Nella parte finale del cap. VI Scotellaro racconta la liberazione di Tricarico vista in chiave eroicomica, continuando a perseguire la presentazione della storia dal punto di vista delle “classi inferiori”. Nel precedente post, al quale rinvio, ho riferito il punto di vista della prof. Salina Borello e le mie perplessità. Il resto del commento della docente di Regensburg è una acuta analisi linguistica del testo, che qui posso omettere di copiare.

   Tricarico fu “liberata” la mattina del 18 settembre 1943, alle dieci circa, da due giovani militari canadesi, un capitano trentenne e un soldato poco più che ventenne. Il ricordo di quella “storica” mattina è rimasto impresso come un film nella mia mente e l’ho raccontato su questo .blog i il 10.02.2011. Anche nel mio ricordo non mancano episodi comici, uno dei quali mi piace riportare in coda a questo commento al racconto scotellariano.

   Scotellaro mette in evidenza che alla “liberazione” assistettero i soliti “piazzaiuoli” e mancavano i contadini.

 

 Come mai quelle poche centinaia di donne e di piazzaiuoli: c’erano i preti, i commercianti, gli artigiani, gli studenti, erano casi giulivi, le loro mani erano pronte a scattare in applausi, la loro bocca a gridare «viva »> Quei preparativi, quell’attesa sono casi rari: per Nitti e Ianfolla ai tempi delle elezioni, per il vescovo che venne sul cavallo bianco, per il Dottore che tornò dal confino, poi per Mussolini che si prese in braccio il figlio d’un capitano caduto, lo baciò, lo dette nelle braccia d’un altro, rientrò in macchina mentre Starace prendeva a pugni l’esattore che voleva avvicinarsi in un impeto d’affetto patriottico sicché tutta la folla dietro i cordoni smise di gridare.

 

     Scotellaro vede la liberazione comeuna specie di sposalizio, cui tutti partecipano, donne, bambini ed autorità, con lo stesso delirante entusiasmo e con la stessa sostanziale indifferenza con cui avevano salutato l’arrivo di Nitti e Ianfolla, del dottore tornato dal confino, di Mussolini e del vescovo.

     Al tripudio generale mancano, come sempre, i contadini, per cui la liberazione – scrive la prof. Salina Borello – non significa altro che la possibilità di ritornare ai campi senza paura:

 

I contadini erano scesi in campagna approfittando della sicurezza che la guerra finiva.

 

     Apro una parentesi per essenziali informazioni sui personaggi citati.

     Francesco Saverio Nitti e Vincenzo Janfolla erano illustri parlamentari lucani eletti nella circoscrizione della Basilicata. Voglio sperare che sia ancora vivo il ricordo di Nitti, gloriosa figura di lucano e di italiano. Insigne economista, Nitti è stato professore universitario di scienza delle finanze, autore di un pregevole manuale di questa materia adottato in tutte le università e sul quale ho avuto il piacere e la fortuna di affinare la mia preparazione. Deputato in varie legislature e presidente del consiglio dei ministri, antifascista, fu il primo politico a recarsi in esilio a Parigi. Ristabilite le libertà democratiche, è stato membro dell’Assemblea costituente e senatore. Come capo del governo affrontò la riforma elettorale, la questione fiumana e le trattative di pace di Parigi.

Vincenzo Janfolla, nato a Potenza,. è stato professore universitario di diritto e parlamentare eletto nella circoscrizione della Basilicata. Avverso al fascismo, rinunciò alla vita politica e si dedicò alla professione di avvocato a Napoli. La sua oratoria avvolgente lo vide tra i grandi principi del foro napoletano. Ricordo che il senatore Schiavone, incontrato l’on. Colombo, si complimentò vivamente con lui per un discorso che qualche giorno prima aveva tenuto al Senato. «Mi hai commosso – disse – mi è parso di risentire Janfolla”. Janfolla è morto a Potenza il 9 settembre 1943 per un beffardo gioco del destino. Per sfuggire ai bombardamenti, che si erano intensificati con particolare virulenza su Napoli nell’estate del 1943, avendo di mira anche obiettivi civili, Janfolla pensò di rifugiarsi con la famiglia nella sua casa di campagna di Potenza, che fu rasa al suolo nel corso del secondo bombardamento della mattina del 9 settembre. Janfolla rimase ucciso sotto le macerie.

