Un germoglio sterile

 

   Procedendo nella lettura del cap. VI, troviamo una narrazione in chiave donchisciottesca e patetico-farsesca. Si tratta di un fatto accaduto, raccontato in modo imprevidente, benché Scotellaro avesse normalmente attenzione a rielaborare accortamente fatti realmente accaduti (cfr. Nicola De Blasi, Infilo parole come insetti – Poesia e racconto di Scotellaro – Edizioni Osanna, Venosa, 2013, p. 40).

     Si pone il problema se confrontare il fatto realmente accaduto e la versione scotellariana. Mi pare – benché non abbia alcuna competenza in materia di critica letteraria, essendo un semplice ed anche mediocre lettore, che nella sua lunga vita ha fatto tutt’altro – che un lettore non dovrebbe preoccuparsi di conoscere gli autori e i fatti che hanno ispirato i testi, ma concentrarsi esclusivamente su questi. Ma in questo blog non si scrivono saggi di critica letteraria e si bada a trattare con  leggerezza bagatelle e cammei tricaricesi. Non mi pare quindi fuori luogo riesumare un fatto accaduto settant’anni fa.

     La prof. Salina Borello – nata e laureata a Torino, con studi in Germania e docenze in Università tedesche (Regensburg)– giustamente non si è preoccupata di sapere se il racconto di Scotellaro fosse ispirato a fatti realmente accaduti. Nel 1977 – quando oramai da tempo gravava sull’opera di Scotellaro la minaccia dell’oblio o della citazione frettolosa –  la suddetta studiosa ha pubblicato, per i tipi delle Edizioni Basilicata di Matera, un pregevole saggio, A giorno fatto, ponendosi essenzialmente lo scopo di sottoporre gli scritti letterari di Scotellaro al vaglio di strumenti tecnico-linguistici quanto più possibile rigorosi per saggiarne la qualità e la resistenza all’usura del tempo. Ne trae la conclusione che Scotellaro regge benissimo alla prova. Ciò significa che per lui – non diversamente che per un Pavese o un Vittorini – la letteratura dell’impegno non poteva certo coincidere con un disimpegno sul piano formale (cito dalla quarta pagina di copertina). All’Uva puttanella il saggio citato dedica le pagine da 129 a 162.

     Ora metto a confronto il fatto realmente accaduto e la versione scotellariana.

Il fatto. Il 9 settembre, il giorno dopo l’armistizio, aveva avuto inizio l’operazione Avalanche (operazione Valanga), nome dato al c.d. sbarco di Salerno, operazione militare anfibia nell’arco costiero da Maiori (paese con una spiaggia lunga un chilometro sulla costiera amalfitana, ideale per uno sbarco di anfibi) ad Agropoli. Le truppe tedesche operanti nel Meridione, per non restare imbottigliate, ripiegarono velocemente secondo piani stabiliti con teutonico rigore, usufruendo, tra le arterie fondamentali per la ritirata, anche della via Appia, lungo la quale, per alcuni giorni sfilarono colonne di motociclette sidecar, camion carichi di militari, blindati, carrarmati e cannoni. L’aviazione alleata concentrava i suoi sforzi nel bombardamento a tappeto delle città del Centro-Nord sperando di provocare rivolte delle popolazioni. A Tricarico nessuno osava mettere il naso oltre i Cappuccini, si seppe subito dei due terribili bombardamenti di Potenza, che inghiottirono nel nulla i giovani fratello e sorella Mileo, di una bomba che aveva distrutto il ponte alla stazione di Grassano, si vedeva il cielo oscurato dal passaggio di formazioni di centinaia di fortezze volanti, assistemmo terrorizzati a un duello aereo, proprio sopra la piazza, con sventagliate di mitraglia tra un caccia americano e uno tedesco. Il paese sfollò. Tutti si rifugiarono nelle vigne, nelle campagne, accampandosi come meglio potevano nei casini, nella casupole e persino nei pagliai e, all’opposto, i villeggianti abbandonarono i casini lungo la via Appia.

