Il settimo capitolo , che conclude la seconda parte dell’Uva puttanella, è una delicata e malinconica pagina di lessico familiare. Ogni commento turberebbe la lettura di questa pagina – alla quale rimando -, che, pur limitata, trasmette significati universali.

 

[VII]

 

Mia sorella era venuta la penultima volta con il figlio  piccolo in maggio, con suo marito dell’esercito, col  suo suocero infermiere: la comitiva che più poté rallegrare il padre nostro, rimasto silenzioso nella bottega vuota a vendere il solo petrolio. Scarpe niente più,  la suola era bloccata e altri generi non convenivano  per le tasse, aveva tentato una mezza chiusura per  manovrare meglio le trattative col procuratore delle  Imposte. E nemmeno più viaggi a Napoli – dopo  l’ultimo: erano suonate le sirene alla stazione, gli dissero di correre, lo costrinsero a scendere nella galleria  di piazza Garibaldi, si trovò in mezzo a un torrente  di folla che scappava dai marciapiedi, per le gradinate,  verso la galleria. Aveva i suoi bagagli di merce, non  li avrebbe lasciati nel treno, potesse anche morirci  accanto e allora cadde a terra e dovette sognare a  lungo un bel sogno se si trovò di lì a poco ricoverato  all’ospedale. Venne l’indomani la principessa del principino con la borsa. Chiedeva ai malati, ai feriti di  che avessero bisogno. Mio padre le rispose «Avvertite  a casa che sto bene» dando l’indirizzo e difatti mia  madre ebbe un telegramma della cui straordinaria cortesia non seppe darsi ragione «Sto bene arrivederci a  presto baci».

Trafficarono per lui – da quella volta – i discepoli,  ma andò male ugualmente perché un carico di suola  rimase lungo le rotaie. Tutti i risparmi e i guadagni  abbisognarono per quel carico, tutto andò perduto.  Poi vendette a una vecchia cliente e comara un paio  di scarpe con dieci lire in più sul prezzo della Federazione, si misero in mezzo le spie e lo incarcerarono  per alcuni giorni. Subito dopo era venuta la comitiva  di mia sorella una sera, l’ultima della sua melanconia,  l’ultima festa della sua vita. All’infermiere diceva: _  Avanti, San Francesco! – invitandolo a bere ancora.  Lui non s’ubriacava mai, gli occhi si facevano spilli  ed erano rossi. La notte si sentì male, l’infermiere  viterbese menò una canfora che lo fece campare fino  all’indomani. L’indomani sarebbero andati alla vigna, avrebbero telegrafato a me e al fratello del dazio per una festa, ma mi telegrafarono in tempo, il giorno  dell’Ascensione, per rivedere la casa urlante, piena di  gente e mio padre era già in campagna, l’avevano portato di giorno al cimitero, non l’avrei neanche più  visto, non si poteva scoperchiare.

Ce ne andammo dal paese tutti i figli chi vicino,  chi lontano, con lo stesso treno verso Potenza. Mia  madre rimase in compagnia della prima figlia, che non  faceva altro: – Rocco e papà, papà e Rocco.

Rocco, il marito, non scriveva dalla Grecia da un  anno e mezzo, ora la veste a lutto la porta che sono  dieci anni per l’uno e per l’altro.

La bottega a 20 passi da casa, sull’altra parete  della strada restò chiusa, era una delle poche ad avere  la saracinesca di ferro corrugato, col bastoncino la facevamo stridere la notte io e i compagni miei: guai  se gli altri si azzardavano – anche i grandi – ritirandosi  la notte, con un litro giusto in gola, viene la voglia  dei giuochi dei bambini.

Sentivo stridere a notte la saracinesca a lungo. Nel frattempo – prima di svegliarmi – risucchiavo la  bella scena del padre ubriaco che litigò con mia madre,  scese dal letto in camicia, disse che l’abbandonava,  prese con sé il vaso da notte: – Questo è mio! -, e  uscì fuori dirigendosi alla bottega. Lo videro Donna  Irene e la serva che godevano al balconcino il fresco  di mezzanotte. Ma invano lo chiamarono e ridevano.  La strada è un corridoio, due metri larga, mio padre  era nel suo, da casa a bottega, nel corridoio. Solenne  reggeva il vaso, proprio Donna Irene aveva poco da  dire, lei cui piacevano le grazie di mio padre e le  frasi piccanti che egli scambiava con i contadini del  vicinato. Pietro l’ortolano, un’altra mezzanotte con lo  stesso fresco, aveva rotto il silenzio alzando una gamba  dal gradino e sospirando consolato. Mio padre seriamente gli aveva detto: – Salute – e seriamente Pietro  aveva risposto: – Grazie -, quando Donna Irene s’infuriò, sbatté la sedia sulla soglia dal balconcino gridando: – Ma cafoni, un po’ di educazione!

– Che volete da me? – disse Pietro – Ho soddisfatto il mio corpo.

Il vaso per mio padre era un’ossessione da quando  – dopo il pezzo d’opera suonato in piazza – s’erano  coricati tutti i bandisti, una trentina, in un camerone  di Campomaggiore. Sentì il bisogno di uscir fuori a  orinare e palpò le pareti, la finestra e forse anche la  porta; fatto era a vino e con quel bisogno ogni minuto  intollerabile, trova sotto mano la capigliatura del tamburo, la rovista, ficca il pollice nell’orecchio e crede  al vaso e si soddisfa: il tamburo era il muratore, grosso  di corpo, aveva un padiglione più aperto dell’altro.  Non si svegliò: – E Vincenzo, che fai? – credeva di  sentirsi dire mio padre. E mio padre gli rispondeva:  – Non ne posso più. Resisto a tutto, ma non alla  vescica.

 

 

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