Il «dottore tornato dal confino» è il dott. Italo Bruno, detto don Ettore Bruno.

Nell’estate del 1936 Mussolini visitò la Basilicata. Fece una sosta ai Cappuccini per ricevere il saluto delle autorità e l’omaggio entusiasta della popolazione. Pierino Biscardi, nipote del colonnello Sanseverino, grande invalido di guerra e, se non sbaglio, allora segretario del fascio locale, fu scelto per consegnare un mazzo di fiori al duce. Mussolini lo cinse ai fianchi, lo sollevò e gli stampò un bacio in fronte.

     Scotellaro racconta anche che, mentre Mussolini rientrava in macchina, Starace prendeva a pugni l’esattore, che, in un impeto di affetto patriottico, cercava di avvicinarsi al duce. L’esattore si chiamava don Pasquale Bianchi ed è stato titolare della esattoria comunale di Tricarico per oltre un trentennio. Starace (Achille) era il segretario nazionale del partito fascista.

     Il vescovo è mons. Raffaello Delle Nocche: Scotellaro allude al suo ingresso a Tricarico, per prendere possesso della diocesi alla quale rimarrà fedele per un quarantennio, fino alla sua morte.

 

Ma anche per le autorità civili del paese, la guerra e la liberazione non si riducono a nient’altro che ad una sostituzione di quadri sulla parete, a seconda che si aspetti l’arrivo dei Tedeschi o degli «Inglesi»:

 

– Vengono? s’informava il vice. – Vengono – gli risposero – i tedeschi di nuovo.

Corse a chiamare il messo perché aprisse il Municipio: – Là è nascosto, incartalo bene, mettilo in un cesto – Fece rimettere a posto il ritratto di Mussolini, accanto a quello del Re. Dopo tutto pareva meglio la parete, col crocefisso di stucco in mezzo. La sera prima venne il fiorentino che teneva lo spaccio alla stazione e gli disse: – Vedi che gli inglesi vengono domani – Il vice richiamò il messo: – E quello dobbiamo lasciarlo? – gli chiese il messo, puntando il Re. – Non pare brutta la parete?

Il vice: – Già per coprire quel bianco. Non abbiamo una madonna, un Cristoforo Colombo?

Il messo: – Abbiamo della stessa grandezza, tra le carte, un altro Re.

Fecero le prove, andava benissimo Vittorio Emanuele secondo, e lo misero.           

Mandarono il bando: «Domani mattina alle dieci, tutti in piazza, ché vengono gl’inglesi».

 

In conclusione, nei capitoli sulla guerra e la liberazione, abbiamo potuto osservare che nel racconto di Scotellaro venga fuori – nettissima, schiacciante – la sproporzione tra la portata di avvenimenti come la guerra e la liberazione e la loro riduzione a formato paesano. La Storia è costretta entro i limiti della cronaca spicciola, che non manca di rendere omaggio all’avvocato antifascista e di rivolgere una pungente ironia al padrone,

 

Si alzò dalla sedia del Lotto l’avvocato antifascista, alto, bianco e rosso, col suo cappello a falde alla moda di venti anni prima e nel gazzabuglio delle donne che paravano i senali, dei bimbi che coglievano i cioccolati come allo sposalizio togliendosi il cappello, levandolo alto, l’avvocato gridò: – Viva l’Italia! – e si risedette.

     L’«avvocato antifascista» era Grobert, esponente del P:R.I. di Pozzuoli, passato al partito d’azione, che, alla caduta del fascismo si trovava al confino a Tricarico. Oramai libero, si fermò a Tricarico dove esercitò attività politica in unità d’azione col partito socialista e col partito comunista, e la professione di avvocato. Lasciò Tricarico improvvisamente perché – si sparse questa voce – era stato nominato prefetto di Latina, ma io ho potuto successivamente accertare che la prefettura di Latina non è stata mai retta da un prefetto chiamato Grobert. Si è anche saputo che, rientrato a Pozzuoli, l’avv. Grobert tornò tra le fila del P.R.I.