   Don Tommaso Gigli, all’epoca podestà di Tricarico, venne a sapere che, durante la ritirata, soldati tedeschi si accampavano per una sosta nel suo casino e gozzovigliavano al suono del grammofono, depredando stoviglie e mobili. (Don Tommaso è stato l’ultimo podestà di Tricarico e, per un brevissimo periodo, il primo sindaco non eletto, poiché, ai sensi del RDL 4 aprile 1944, n. 111, la qualifica di podestà fu soppressa e fu ripristinata la qualifica di sindaco, che era stata soppressa con una delle fascistissime leggi del 1926. A don Tommaso subentrò, sempre per nomina prefettizia e non per elezione, l’avv. Grobert di Pozzuoli, che, alla caduta del fascismo, si trovava a Tricarico, dove era stato confinato. Il primo sindaco di Tricarico, espressione di elezione democratica, è stato Rocco Scotellaro).

   Verso il 15-16 settembre sembrava che la ritirata tedesca per la via Appia fosse conclusa. Ma la via sembrava una sorta di zona franca, dove non si osava avventurarsi, neppure i soldati alleati, che si erano fermati alla stazione di Grassano. Don Tommaso bramava accertare cosa fosse accaduto al suo casino, ma non osava recarvisi. L’avvocato De Maria lo incoraggiò e gli offrì un passaggio sul suo carrozzino, trainato da un asinello che si chiamava Piccolino, del quale, data la sua mutilazione, si serviva per i suoi movimenti. Ai due si unirono tre o quattro persone, tra cui Antonio Albanese, che si trovava casualmente presente al momento della partenza. Antonio poi raccontò il fatto a me e a Rocco Scotellaro. Lungo il percorso, la comitiva fu raggiunta da una piccola colonna di motociclette tedesche, che seminò il panico. L’avvocato De Maria represse il tentativo, forse tardivo, di nascondersi nella scarpata. I tedeschi avrebbero potuto accorgersene, pensare a un agguato e ammazzare tutti. La comitiva assistette quindi al passaggio della colonna come paralizzati dalla paura e nessuno ebbe l’animo di compiere un solo gesto che sembrasse un saluto.

Nell’UP il fatto è invece così raccontato.

 

Al casino più bello di campagna, a due piani, In mezzo a un mandorleto giovane, si arrivava dalla rotabile per un viale tra i cordoni di martella. O che si sentirono il fracasso dei piatti e il suono del vecchio grammofono o che il padrone fosse irresistibilmente chiamato al balcone di casa sua, subito l’indomani si seppe che il casino era stato visitato dai tedeschi di passaggio. Allora fu l’avvocato a dire il suo piano, che lo accompagnassero sul posto uomini armati per tentare di riavere contro i danni e la ruberia, armi e munizioni e benzina. Con la benzina poteva rifarsi. L’avvocato viaggiava in carrozzino tirato da un asino, le due pistole antiche di cavalleria, una a destra una a sinistra, e il giovane milite ferroviario col suo moschetto, il padrone con la sigaretta in bocca e due mezzadri con le accette che avevano. Un chilometro di strada, un chilometro di propositi fieri di vendetta: – Sono dei giovinastri isolati, sono gli ultimi, li afferreremo.

Ma ecco una chiacchiera di motori si sentì lontana. Forse scappavano sempre verso su: – Avanti, presto – gridava l’avvocato. I motori erano sempre meno lontani, non era un gioco del vento, i tedeschi tornavano indietro. All’altezza del casino, in curva, la pattuglia dell’avvocato si fermò, le motociclette dei tedeschi sbucarono in processione: polvere all’avvocato e alla comitiva, afflitta al cancello del casino. All’arrivo del camion l’avvocato non ne poté più, levò tutt’e due le braccia gridando: _ Heil Hitler! – e poiché quelli non gli risposero, lui continuò, benché sfiduciato e in tono minore, il suo grido.

Che non avrebbe fatto per riceverne una risposta, almeno di una mano aperta e chiusa! Aveva una maschera in faccia desolata e con quella _ come issata alla punta del bastone – chiedeva sostegno agli altri, che, poveretti, erano nelle sue mani. Così erano umili le case del paese dietro la collina, pronte a chinare porte e finestre ai temporali. Erano solo una nube questi tedeschi o la schiera di gru che portano l’anno buono e il cattivo e fanno alzare gli occhi da terra, questo fanno.

