La guerra come cataclisma. Quando caddero le bombe … la guerra era finita. A Potenza la gente, impazzita di gioia la sera dell’8 settembre 1943 all’annuncio dell’armistizio, aveva da poche ore festeggiato la fine della guerra, quando su di essa caddero due tremende piogge di bombe. Catastrofi e cataclismi avrebbero ancora per due anni funestato il mondo intero. Il racconto dell’UP rende plasticamente la situazione: l’incipit del quinto capitolo è categorico: «La guerra era finita». Quindi, secondo l’analisi di Rosalma Salina Borello (A gorno fatto, Baslicata editrice Matera, 1977 pag. 145), comincia «a farsi da sé» un racconto di guerra come cataclisma e come spettacolo, rappresentata «come risultato di un continuo sforzo di adeguamento alle strutture psicologiche ed espressive dell’ambiente contadino, al suo modo di vedere la realtà e di esorcizzarne, familiarizzandoli, gli aspetti più paurosi e negativi. Ma c’è qui qualcosa di più: il quadretto finale, con i viandanti stesi sotto gli alberi a «godersi» i bombardamenti, dal tono assurdamente idillico (che potrebbe far pensare a una scena di Picnin in campagna di Arribal) pone in risalto, come meglio non si potrebbe, la condizione di totale isolamento dei contadini meridionali, per i quali la guerra si riduce a nient’altro che a uno spettacolo, per quanto terribile ed agghiacciante possa essere«A giorno fatto cit, p. 147». (Pic-nic in campagna è una piéce dissacrante del 1952 di Fernando Arrabal – drammaturgo, saggista, regista, poeta, scrittore, pittore spagnolo vissuto nel secolo scorso -. Una famiglia va a celebrare un pic-nic su un campo di battaglia (notare l’uso ambiguo della parola campagna: i pic-nic si fanno in campagna, ma c’è la campagna di guerra), dove il figlio, soldato, è impegnato in guerra. Con un ombrello si difendono dai proiettili. Il figlio cattura un prigioniero, di cui non sanno che fare. I due nemici hanno la stessa idea sulla guerra. Emerge piano piano la presa di coscienza del pacifismo contro le guerre che vogliono gli altri).

  Io stesso, invero, ho fatto esperienza della guerra, intendo della guerra tradizionale, della seconda guerra mondiale, come cataclisma e spettacolo insieme: spettacolo come autodifesa esorcistica e cataclisma come portato proprio d’ogni guerra. Frequentavo la prima media a Napoli, ospite di un mia zia. Gli aerei inglesi, in media tre-quattro notti la settimana, compivano incursioni sulla città. Io e mio cugino uscivamo dal rifugio e dal giardino del condominio ci godevamo lo spettacolo del fuoco della contraerea e dei fari che scrutavano il cielo, cercando di illuminare un aereo nemico. Era un’attesa eccitante, mai soddisfatta. La notte la guerra ci si presentava come un gioco, l’indomani, lungo il percorso verso la scuola, vedevamo talvolta distruzioni provocate dal bombardamento.

     La tragedia dei fratelli Mileo. Una famiglia tricaricese visse una tragedia inenarrabile, che il paese condivise empaticamente. Due ragazzi, fratello e sorella, sparirono nel nulla sotto la pioggia di bombe che cadevano su Potenza.

  A Tricarico, sul fare della sera di quell’8 settembre 1943, si diffuse in un baleno la notizia che la guerra era finita. Misteriosamente, perché mancava la corrente elettrica e non funzionavano le radio né il telefono e il telegrafo. Qualcuno disse che la notizia l’aveva appresa don Tommaso Gigli, ascoltando la radio a pile nel suo casino dove ancora soggiornava con la moglie Paola. Nessuno si è mai chiesto se nell’estate del 1943 esistevano radio a pile, che nessuno aveva ancora mai viste.

  Potenza subì il primo bombardamento alle due della notte del 9 settembre 1943, appena poche ore dopo i festeggiamenti per … la fine della guerra.

  Il bombardamento prese di mira la caserma d’artiglieria che fronteggiava la villa comunale e la stazione di Potena superiore, colpendo duramente anche il vicinissimo rione Santa Maria, che si trovava in mezzo ai due obiettivi strategici.. Qualche ora dopo, verso le dieci del mattino, Potenza subì un più terribile e sconvolgente bombardamento da parte di diverse squadriglie di fortezze volanti.

