L’UVA PUTTANELLA – Il Capitolo IV della Parte seconda (Il disordine nella vigna)
Nella premessa al primo capitolo di questa seconda parte dell’UP, che vede zia Filomena personaggio centrale, avevo scritto poche righe di premessa ai vari capitoli e qualche parola in più al presente bellissimo IV, il più breve della parte seconda.
Il tema, al di là della la transizione dall’estate all’autunno, formalmente prevalente, è mutazione epocale dominata dalla morte del padre e simboleggiata dallo stato della vigna per il disordine seguito alla morte. Si leggano gli ultimi paragrafi::
Era caduta la terra, le pietre erano smosse. Il padre, lo vedevo «C’è sempre qualcosa da fare» – diceva «queste pietre, il grappolo che tocca terra e s’infradicia, basta scavare un poco con le unghie». «I mattoni al comignolo della casetta, tu ti vai a sedere, quelli si scostano – poco alla volta – e uno tira l’altro».
Egli ci stava bene con la vigna, lunghe giornate.
Ora le viti si facevano largo, non più tutte parevano, a quattro a quattro, con le canne a capannello, come cabine o case o palazzotti, uno in fila all’altro; qualcuna si sradicava, un’altra invecchiava, c’erano due larghi, mancanti di un capannello e mezzo, 6 viti vicino la casetta parevano proprio una piaga in faccia.
Si aprono diversi piani di lettura. Il più ovvio è quello suggerito dalla sua posizione nell’organizzazione della seconda parte, come spartiacque tra i primi tre e gli ultimi tre capitoli, dove si raccontano eventi diversi, non comparabili. Nel quinto e nel sesto capitolo si racconta il bombardamento di Potenza del 9 settembre 1943, e la misteriosa scomparsa dei due fratelli Nido spariti per sempre nel nulla sotto le bombe che cadevano su Potenza, e infine, nel settimo si racconta la ripresa della nuova vita. La piaga in faccia alla casetta è un acino di uva puttanella nel tragico grappolo con gli eventi raccontati, che richiamano, in terrificante escalation, i forni crematori, le città “conventrizzate” e le immani distruzioni, le decine di milioni di morti, Hiroschima.
La vigna di Renzo. Altro piano di lettura è suggerito dalla visita di Renzo alla sua vigna (Capitolo 33 dei Promessi Sposi).
Renzo Tramaglino, dopo due anni di assenza, dopo il matrimonio saltato, i disordini di Milano, la sua fuga nel Bergamasco, la peste ancora in corso, ritorna di nascosto al paesello natale (chissà dov’è finita Lucia?), passa davanti a casa e vede che la vigna, l’orto, il cortile, tutto si è inselvatichito. Manzoni nella prima versione (Fermo e Lucia parlava solo della casa, dove erano passati i lanzichenecchi, coi guai tipici che comportano i lanzichenecchi, muri affumicati, imposte usate per fare fuoco e cuocere i würstel, la paglia per terra come dormitorio, intonaco scrostato. Renzo si ritrae inorridito. Non c’è scritto altro; non una parola sull’orto e sul giardino. Quando però Manzoni riscrive il romanzo, aggiunge la descrizione della vigna e del giardino abbandonato, una aggiunta che prende due pagine. Che per coerenza dovrebbero rinforzare il senso d’incuria e di rovina; invece sono due famose pagine di entusiasmo botanico, che vale la pena leggere:.
E andando, passò davanti alla sua vigna; e già dal di fuori poté subito argomentare in che stato la fosse. Una vetticciola, una fronda d’albero di quelli che ci aveva lasciati, non si vedeva passare il muro; se qualcosa si vedeva, era tutta roba venuta in sua assenza. S’affacciò all’apertura (del cancello non c’eran piú neppure i gangheri); diede un’occhiata in giro: povera vigna! Per due inverni di seguito, la gente del paese era andata a far legna “nel luogo di quel poverino”, come dicevano. Viti, gelsi, frutti d’ogni sorte, tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede. Si vedevano però ancora i vestigi dell’antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate, ma che pure segnavano la traccia de’ filari desolati; qua e là, rimessiticci o getti di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva sparso, soffogato, in mezzo a una nuova, varia e fitta generazione, nata e cresciuta senza l’aiuto della man dell’uomo. Era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene salvatiche, d’amaranti verdi, di radicchielle, d’acetoselle, di panicastrelle e d’altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d’ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso; una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce n’era alcune di piú rilevate e vistose, non però migliori, almeno la piú parte: l’uva turca, piú alta di tutte, co’ suoi rami allargati, rosseggianti, co’ suoi pomposi foglioni verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co’ suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze al basso, piú su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri; il tasso barbasso, con le sue gran foglie lanose a terra, e lo stelo diritto all’aria, e le lunghe spighe sparse e come stellate di vivi fiori gialli: cardi, ispidi ne’ rami, nelle foglie, ne’ calici, donde uscivano ciuffetti di fiori bianchi o porporini, ovvero si staccavano, portati via dal vento, pennacchioli argentei e leggieri. Qui una quantità di vilucchioni arrampicati e avvoltati a’ nuovi rampolli d’un gelso, gli avevan tutti ricoperti delle lor foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor campanelle candide e molli: là una zucca salvatica, co’ suoi chicchi vermigli, s’era avviticchiata ai nuovi tralci d’una vite; la quale, cercato invano un piú saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescolando i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravan giú, pure a vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l’uno con l’altro per appoggio. Il rovo era per tutto; andava da una pianta all’altra, saliva, scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli riuscisse; e, attraversato davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il passo, anche al padrone.