Infine l’avvocato lanciò il suo cappello all’ultimo motociclista: rimase fisso quanto potè a vedere il fumo del tubo di scappamento che gli parve una risposta, così cruda da svegliarlo.

 

   Questa narrazione scotellariana inquadra il fatto nella cornice caricaturale del racconto della guerra e della liberazione e si carica di elementi che sembrano ispirati al Don Chisciotte e all’Armata Brancaleone. Bella o brutta che questa ricostruzione sia, è certo che Scotellaro mancò di un minimo di accortezza, di quel minimo che si può coprire con la clausola di stile che l’eventuale riferimento a fatti e persone è del tutto casuale. L’avv. De Maria, quando il libro fu pubblicato, liquidò l’imprevidenza di Scotellaro come una «impertinente ragazzata».  

     La prof. Salina Borello sostiene, riguardo all’intero racconto, che Scotellaro, predisponendo e manovrando un certo numero di meccanismi di straniamento, riesce a darci la misura dell’estraneità dalla storia del mondo delle campagne meridionali e questo «piaccia o no» è il suo modo di tener fede all’intento di porsi «dal punto di vista delle classi inferiori». Un modo che, con quel «piaccia o no» sembra suscitare perplessità nella stessa docente di Regensburg, alle quali, tuttavia, non lei riesce a dare risposte. 

     In merito allo specifico episodio dell’ispezione al casino Gigli, che la professoressa legge come comico episodio di resistenza, sostiene: «L’elenco minuzioso dei mezzi «bellici» in possesso della variopinta pattuglia (il carrozzino tirato da un asino e le pistole antiche dell’avvocato, il moschetto del milite ferroviario, la sigaretta del proprietario, le accette dei mezzadri) è solo apparentemente superfluo. Ottiene in realtà il risultato di far apparire ridicolamente e pateticamente anacronistici quei cinque uomini che, partiti pieni di bellicosi propositi, si troveranno disarmati di fronte all’assoluta indifferenza dei tedeschi avanzanti, tra rombo di motori e nuvole di polvere, in una impenetrabile, marziale indifferenza. Al confronto dei fini che i cinque «eroi» si propongono, l’assenteismo dei contadini di fronte agli avvenimenti storici appare assai più sensato e dignitoso, se non altro perché, mentre questi, pur nella loro ignoranza e passività rivelano una millenaria sapienza: l’abitudine a non stupirsi di nulla e a tutto accettare guerre, catastrofi e lutti con la cupa filosofia della rassegnazione, l’avvocato e i suoi aiutanti non sono spinti da alcuna ragione ideale, ma solo dal proposito di ottenere un risarcimento dei danni subiti».

     . Il confronto col fatto realmente accaduto, a mio avviso, rende evidente perché Scotellaro l’ha rielaborato in chiave comico-farsesca: questa chiave gli serviva per rendere l’episodio funzionale al carattere caricaturale dell’intero racconto della guerra e della liberazione. In questa fase di elaborazione del testo, sull’autore vince il gioco, che a me pare incomprensibile e ingiustificabile, di fare della guerra e della liberazione la caricatura di se stesse.

     Non c’è bisogno di aggiungere altro. Tuttavia rilevo le più grossolane incongruenze. La ritirata tedesca non era disturbata e procedeva ordine teutonico. Non c’erano soldati tedeschi sbandati e, se ci fossero stati, sarebbero stati armati fino ai denti. L’avv. De Maria, dal canto suo, non era così sciocco (nessuno lo sarebbe stato) da pensare di farsi consegnare da questi soldati benzina, armi e munizioni nelle sue condizioni, dall’alto del suo carrozzino trainato da un asinello, con due vecchie pistole di ufficiale d’artiglieria, che peraltro non aveva, con un paio di accette e un moschetto modello 1891, che, parimenti, nessun componente la comitiva portava. Per che cosa? Perché don Tommaso si rifacesse dei danni subiti?