Scendendo dal corso, a passi di cavallo, sprofumato Don Enrico si avvicinò a quel gruppo. A un tratto: – Eccolo – gridò tanto forte che il capitano e tutti si voltarono a lui. E lui così coperto di sguardi, si mosse tra la folla verso un uomo: Prese il Segretario del fascio alla gola, lo tenne quanto tutti lo avessero visto e allora gli tirò uno schiaffo; come un lampo ruppe la folla e si diresse alla jeep, indicando l’uomo che aveva percosso: ma non successe niente, perché non c’era uno che non sapeva il significato di quel gesto.

La jeep mosse balzellando il muso, Don Enrico avanti con il lungo dito a far segnale, la folla si dimezzò, qualche trenta persone andarono dietro e rimasero giù, sotto il portone di Don Enrico, che aveva già la tavola pronta per il capitano, il podestà, il vice e gli altri canadesi.

 

     Don Enrico fu individuato in don Peppe Santoro, fratello dell’avv. Giovanni Santoro, patrigno dell’archistar prof. Amerigo Restucci, rettore dell’istituto universitario di architettura di Venezia (forse il più noto a Tricarico di una numerosa discendenza), perché era stato visto, tra la folla accorsa in piazza a salutare i “liberatori” o a curiosare, avere un alterco, del quale anch’io fui spettatore, con Alfredo Toscano. Scotellaro scrive che don Enrico prese alla gola il segretario del fascio, ma io ricordo che l’ulimo segretario del fascio di Tricarico è stato il maestro Settimio Massaioli. Alfredo Toscano è stato il segretario del fascio “storico” di Tricarico. Combattente in Grecia subì una mutilazione alla mano ed è stato l’unico fascista tricaricese a pagare duramente con l’epurazione la sua militanza fascista. Rimasto senza lavoro, mise a frutto la sua maturità classica, che aveva conseguita col diploma magistrale, si laureò in giurisprudenza e, intrapresa la carriera di funzionario della pubblica istruzione, la concluse come provveditore agli studi.  

 

Postilla

Riporto ora, in corsivo, il pezzo “comico” del mio racconto di quell’evento, nonché il testo completo del VI capitolo dell’Uva puttanella. .

 

Il capitano si diresse verso la piazza, si fece un giro per via Roma e quindi si avviò verso il corso. Lo seguiva un corteo, del quale facevo parte anch’io. Giunto davanti alla barberia di mast’Andrea Sellitti il capitano fece il gesto di volersi radere. Nella barberia c’era un apprendista di mast’Andrea, che fece accomodare il capitano e cominciò a insaponarlo. Il corteo gli era accalcato attorno, tutti coi colli allungati. Il capitano osservava con aria incredula perplessa smarrita e divertita. Qualcuno, a un certo momento, ebbe la geniale idea: «Suoniamogli la Canzone del Piave», convinto, come eravamo tutti, che il giovane capitano, che veniva dal Canada!, non potesse non conoscere la canzone del Piave e avrebbe capito che eravamo stati alleati nella prima guerra mondiale, che avevamo vinto assieme. Ma come suonarla la canzone del Piave? C’era solo uno che sapeva suonare il trombone. I barbieri e i calzolai suonavano nella banda musicale locale e, quindi, nella barberia di mast’Andrea c’era uno strumento, ma non il trombone. Qualcuno si ricordò che il trombone lo suonava il figlio di mast’Innocenzo Bertoldo, che aveva bottega proprio di fronte alla bottega di mast’Andrea. In un battibaleno il trombone arrivò e il nostro musicista prese a cavare le note della gloriosa Canzone. Tutti noi commossi accompagnavamo col nostro canto stonato.

Il capitano capì ben poco di quel trambusto e non potette capire che stupidata era stata la nostra geniale pensata, e fu un peccato, perché i suoi nipoti, a loro volta, questa storia la racconterebbero ancora ai loro nipoti in Canada.