Quell’inferno di bombe inghiottì in un orrendo buco nero, in cui non si è mai riusciti a penetrare, due giovani tricaricesi, fratello e sorella, più o meno della mia età. Li conoscevo. Appartenevano alla famiglia Coppelascionte, si chiamavano Peppino e Maria Carmela Mileo. Peppino aiutava nel negozio dei suoi parenti Nido che si trovava nel corso, dopo quello di Molinari.

Lasciamo raccontare a Scotellaro, che su quella tragedia ha scritto una pagina sconvolgente e avvincente:

 

Un fratello e una sorella, fatti di una creta nera nelle carni, così simili, adolescenti che con quel colore luminoso e nero nel volto parevano nudi, andavano per la prima volta in città accompagnati dalla zia, che stava lì e li aveva tratti con sé per festa, per affetto: «Venite a stare con me qualche giorno, venite a vedere Potenza». Al rione Santa Maria c’erano le casette nuove, la scuola degli Allievi Ufficiali, ragazzi alti che passeggiavano impugnando la spada. Caddero le bombe, fu un temporale. I nipoti avevano guardato la città luccicante fino dal Cupolicchio, il monte boscoso a metà strada.

La città si vedeva sotto la luce di riflettore del sole.

– Tengono le luci a giorno? – domandò il nipote.

– Pare così – rispose la zia – faremo festa, la guerra è finita. – Ritornerà lo zio da sotto le armi, riavrà il cavallo della forestale, la sera ci porterà le lepri e gli uccelli.

Si vedevano Acerenza e Oppido da una parte e Albano, Trivigno, Brindisi: – Di chi sono quei camposanti? – chiedevano i nipoti, i paesi parevano o massi di roccia o, appunto, piccole cappelle addossate.

– Questa è Taverna arsa – disse la zia – Possiamo bere due uova e riposarci.

Era una masseria sulla rotabile con un ovile e una stalla scoperchiati. – Ci furono i briganti e l’appicciarono.

O era per il fumo del focolare o per il fuoco dei briganti la casa abitata era nera entro e fuori come i forni. Uscirono i contadini con i figli piccoli, scalzi, ognuno col pane in mano. Arrivarono al fosso Rummolo sotto Vaglio, il paese era su, nel vallone scendevano le pietre, che forse cadendo dal paese avevano sfregiato le poche quercie brutte e vecchie. C’erano le pecore appese: – Di chi sono quelle? – domandavano i ragazzi – Senza pastore?

Si trovarono le prime persone dopo il bivio, gente che andava a Potenza vestita di velluto, con le galline in mano a capo sotto. I ragazzi li fecero salire su un asino. L’asino sudava battendo il muso per terra. All’interno o maggesi o ristoppie i pezzi di terra erano disseminati da tumuli di pietre. – Che sono quelli? – I contadini le raccolgono in un punto per liberare la terra.

Al torrente Tiera videro il Ponte nuovo che era come la giostra col suo arco parabolico. – Come si mantiene? – La zia rispose: – Avete visto? Quante ne inventano.

Proprio sul ponte c’era la fontanina per bere: i ragazzi scesero dall’asino, pestarono coi tacchi perché le gambe s’erano addormentate e per credere al miracolo del ponte.

Erano stanchi, la zia: – Vedete, la pianura di Betlemme, siamo a Potenza. I pioppi i gelsi gli orti. Cadde un apparecchio, là vicino, e morirono.

Loro non vedevano le case, le strade di asfalto, non ascoltavano la zia. Quando caddero le bombe ella li chiamava, ma quelli correvano all’impazzata: non li seppe trovare nessuno, tutte le macerie furono smosse, i pezzi di carne non erano i loro. Come se uno li avesse presi sotto il mantello per rubarli, fossero scappati con gli uccelli.