     Concludo tentando di togliermi l’amaro dalla bocca. Occorre tener conto dell’UP per quello che effettivamente è: non un campionario di soluzioni definitive, ma il progetto di un’opera da farsi, «aperta» per eccellenza, semplice «prova» di racconto. La vastità e l’ambizione del disegno generale del libro ( che si può leggere in Rocco Scotellaro, Uno si distrae al bivio, Basilicata editrice, Matera 1974, pp. 95-134), non erano sfuggite a Carlo Levi, che nella prefazione all’edizione del 1954 scriveva che il «romanzo» Rocco non l’avrebbe finito mai, perché quello che aveva cominciato a fare era il racconto della sua vita svolto in dimensione letteraria, era il progetto ambizioso di raccontare tutta la sua vita, quando non si poteva prevedere una vita così breve. Presumibilmente guardando all’ambizione del progetto, avrebbe detto a Rocco che la sua UP era meglio del suo Cristo. Rocco confidò questo giudizio a Antonio Albanese e a me, nella nostra pensioncina napoletana, e aggiunse che esso, “esagerato come al solito”, l’aveva letteralmente bloccato.

   Rocco sicuramente sapeva che ognuno deve imparare ad amare la propria opera non nel suo progetto o disegno che non si realizzerà mai, ma nel suo limitato nascere giorno per giorno. Rocco è morto giovane, quando pochi erano stati i giorni vissuti e dedicati alla sua opera, che pure non si sarebbe realizzata mai. Voglio dire che bisogna fare i conti con l’incompiutezza dell’opera di Scotellaro. Di questa incompiutezza si è molto discusso e su questo blog ho postato il 10 marzo scorso una sintesi della discussione. A essa rimandando, qui osservo semplicemente che l’incompiutezza implica anche una tappa del lavoro di creazione transitoriamente valida, anche se, appallottolata, finisce nel cestino. Franco Vitelli dimostra, riguardo all’inedito di Scotellaro da lui pubblicato nel volume Il granchio e l’aragosta – Studi ai confini della letteratura – Pensa Multimedia, Lecce 2003, pp. 185 ss. «Che lo scritto che si presenti in sé concluso non vuol dire che sia nella forma definitiva. Scotellaro aveva in animo di lavorarci sopra ancora per molto». Sappiamo che per Scotellaro l’UP era il «romanzo» della sua vita, che non avrebbe finito mai. Perché non dobbiamo pensare che egli non si sarebbe ritenuto soddisfatto di trattare il grande tema della posizione delle classi inferiori di fronte alla guerra in una cornice di comicità e che ci sarebbe tornato sopra e ci avrebbe lavorato ancora molto? Perché non dobbiamo e possiamo pensare che questo capitolo VI, unitamente  al capitolo V,  sarebbero finiti nel cestino e che da essi sarebbe germogliata ben altra prova?

     Il bel libro del prof. Nicola De Blasi, ordinario di Storia della lingua italiana all’Università “Federico II” di Napoli, che ho innanzi citato, il primo libro pubblicato nel Sessantesimo della morte di Rocco Scotellaro, prova autorevole della perdurante attualità e validità del poeta di Tricarico, ha come esergo il seguente pensiero di Novalis:

Frammenti così

sono semine di pensieri.

Potranno certo esserci

molti granelli sterili;

purché ne germogli qualcuno.

 

Perché non possiamo e non dobbiamo pensare che la morte precoce e improvvisa abbia impedito a Rocco di lavorare ancora molto su questo capitolo, anzi sui due capitoli V e VI, e renderlo pensiero fruttifero di germogli? Nell’opera sia pure incompiuta delle prove narrative di Rocco Scotellaro non sono molti i granelli sterili. La visione stra-paesana della guerra e della liberazione, a mio avviso, è un germoglio sterile.  