 

[VI]

Or mentre i paesi restavano all’oscuro, a Potenza l’indomani con la luce del giorno si rivedevano a gruppi per le strade, arrivava il direttore del Museo con le mani tremanti, dicevano: – Guarda, i morti camminano _ e lui rispondeva: – Sono vivo per miracolo -; e gli striscioni proclamavano lo stato d’assedio della città, e un colonnello si uccideva o l’uccisero, le case erano alberi sotto il vento e facevano paura più loro del cimitero e il largo stesso della campagna infido, da dove sarebbero giunti altri soldati e bandiere e divise e faccie, e giunsero e tutto parve, l’accaduto e le morti, un sogno brutto per noi che restammo.

   Al paese arrivavano ogni giorno soldati con le barbe, dicevano: – Rinfresco di casa mia – e si buttavano sui letti.

Al casino più bello di campagna, a due piani, in mezzo a un mandorleto giovane, si arrivava dalla rotabile per un viale tra i cordoni di mortella. O che si sentirono il fracasso dei piatti e il suono del vecchio grammofono o che il padrone fosse irresistibilmente chiamato al balcone di casa sua, subito l’indomani si seppe che il casino era stato visitato dai tedeschi di passaggio. Allora fu l’avvocato a dire il suo piano, ché lo accompagnassero sul posto uomini armati per tentare di riavere contro i danni e la ruberia, armi e munizioni e benzina. Con la benzina poteva rifarsi. L’avvocato viaggiava in carrozzino tirato da un asino, le due pistole antiche di cavalleria, una a destra una a sinistra, e il giovane milite ferroviario col suo moschetto, il padrone con la sigaretta in bocca e i due mezzadri con le accette che avevano. Un chilometro di strada, un chilometro di propositi fieri di vendetta: – Sono dei giovinastri isolati, sono gli ultimi, li afferreremo.

Ma ecco una chiacchiera di motori si senti lontana.

Forse scappavano sempre verso su: – Avanti, presto – gridava l’avvocato. I motori erano sempre meno lontani, non era un giuoco del vento, i tedeschi tornavano indietro.

All’altezza del casino, in curva, la pattuglia dell’avvocato si fermò, le motociclette dei tedeschi sbucarono in processione: polvere all’avvocato e alla comitiva, afflitta al cancello del casino. All’arrivo dei camion l’avvocato non ne poté più, levò tutt’e due le braccia gridando: -Heil Hitler! – e poiché quelli non gli risposero, lui continuò, benché sfiduciato e in tono minore, il suo grido. Che non avrebbe fatto per ricerverne una risposta, almeno di una mano aperta e chiusa! Aveva una maschera in faccia desolata e con quella – come issata alla punta del bastone – chiedeva sostegno agli altri, che, poveretti, erano nelle sue mani. Così erano umili le case del paese dietro la collina, pronte a chinare porte e finestre ai temporali. Erano solo una nube questi tedeschi o la schiera di gru che portano l’anno buono e il cattivo e fanno alzare gli occhi da terra, questo fanno. Infine l’avvocato lanciò il suo cappello all’ultimo motociclista: rimase fisso quanto poté a vedere il fumo del tubo di scappamento che gli parve una risposta, così cruda da svegliarlo.

Il 18 settembre venne una giornata fresca e l’aria una pagina bianca. Potevano essere le dieci del mattino, l’ora della contentezza del mondo, ognuno si è istradato, nel paese e fuori in campagna e oltre le montagne.

Sarebbero giunti gl’inglesi, le donne e i piazzaiuoli dovevano essere poche centinaia, stettero a guardare la rotabile verso la Serra, il sole che sorgeva di là alle dieci si era spostato sul Basento. I contadini erano scesi in campagna approfittando della sicurezza che la guerra finiva. Come mai quelle poche centinaia di donne e di piazzaiuoli: c’erano i preti, i commercianti, gli artigiani, gli studenti erano così giulivi, le loro mani erano pronte a scattare in applausi la loro bocca a gridare «viva»? Quei preparativi, quell’attesa sono così rari: per Nitti e Ianfolla ai tempi delle elezioni, per il vescovo che venne sul cavallo bianco, per il Dottore che tornò dal confino, poi per Mussolini che si prese in braccio il figlio d’un capitano caduto, lo baciò, lo dette nelle braccia d’un altro, rientrò in macchina mentre Starace prendeva a pugni l’esattore che voleva avvicinarsi in un impeto di affetto patriottico, sicché tutta la folla dietro i cordoni smise di gridare.

