Se la guerra è rivissuta come gioco (cap. V), la liberazione (cap. VI) si svolge tutta in chiave comico-farsesca nell’arco di 11 giorni, dall’8 al 18 settembre 1943. Il racconto fa perno sui primi due e sull’ultimo dei giorni di questo breve arco di tempo, salvo un singolo episodio che bisogna immaginare avvenuto non prima di uno o due giorni precedenti la liberazione. La sproporzione tra la portata di avvenimenti come la guerra e la liberazione e la loro riduzione a formato paesano (che quasi si sarebbe tentati di prefissare in stra-paesano) è nettissima e schiacciante e rischia di diventare una caricatura di se stessa.

Mi pare opportuno dividere questo capitolo in tre parti e mi rendo conto che  post precedenti sono stati troppo lunghi e sarebbe stato meglio per non appesantire troppo la lettura, trattare ciascuno di essi in due o più post.

La prima parte di questo capitolo comprende i primi due paragrafi, cui farò seguire il commento della prof. Rosalma Salina Borello (A giorno fatto, Basilicata editrice, Matera 1997, p. 151 s.). Di seguito riporterò il testo del capitolo, per chi intendesse leggerlo subito per intero, cosa che, peraltro, consiglio.

Il testo dei suddetti due paragrafi è il seguente:

 

Or mentre i paesi restavano all’oscuro, a Potenza l’indomani con la luce del giorno si rivedevano a gruppi  per le strade, arrivava il direttore del Museo con le  mani tremanti, dicevano: – Guarda, i morti camminano  _ e lui rispondeva: – Sono vivo per miracolo -; e  gli striscioni proclamavano lo stato d’assedio della città,  e un colonnello si uccideva o l’uccisero, le case erano  alberi sotto il vento e facevano paura più loro del  cimitero e il largo stesso della campagna infido, da  dove sarebbero giunti altri soldati e bandiere e divise  e faccie, e giunsero e tutto parve, l’accaduto e le morti,  un sogno brutto per noi che restammo.

     Al paese arrivavano ogni giorno soldati con le barbe, dicevano: – Rinfresco di casa mia – e si buttavano  sui letti.

 

Il racconto – osserva la prof. Salina Borello – si apre con un estroso e bizzarro collage d’immagini capricciosamente ritagliate e susseguentesi con ritmo concitato e caotico, ricavando l’impressione che tutta la prima lunga frase «giri a vuoto », quasi che i vari elementi di cui si  compone, rifiutando di sottomettersi ad un qualche ordine gerarchico, di inserirsi in una qualche prospettiva, premano ognuno al  limite delle proprie possibilità di incidenza e di spettacolo sino a  giungere ad effetti di animazione parossistica.

Quali sono i mezzi impiegati per ottenere questi effetti?

Il senso di smarrimento è dato non solo dalla sovrapposizione di tante proposizioni, con un mutamento continuo di soggetto e spostamento del campo visivo, ma soprattutto dalla mancanza di un autentico centro della frase, di una proposizione cioè che ne sintetizzi e riassuma i vari aspetti.

Quella che dovrebbe essere la frase principale e iniziare la serie delle coordinate: « a Potenza l’indomani con la luce del giornosi vedevano a gruppi per le strade » si rivela inadatta al suo  compito centralizzatore per la mancanza di un senso compiuto. Chi sono, infatti, coloro che si fanno vedere a gruppi? Non lo sappiamo o, almeno, l’autore non ce lo dice, lasciandoci immaginare una folla  anonima, tra cui è possibile distinguere qua e là qualche viso noto  (quello ad esempio del direttore del Museo), così come subito dopo  non ci dice di chi siano le voci che commentano la comparsa del  direttore: « Guarda, i morti camminano ». Alla proposizione principale fa seguito una serie di coordinate, in cui si assiste ad una continua immissione di cose e di uomini alternantesi in una  vorticosa girandola d’immagini fino all’estrema dissoluzione della sequenza finale:

 

[ … ] e il largo stesso della campagna infido, da dove sarebbero giunti  altri soldati e tutto parve, l’accaduto e le morti, un sogno brutto per  noi che restammo.

 

Cose e membra umane si affastellano alla rinfusa da dove  sarebbero giunti altri soldati e bandiere e divise e facce» ) dando  luogo ad una di quelle visioni stravolte ed abnormi tipiche dell’espressionismo scotellariano .