 

Per comodità del lettore, riporto di nuovo il testo del cap. VI:

 

[VI]

 

Or mentre i paesi restavano all’oscuro, a Potenza l’indomani con la luce del giorno si rivedevano a gruppi  per le strade, arrivava il direttore del Museo con le  mani tremanti, dicevano: – Guarda, i morti camminano  _ e lui rispondeva: – Sono vivo per miracolo -; e  gli striscioni proclamavano lo stato d’assedio della città,  e un colonnello si uccideva o l’uccisero, le case erano  alberi sotto il vento e facevano paura più loro del  cimitero e il largo stesso della campagna infido, da  dove sarebbero giunti altri soldati e bandiere e divise  e faccie, e giunsero e tutto parve, l’accaduto e le morti,  un sogno brutto per noi che restammo.

     Al paese arrivavano ogni giorno soldati con le barbe, dicevano: – Rinfresco di casa mia – e si buttavano  sui letti.

Al casino più bello di campagna, a due piani, in  mezzo a un mandorleto giovane, si arrivava dalla rotabile per un viale tra i cordoni di mortella. O che si sentirono il fracasso dei piatti e il suono del vecchio grammofono o che il padrone fosse irresistibilmente  chiamato al balcone di casa sua, subito l’indomani si  seppe che il casino era stato visitato dai tedeschi di  passaggio. Allora fu l’avvocato a dire il suo piano,  ché lo accompagnassero sul posto uomini armati per  tentare di riavere contro i danni e la ruberia, armi e  munizioni e benzina. Con la benzina poteva rifarsi.  L’avvocato viaggiava in carrozzino tirato da un asino,  le due pistole antiche di cavalleria, una a destra una  a sinistra, e il giovane milite ferroviario col suo moschetto, il padrone con la sigaretta in bocca e i due  mezzadri con le accette che avevano. Un chilometro  di strada, un chilometro di propositi fieri di vendetta:  – Sono dei giovinastri isolati, sono gli ultimi, li afferreremo.

Ma ecco una chiacchiera di motori si senti lontana.

Forse scappavano sempre verso su: – Avanti, presto  – gridava l’avvocato. I motori erano sempre meno  lontani, non era un giuoco del vento, i tedeschi tornavano indietro.

All’altezza del casino, in curva, la pattuglia dell’avvocato si fermò, le motociclette dei tedeschi sbucarono  in processione: polvere all’avvocato e alla comitiva,  afflitta al cancello del casino. All’arrivo dei camion  l’avvocato non ne poté più, levò tutt’e due le braccia  gridando: -Heil Hitler! – e poiché quelli non gli  risposero, lui continuò, benché sfiduciato e in tono  minore, il suo grido. Che non avrebbe fatto per ricerverne una risposta, almeno di una mano aperta e chiusa! Aveva una maschera in faccia desolata e con quella – come issata alla punta del bastone – chiedeva sostegno agli altri, che, poveretti, erano nelle sue mani.  Così erano umili le case del paese dietro la collina,  pronte a chinare porte e finestre ai temporali. Erano  solo una nube questi tedeschi o la schiera di gru  che portano l’anno buono e il cattivo e fanno alzare  gli occhi da terra, questo fanno. Infine l’avvocato lanciò  il suo cappello all’ultimo motociclista: rimase fisso  quanto poté a vedere il fumo del tubo di scappamento  che gli parve una risposta, così cruda da svegliarlo.

Il 18 settembre venne una giornata fresca e l’aria  una pagina bianca. Potevano essere le dieci del mattino,  l’ora della contentezza del mondo, ognuno si è istradato, nel paese e fuori in campagna e oltre le montagne.

Sarebbero giunti gl’inglesi, le donne e i piazzaiuoli  dovevano essere poche centinaia, stettero a guardare  la rotabile verso la Serra, il sole che sorgeva di là  alle dieci si era spostato sul Basento. I contadini erano  scesi in campagna approfittando della sicurezza che  la guerra finiva. Come mai quelle poche centinaia di  donne e di piazzaiuoli: c’erano i preti, i commercianti,  gli artigiani, gli studenti erano così giulivi, le loro  mani erano pronte a scattare in applausi la loro bocca  a gridare «viva»? Quei preparativi, quell’attesa sono  così rari: per Nitti e Ianfolla ai tempi delle elezioni,  per il vescovo che venne sul cavallo bianco, per il  Dottore che tornò dal confino, poi per Mussolini che  si prese in braccio il figlio d’un capitano caduto, lo  baciò, lo dette nelle braccia d’un altro, rientrò in macchina mentre Starace prendeva a pugni l’esattore che  voleva avvicinarsi  in un impeto di affetto patriottico,  sicché tutta la folla dietro i cordoni smise di gridare.