La zia andò alla scuola degli Allievi, in tutte le case, nella villa comunale, al tunnel del ricovero che trapanava da parte a parte la città sboccando a piazzetta Crispi. Tornò indietro, al Cimitero, alle fabbriche di laterizi, vicino all’Epitaffio, sotto quelle tettoie, dietro quegli alberi, andò al Museo, vi si trovavano proprio vicini nel momento: anche il Museo era stato colpito. Tumuli di pietre anche lì, e blocchi: avevano faccia e gambe e tutto da uomo e donna nudi, erano statue, qualcuna senza braccia o senza capo, il solo torso o una gamba sola, una in piedi, le altre distese morte. Poi venne fuori un uomo vero da una porta con un fazzoletto per pulire delle cose che aveva nell’altra mano. Era vecchio, le mani gli tremavano, i capelli lunghi di un Santo. La zia stava per inginocchiarsi e giungere le mani gridando «Fammi la grazia». Era il direttore del Museo, che parlò. Seppe il fatto: – Non li ho visti, non sono passati di qua. – Guardava questa visitatrice del suo museo con le braccia fermate sul grembo come le statuette delle dee madri greche. Metaponto. Heraclea, Grumentum, le rovine delle rovine, le reliquie e questa donna. Fece un discorso per conto suo. Chi contadino, scavando la terra, le avrebbe portato un osso?

– Ecco – si diceva scoprendo un piccolo bronzo che ripuliva col fazzoletto – questo è un giovinetto trovato sotto terra tra Vaglio e Cancellara. Sai chi è.

L’Ercole giovinetto, respinge un serpente attorcigliato al suo piede, stringendolo col pugno sotto la testa. La testa del serpente alta sta per pungergli il muscolo del braccio …

– Sono stato sempre qui – disse il direttore – nessuno si è visto. Mi avrebbe fatto piacere. Ma si troveranno, si troveranno.

 

  Ma non si trovarono. La famiglia ha disperatamente sperato per lustri che i due ragazzi fossero vivi e spese una fortuna con maghi e veggenti senza scrupoli. Uno di essi è vissuto alcuni anni a Tricarico, con una figlia con l’impermeabile rosso ricordata in un libro di un famoso scrittore napoletano, esercitando il suo mestiere di speculatore sulla credulità di chi aveva perduto tutto.

 

Per il resto la guerra non influisce minimamente sulla vita del paese. Nel racconto di Scotellaro, d’altra parte – e qui lascio la parola alla prof. Salina Borello (op. cit. p. 146) -, ciò che maggiormente colpisce il lettore, abituato da un’ampia letteratura memorialistica a vedere nella guerra quanto di più disumano ed assurdo si possa immaginare, è il tono di tranquilla familiarità con cui se ne tratta, quasi non fosse altro che un cataclisma naturale cui si deve cercare di porre rimedio, senza chiedersene il perché.

Questa prima generica impressione viene rafforzata e convalidata da un’analisi del brano condotta nei particolari, attraverso cui è possibile individuare un processo costante di riduzione degli aspetti più terribili ed impressionanti della guerra nei termini rassicuranti della realtà quotidiana. Ed ecco quindi gli aeroplani che volano a bassa quota paragonati ad innocui aquiloni, mentre la cima bombardata viene indicata col termine familiare ed affettuoso di «tuppo», la caratteristica acconciatura femminile fatta con una treccia di capelli arrotolata e fissata sulla nuca, e la caduta delle bombe fa tremare le pareti non diversamente dalle travi quando si sfasciano in una vecchia casa in rovina.

Paradossalmente, mentre il paesaggio tutt’intorno, sconvolto dai bombardamenti, non perde il suo volto familiare, anzi sembra acquistare, in virtù di quella parola «tuppo» un che di umano, la figura materna diventa irriconoscibile, una tragica maschera del terrore: «non era mia madre». Per un momento sembra che il processo di sdrammatizzazione sistematica cui venivano sottoposti tutti gli aspetti più paurosi e disumani della guerra debba arrestarsi qui, di fronte al volto della madre che si riaffaccia con insistenza ossessiva alla memoria «era bianca in faccia … » «mi diceva con la sua faccia» «la faccia che fece non me la scorderò mai», ma ecco che anche questo volto, non più materno, viene recuperato attraverso la pietà, mediante un paragone con gli animali più perseguitati ed indifesi: la lepre davanti allo schioppo, l’uccello in trappola.