     C’è qualcosa di stravolto e d’ossessivo nel ritmo stesso delle frasi, nel succedersi incoerente degli imperfetti (restavano… si rivedevano … arrivava … dicevano … rispondeva … proclamavano … si uccideva o l’uccisero … facevano paura), miranti, per lo più, non a stabilire un rapporto di durata, ma a prolungare indefinitivamente  anche azioni non continuative. I moduli tipici della parlata popolare, quale la giustapposizione delle frasi, il caratteristico andamento a strattoni del discorso narrativo, dovuto a improvvise divagazioni su circostanze accessorie, possono essere rielaborati letterariamente, con risultati apprezzabilissimi.

     Pare alla Salina Borello che la sequenza suddetta narrativa ne sia una prova, ma non mi sento di consentire totalmente. Mi resta l’amaro in bocca per il ridursi della guerra e della liberazione, sia pure ridotte in una dimensione stra-paesana, in una caricatura di loro stesse.

    

[VI]

 

Or mentre i paesi restavano all’oscuro, a Potenza l’indomani con la luce del giorno si rivedevano a gruppi  per le strade, arrivava il direttore del Museo con le  mani tremanti, dicevano: – Guarda, i morti camminano  _ e lui rispondeva: – Sono vivo per miracolo -; e  gli striscioni proclamavano lo stato d’assedio della città,  e un colonnello si uccideva o l’uccisero, le case erano  alberi sotto il vento e facevano paura più loro del  cimitero e il largo stesso della campagna infido, da  dove sarebbero giunti altri soldati e bandiere e divise  e faccie, e giunsero e tutto parve, l’accaduto e le morti,  un sogno brutto per noi che restammo.

     Al paese arrivavano ogni giorno soldati con le barbe, dicevano: – Rinfresco di casa mia – e si buttavano  sui letti.

Al casino più bello di campagna, a due piani, in  mezzo a un mandorleto giovane, si arrivava dalla rotabile per un viale tra i cordoni di mortella. O che si sentirono il fracasso dei piatti e il suono del vecchio  grammofono o che il padrone fosse irresistibilmente  chiamato al balcone di casa sua, subito l’indomani si  seppe che il casino era stato visitato dai tedeschi di  passaggio. Allora fu l’avvocato a dire il suo piano,  ché lo accompagnassero sul posto uomini armati per  tentare di riavere contro i danni e la ruberia, armi e  munizioni e benzina. Con la benzina poteva rifarsi.  L’avvocato viaggiava in carrozzino tirato da un asino,  le due pistole antiche di cavalleria, una a destra una  a sinistra, e il giovane milite ferroviario col suo moschetto, il padrone con la sigaretta in bocca e i due  mezzadri con le accette che avevano. Un chilometro  di strada, un chilometro di propositi fieri di vendetta:  – Sono dei giovinastri isolati, sono gli ultimi, li afferreremo.

Ma ecco una chiacchiera di motori si senti lontana.

Forse scappavano sempre verso su: – Avanti, presto  – gridava l’avvocato. I motori erano sempre meno  lontani, non era un giuoco del vento, i tedeschi tornavano indietro.

All’altezza del casino, in curva, la pattuglia dell’avvocato si fermò, le motociclette dei tedeschi sbucarono  in processione: polvere all’avvocato e alla comitiva,  afflitta al cancello del casino. All’arrivo dei camion  l’avvocato non ne poté più, levò tutt’e due le braccia  gridando: -Heil Hitler! – e poiché quelli non gli  risposero, lui continuò, benché sfiduciato e in tono  minore, il suo grido. Che non avrebbe fatto per ricerverne una risposta, almeno di una mano aperta e chiusa! Aveva una maschera in faccia desolata e con quella – come issata alla punta del bastone – chiedeva sostegno agli altri, che, poveretti, erano nelle sue mani.  Così erano umili le case del paese dietro la collina,  pronte a chinare porte e finestre ai temporali. Erano  solo una nube questi tedeschi o la schiera di gru  che portano l’anno buono e il cattivo e fanno alzare  gli occhi da terra, questo fanno. Infine l’avvocato lanciò  il suo cappello all’ultimo motociclista: rimase fisso  quanto poté a vedere il fumo del tubo di scappamento  che gli parve una risposta, così cruda da svegliarlo.

Il 18 settembre venne una giornata fresca e l’aria  una pagina bianca. Potevano essere le dieci del mattino,  l’ora della contentezza del mondo, ognuno si è istradato, nel paese e fuori in campagna e oltre le montagne.