Va così: il podestà e il vice avevano – per interposte persone – trattato l’avvenimento dell’arrivo, la sera prima. Fino a quel momento – tra il passo e spasso dei tedeschi – quando anche il maresciallo aveva detto a Carminella, la padrona della trattoria: – Fammi stare qua -, si era spogliato, perché ci sono i tedeschi in piazza – il podestà e il vice avevano passato i guai loro.

C’era gente che girava prendendo i nomi di Mastro Innocenzo e di chi era stato in America, di qualche giovane dalla testa calda di mastro Innocenzo.

– Vengono? – s’informava il vice. – Vengono – gli risposero – i tedeschi di nuovo.

Corse a chiamare il Messo perché aprisse il Municipio: – Là è nascosto, incartalo bene, mettilo in un cesto. – Fece rimettere a posto il ritratto di Mussolini, accanto a quello del Re. Dopo tutto pareva meglio la parete, col crocefisso di stucco in mezzo.

La sera prima venne il fiorentino che teneva lo spaccio alla stazione e gli disse: – Vedi che gl’inglesi vengono domani. – Il Vice richiamò il Messo: – E quello dobbiamo lasciarlo? – gli chiese il Messo- puntando il Re – Non pare brutta la parete?

Il Vice: – Già per coprire quel bianco. Non abbiamo una madonna, un Cristoforo Colombo?

Il Messo: – Abbiamo della stessa grandezza, tra le carte, un altro Re.

Fecero le prove, andava benissimo Vittorio Emanuele secondo, e lo misero.

Mandarono il bando: «Domani mattina alle dieci, tutti in piazza, ché vengono gl’inglesi».

Alla porta del Monte il podestà e il vice furono fatti montare sulla jeep del capitano canadese, da dove troneggiavano, in piazza, battendo le mani, e gridando alla piccola folla: – E che fate? Forza, battete le mani – uno da una parte, il vice dall’altra.

Si alzò dalla sedia del Lotto l’avvocato antifascista, alto, bianco e rosso, col suo cappello a falde alla moda di venti anni prima e nel gazzabuglio delle donne che paravano i senali, dei bimbi che coglievano i cioccolati come allo sposalizio togliendosi il cappello, levandolo alto, l’avvocato gridò: – Viva l’Italia! – e si risedette.

Gli risposero tutti tacendo, freddi nelle guancie, tutti parlarono di questo freddo poi; il capitano che spinse la jeep nella bella piazza con le selci che luccicavano come l’aria delle dieci, lanciò altre manate di regali. I bambini e le donne si pestavano per terra a cogliere, gli studenti erano rimasti dall’avvocato, si vide un terzo gruppo giostrare, dietro i bambini e le donne. Scendendo dal corso, a passi di cavallo, sprofumato Don Enrico si avvicinò a quel gruppo. A un tratto: – Eccolo – gridò tanto forte che il capitano e tutti si voltarono a lui. E lui così coperto di sguardi, si mosse tra la folla verso un uomo: Prese il Segretario del fascio alla gola, lo tenne quanto tutti lo avessero visto e allora gli tirò uno schiaffo; come un lampo ruppe la folla e si diresse alla jeep, indicando l’uomo che aveva percosso: ma non successe niente, perché non c’era uno che non sapeva il significato di quel gesto.

La jeep mosse balzellando il muso, Don Enrico avanti con il lungo dito a far segnale, la folla si dimezzò, qualche trenta persone andarono dietro e rimasero giù, sotto il portone di Don Enrico, che aveva già la tavola pronta per il capitano, il podestà, il vice e gli altri canadesi.

 

 

 

Comments are closed.