Per il resto la guerra non influisce minimamente sulla vita del paese: le donne continuano a lavare ed asciugare i panni, i viandanti si stendono sotto gli alberi a «godersi» lo spettacolo dei bombardamenti e degli aeroplani.

  Anche la guerra, è un avvenimento incomprensibile, magico, da accettare con fatalistica rassegnazione. Passa senza lasciare tracce sulle coscienze, senza altri effetti di un terremoto o un qualsiasi altro cataclisma naturale: case distrutte e donne vestite di nero:

 

La guerra era finita, si videro più donne a lutto: erano così più belle le donne vestite di nero.

 

     Concetto Valente. Il direttore del museo con i «capelli lunghi di un santo» si chiamava Concetto Valente, figura eminente di studioso legato alla sua Lucania, sul quale è ingiustamente calata una coltre di silenzio. Nato a Pisticci, trascorse lunghi periodi a Tricarico, dove vivevano i parenti della madre morta nel metterlo al mondo.

     Il ricordo che ho di Concetto Valente è quello descritto da Rocco con discrezione, stima e affetto e a lui ho deicato un post pubblicato su questo blog il 26.02.2011. Lo ricordo che si aggirava come un fantasma dolente tra le macerie del museo, incurante delle travi di cemento armato pericolosamente pencolanti. Il museo era a Santa Maria, il quartiere periferico di Potenza dove allora, anno scolastico 1944-45, abitavo ospite di una mia zia, sorella di mio padre, per frequentare il ginnasio. Andando a scuola o tornandovi vedevo questo fantasma aggirarsi tra le macerie con un frammento tra le mani, e ne ero incuriosito e affascinato.

 

[V]

 

Era finita la guerra. Dopo le notti dei lampi rossi su Potenza, venne il giorno che tre apparecchi con la coda, bassi come aquiloni, tirarono le bombe sul tuppo della Serra; caddero come il tozzo di legna fa tremare le mura della vecchia casa, sicché il paese si vuotò, nel cielo della piazza rimase il ronzìo dei motori, quelli del mio vicinato del Monte si ricoverarono nelle grotte del Cinema per stare protetti. Corsi a cacciarli fuori, ordinai a mia madre di starsene in casa e lei non voleva saperne, ascoltava le mie parole che le suonavano aspre e condanna a morte in quel silenzio, era bianca in faccia, si girava su se stessa muovendo le mani nella strada per appoggiarsi a un palo che non trovava, era fuori di sé, affaccendata in una casa deserta. Mi ubbidì, ma diceva con la sua faccia: – ricordati, sei tu che mi fai morire.

La faccia che fece non me la scorderò, mi avrebbe scannato e intanto mi malediva come un tiranno: – Perché vuoi farmi morire snaturato? – Non era mia madre, era una lepre davanti allo schioppo, era un uccello in trappola.

La notte mi alzavo e aprivo il balcone, di giorno restavo insieme alle donne che spandevano i panni su Santa Croce ai piedi della Torre.

Così i camminanti, chi per vedere chi per comprare e chi per l’ospedale, arrivati vicino a Potenza dopo tutto il viaggio a piedi, si fermavano sotto le poche quercie, accanto ai macigni, sulla terra nera di carbone e svuotavano i fiaschi di vino assistendo alle scene dei razzi, delle bombe, delle luci – apri e chiudi – degli aerei.

Un fratello e una sorella, fatti di una creta nera nelle carni, così simili, adolescenti che con quel colore luminoso e nero nel volto parevano nudi, andavano per la prima volta in città accompagnati dalla zia, che stava lì e li aveva tratti con sé per festa, per affetto: «Venite a stare con me qualche giorno, venite a vedere Potenza». Al rione Santa Maria c’erano le casette nuove, la scuola degli Allievi Ufficiali, ragazzi alti che passeggiavano impugnando la spada. Caddero le bombe, fu un temporale. I nipoti avevano guardato la città luccicante fino dal Cupolicchio, il monte boscoso a metà strada.

La città si vedeva sotto la luce di riflettore del sole.

– Tengono le luci a giorno? – domandò il nipote.

– Pare così – rispose la zia – faremo festa, la guerra è finita. – Ritornerà lo zio da sotto le armi, riavrà il cavallo della forestale, la sera ci porterà le lepri e gli uccelli.

