muro le scarpe pesanti.
Mi affannai a leggere la verità in quel libro, e le massime dei Savi, ma il mio cuore non ebbe pace perché anche le scritture rifacevano la storia del giorno, con ognuno la sua parte. Mi affacciavo al balcone, sui tegoli neri luccicava la notte. Mi tenni sveglio per Pasquale tutto il tempo che mi riuscì e mi era utile compagna la lampada accesa: non l’avrei più rivisto con piacere vivo davanti ai miei occhi. Dovevo fare la mia parte, gridare nelle strade, come allora gridavano i galli, l’indomani, nella polvere rimescolata.
[1] Il racconto che si legge nell’UP è il primo e più genuino dei racconti che Scotellaro dedica a questo sfortunato personaggio col nome alternativo Pancrazio in Giovani Soli.
[2]A giorno fatto,Basilicata editrice Matera, 1997. All’UP in questo libro è dedicato un lungo saggio, intitolato L’Uva puttanella, con i seguenti capitoli: La borsa dei libri (p. 129-133), La mantellina di Pasquale (p. 135-143), accurata ed erudita analisi del testo, di cui riporterò solo una piccola parte, Quando caddero le bombe (p. 145-150), La liberazione (p. 151-156), La conquista di uno spazio libero (157-162).
[3] L’universo contadino e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro, Edizioni Dedalo, Bari 1987, p. 143 s.
[4] sulla quale si tornerà più avanti con la segnalazione delle corrispondene segnalate dal prof. Bronini
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