Sarebbero giunti gl’inglesi, le donne e i piazzaiuoli  dovevano essere poche centinaia, stettero a guardare  la rotabile verso la Serra, il sole che sorgeva di là  alle dieci si era spostato sul Basento. I contadini erano  scesi in campagna approfittando della sicurezza che  la guerra finiva. Come mai quelle poche centinaia di  donne e di piazzaiuoli: c’erano i preti, i commercianti,  gli artigiani, gli studenti erano così giulivi, le loro  mani erano pronte a scattare in applausi la loro bocca  a gridare «viva»? Quei preparativi, quell’attesa sono  così rari: per Nitti e Ianfolla ai tempi delle elezioni,  per il vescovo che venne sul cavallo bianco, per il  Dottore che tornò dal confino, poi per Mussolini che  si prese in braccio il figlio d’un capitano caduto, lo  baciò, lo dette nelle braccia d’un altro, rientrò in macchina mentre Starace prendeva a pugni l’esattore che  voleva avvicinarsi  in un impeto di affetto patriottico,  sicché tutta la folla dietro i cordoni smise di gridare.

Va così: il podestà e il vice avevano – per interposte persone – trattato l’avvenimento dell’arrivo, la  sera prima. Fino a quel momento – tra il passo e spasso dei tedeschi – quando anche il maresciallo aveva  detto a Carminella, la padrona della trattoria: – Fammi  stare qua -, si era spogliato, perché ci sono i tedeschi  in piazza – il podestà e il vice avevano passato i  guai loro.

C’era gente che girava prendendo i nomi di Mastro  Innocenzo e di chi era stato in America, di qualche  giovane dalla testa calda di mastro Innocenzo.

– Vengono? – s’informava il vice. – Vengono – gli risposero – i tedeschi di nuovo.

Corse a chiamare il Messo perché aprisse il Municipio: – Là è nascosto, incartalo bene, mettilo in  un cesto. – Fece rimettere a posto il ritratto di Mussolini, accanto a quello del Re. Dopo tutto pareva  meglio la parete, col crocefisso di stucco in mezzo.

La sera prima venne il fiorentino che teneva lo  spaccio alla stazione e gli disse: – Vedi che gl’inglesi  vengono domani. – Il Vice richiamò il Messo: – E  quello dobbiamo lasciarlo? – gli chiese il Messo-  puntando il Re – Non pare brutta la parete?

Il Vice: – Già per coprire quel bianco. Non abbiamo una madonna, un Cristoforo Colombo?

Il Messo: – Abbiamo della stessa grandezza, tra  le carte, un altro Re.

Fecero le prove, andava benissimo Vittorio Emanuele secondo, e lo misero.

Mandarono il bando: «Domani mattina alle dieci,  tutti in piazza, ché vengono gl’inglesi».

Alla porta del Monte il podestà e il vice furono  fatti montare sulla jeep del capitano canadese, da dove  troneggiavano, in piazza, battendo le mani, e gridando  alla piccola folla: – E che fate? Forza, battete le mani  – uno da una parte, il vice dall’altra.

Si alzò dalla sedia del Lotto l’avvocato antifascista,  alto, bianco e rosso, col suo cappello a falde alla moda  di venti anni prima e nel gazzabuglio delle donne che paravano i senali, dei bimbi che coglievano i cioccolati come allo sposalizio togliendosi il cappello, levandolo alto, l’avvocato gridò: – Viva l’Italia! – e si risedette.

Gli risposero tutti tacendo, freddi nelle guancie, tutti parlarono di questo freddo poi; il capitano che  spinse la jeep nella bella piazza con le selci che luccicavano come l’aria delle dieci, lanciò altre manate  di regali. I bambini e le donne si pestavano per terra  a cogliere, gli studenti erano rimasti dall’avvocato, si  vide un terzo gruppo giostrare, dietro i bambini e le  donne. Scendendo dal corso, a passi di cavallo, sprofumato Don Enrico si avvicinò a quel gruppo. A un  tratto: – Eccolo – gridò tanto forte che il capitano e  tutti si voltarono a lui. E lui così coperto di sguardi,  si mosse tra la folla verso un uomo: Prese il Segretario  del fascio alla gola, lo tenne quanto tutti lo avessero  visto e allora gli tirò uno schiaffo; come un lampo  ruppe la folla e si diresse alla jeep, indicando l’uomo  che aveva percosso: ma non successe niente, perché  non c’era uno che non sapeva il significato di quel gesto.

La jeep mosse balzellando il muso, Don Enrico avanti con il lungo dito a far segnale, la folla si dimezzò, qualche trenta persone andarono dietro e rimasero giù, sotto il portone di Don Enrico, che aveva  già la tavola pronta per il capitano, il podestà, il vice e gli altri canadesi.

 

 

 

 

 

 

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