Va così: il podestà e il vice avevano – per interposte persone – trattato l’avvenimento dell’arrivo, la  sera prima. Fino a quel momento – tra il passo e spasso dei tedeschi – quando anche il maresciallo aveva  detto a Carminella, la padrona della trattoria: – Fammi  stare qua -, si era spogliato, perché ci sono i tedeschi  in piazza – il podestà e il vice avevano passato i  guai loro.

C’era gente che girava prendendo i nomi di Mastro  Innocenzo e di chi era stato in America, di qualche  giovane dalla testa calda di mastro Innocenzo.

– Vengono? – s’informava il vice. – Vengono –  gli risposero – i tedeschi di nuovo.

Corse a chiamare il Messo perché aprisse il Municipio: – Là è nascosto, incartalo bene, mettilo in  un cesto. – Fece rimettere a posto il ritratto di Mussolini, accanto a quello del Re. Dopo tutto pareva  meglio la parete, col crocefisso di stucco in mezzo.

La sera prima venne il fiorentino che teneva lo  spaccio alla stazione e gli disse: – Vedi che gl’inglesi  vengono domani. – Il Vice richiamò il Messo: – E  quello dobbiamo lasciarlo? – gli chiese il Messo-  puntando il Re – Non pare brutta la parete?

Il Vice: – Già per coprire quel bianco. Non abbiamo una madonna, un Cristoforo Colombo?

Il Messo: – Abbiamo della stessa grandezza, tra  le carte, un altro Re.

Fecero le prove, andava benissimo Vittorio Emanuele secondo, e lo misero.

Mandarono il bando: «Domani mattina alle dieci,  tutti in piazza, ché vengono gl’inglesi».

Alla porta del Monte il podestà e il vice furono  fatti montare sulla jeep del capitano canadese, da dove  troneggiavano, in piazza, battendo le mani, e gridando  alla piccola folla: – E che fate? Forza, battete le mani  – uno da una parte, il vice dall’altra.

Si alzò dalla sedia del Lotto l’avvocato antifascista,  alto, bianco e rosso, col suo cappello a falde alla moda  di venti anni prima e nel gazzabuglio delle donne che paravano i senali, dei bimbi che coglievano i cioccolati come allo sposalizio togliendosi il cappello, levandolo alto, l’avvocato gridò: – Viva l’Italia! – e si risedette.

Gli risposero tutti tacendo, freddi nelle guancie, tutti parlarono di questo freddo poi; il capitano che  spinse la jeep nella bella piazza con le selci che luccicavano come l’aria delle dieci, lanciò altre manate  di regali. I bambini e le donne si pestavano per terra  a cogliere, gli studenti erano rimasti dall’avvocato, si  vide un terzo gruppo giostrare, dietro i bambini e le  donne. Scendendo dal corso, a passi di cavallo, sprofumato Don Enrico si avvicinò a quel gruppo. A un  tratto: – Eccolo – gridò tanto forte che il capitano e  tutti si voltarono a lui. E lui così coperto di sguardi,  si mosse tra la folla verso un uomo: Prese il Segretario  del fascio alla gola, lo tenne quanto tutti lo avessero  visto e allora gli tirò uno schiaffo; come un lampo  ruppe la folla e si diresse alla jeep, indicando l’uomo  che aveva percosso: ma non successe niente, perché  non c’era uno che non sapeva il significato di quel gesto.

La jeep mosse balzellando il muso, Don Enrico avanti con il lungo dito a far segnale, la folla si dimezzò, qualche trenta persone andarono dietro e rimasero giù, sotto il portone di Don Enrico, che aveva  già la tavola pronta per il capitano, il podestà, il vice e gli altri canadesi.

 

 

 

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