[IV]
L’aria è bella, va tutto bene, solo che l’ombra torna più presto sui piedi: le ultime sere di vacanze, in ottobre, il vino, la vendemmia, l’arare; non c’è davvero altro che conti che sentirsi l’anima in corpo. Se così non fosse, parrebbe scemenza il bere mosto come tutti fanno, o il vino nuovo che è ancora zucchero e polvere e sole, si beve perché il vecchio è spicciato, qualche bottiglia, qualche bicchiere è buono come un medicinale e perché bisogna abituarsi al nuovo che sarà buono in febbraio, senza smettere l’abitudine. Ognuno ha propositi nuovi di tuffarsi nella vita, di ripetere quella dei padri e degli anziani. Si godono le giornate: è morto un solo bambino di 6 mesi, è squillata la campana piccola di Sant’Angelo, i malati stanno più freschi, i vecchi alla cappella sono in trenta seduti al primo gradino, assidui perché il sole li guarda e non li unge; ai ferri i disoccupati si appoggiano, non sono ancora violenti. Alla coda di un camion c’è il mercato delle castagne, cambio di castagne contro grano. Tante – come zia Filomena – stanno curve nel sole della porta a lavare i panni allo strigaturo, o alla madia per impastare. Il paese è vuoto e se alzi gli occhi, l’aria ti prende, hai voglia di goderla, di riempirla di te, quella ti prende nelle braccia sue e si sentono le nenie che hai già sentito, esclamano le stesse vacche da Serra del Cedro, ritornano i giorni passati con i fatti che successero e le tinte di allora, i luoghi, la vigna.
I colori della vigna erano giallo, verde e un rosso di sangue di bue, anche le foglie dei fichi, solo che erano rugginose agli orli; nella casetta un ferro nero pendeva da uno spago, il corpo di Cristo addossato al tronco senza braccia, senza le ali della croce.
Due pietre chiudevano un mucchio di cenere, il fuoco era dato alla grossa caldaia per l’uva da fervere che, mischiata, rendeva colore al mosto.
Il ciliegio, il melo ora l’uno ora l’altro ventilavano.
È un’altra cosa in una strada aperta di campagna vedere un uomo o un cane di lontano, ma tra le viti che paiono lumi nelle veline colorate, sotto il fico dalla chioma misera, vederci qualcuno all’improvviso ti dà uno strappo al petto: può ingannare il silenzio o quel vento e tutto può essere, come dice mia madre che vede l’ombra e sente il respiro di mio padre, era curvo come nella fotografia a cogliere i racimoli dalle viti: un mese ancora dopo la vendemmia ci sono i raspolli si può mangiare un grappolo lasciato alla vite per fretta delle donne.
Era di nuovo mio padre, la sua camicia fatta dal vano di cielo, le sue mani dai tralci delle viti. Lo lasciai lì e non guardai sapendo – dopo la paura di vederlo – che gli restava sempre in quel gesto, inquieto se si perdeva un acino che doveva raccogliere nel cesto, proprio come nella fotografia.
Le viti dell’alicante sprizzavano vivi colori di rubino. Il sorbo era tutto eretto delle sue fogliette, si distingueva così una nuvola rossa al tramonto. Di chi era il fico alla seconda fabbrica, spampanato e brutto, non ricordavo. I figli avevano un albero ciascuno, piantati dal padre come noi nascevamo, e dei due ciliegi era mio e di Serafina quello che le dava dopo e amarasche.
Il sorbo era mio, il primo era mio padre a prendermi in giro. Alla seconda fabbrica, sotto la casetta, aveva fatto lasciare vuoto tra pietra e pietra come un nicchietto, dove tenere al fresco il vino. Mi mossi a vederlo, era caduta la terra fina dentro.
Era caduta la terra, le pietre erano smosse. Il padre, lo vedevo «C’è sempre qualcosa da fare» – diceva «queste pietre, il grappolo che tocca terra e s’infradicia, basta scavare un poco con le unghie». «I mattoni al comignolo della casetta, tu ti vai a sedere, quelli si scostano – poco alla volta – e uno tira l’altro».
Egli ci stava bene con la vigna, lunghe giornate.
Ora le viti si facevano largo, non più tutte parevano, a quattro a quattro, con le canne a capannello, come cabine o case o palazzotti, uno in fila all’altro; qualcuna si sradicava, un’altra invecchiava, c’erano due larghi, mancanti di un capannello e mezzo, 6 viti vicino la casetta parevano proprio una piaga in faccia.
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