Si vedevano Acerenza e Oppido da una parte e Albano, Trivigno, Brindisi: – Di chi sono quei camposanti? – chiedevano i nipoti, i paesi parevano o massi di roccia o, appunto, piccole cappelle addossate.

– Questa è Taverna arsa – disse la zia – Possiamo bere due uova e riposarci.

Era una masseria sulla rotabile con un ovile e una stalla scoperchiati. – Ci furono i briganti e l’appicciarono.

O era per il fumo del focolare o per il fuoco dei briganti la casa abitata era nera entro e fuori come i forni. Uscirono i contadini con i figli piccoli, scalzi, ognuno col pane in mano. Arrivarono al fosso Rummolo sotto Vaglio, il paese era su, nel vallone scendevano le pietre, che forse cadendo dal paese avevano sfregiato le poche quercie brutte e vecchie. C’erano le pecore appese: – Di chi sono quelle? – domandavano i ragazzi – Senza pastore?

Si trovarono le prime persone dopo il bivio, gente che andava a Potenza vestita di velluto, con le galline in mano a capo sotto. I ragazzi li fecero salire su un asino. L’asino sudava battendo il muso per terra. Al- l’interno o maggesi o ristoppie i pezzi di terra erano disseminati da tumuli di pietre. – Che sono quelli? – I contadini le raccolgono in un punto per liberare la terra.

Al torrente Tiera videro il Ponte nuovo che era come la giostra col suo arco parabolico. – Come si mantiene? – La zia rispose: – Avete visto? Quante ne inventano.

Proprio sul ponte c’era la fontanina per bere: i ragazzi scesero dall’asino, pestarono coi tacchi perché le gambe s’erano addormentate e per credere al miracolo del ponte.

Erano stanchi, la zia: – Vedete, la pianura di Betlemme, siamo a Potenza. I pioppi i gelsi gli orti. Cadde un apparecchio, là vicino, e morirono.

Loro non vedevano le case, le strade di asfalto, non ascoltavano la zia. Quando caddero le bombe ella li chiamava, ma quelli correvano all’impazzata: non li seppe trovare nessuno, tutte le macerie furono smosse, i pezzi di carne non erano i loro. Come se uno li avesse presi sotto il mantello per rubarli, fossero scappati con gli uccelli.

La zia andò alla scuola degli Allievi, in tutte le case, nella villa comunale, al tunnel del ricovero che trapanava da parte a parte la città sboccando a piazzetta Crispi. Tornò indietro, al Cimitero, alle fabbriche di laterizi, vicino all’Epitaffio, sotto quelle tettoie, dietro quegli alberi, andò al Museo, vi si trovavano proprio vicini nel momento: anche il Museo era stato colpito. Tumuli di pietre anche lì, e blocchi: avevano faccia e gambe e tutto da uomo e donna nudi, erano statue, qualcuna senza braccia o senza capo, il solo torso o una gamba sola, una in piedi, le altre distese morte. Poi venne fuori un uomo vero da una porta con un fazzoletto per pulire delle cose che aveva nell’altra mano. Era vecchio, le mani gli tremavano, i capelli lunghi di un Santo. La zia stava per inginocchiarsi e giungere le mani gridando «Fammi la grazia». Era il direttore del Museo, che parlò. Seppe il fatto: – Non li ho visti, non sono passati di qua. – Guardava questa visitatrice del suo museo con le braccia fermate sul grembo come le statuette delle dee madri greche. Metaponto. Heraclea, Grumentum, le rovine delle rovine, le reliquie e questa donna. Fece un discorso per conto suo. Chi contadino, scavando la terra, le avrebbe portato un osso?

– Ecco – si diceva scoprendo un piccolo bronzo che ripuliva col fazzoletto – questo è un giovinetto trovato sotto terra tra Vaglio e Cancellara. Sai chi è.

L’Ercole giovinetto, respinge un serpente attorcigliato al suo piede, stringendolo col pugno sotto la testa. La testa del serpente alta sta per pungergli il muscolo del braccio …

– Sono stato sempre qui – disse il direttore – nessuno si è visto. Mi avrebbe fatto piacere. Ma si troveranno, si troveranno.

       La guerra era finita, si videro più donne a lutto: erano così più belle le donne vestite di nero.

Comments are closed.