Tutta la parte terza dell’UP è riempita dell’esperienza del carcere. Sono dieci capitoli che raccontano una realtà sofferta, che intendo far emergere lasciando ampio se non esclusivo spazio al racconto di Rocco.

     La descrizione del carcere è realistica. L’angustia dei locali, le carenze igieniche e le brutture d’ogni sorta, quasi rinviano al crimine.

 

Se ti fai la barba e ti pulisci, mi dicevano la mattina, non serve che stai in galera. E infatti ci pulivamo anche troppo e avevamo la faccia dei seminaristi. La galera è una scuola, insegna l’uomo e lo rinvia al crimine, dicevano.

     Sono condizioni che sembrano confermare – come nota G.B. Bronzini nella tante volte citata sua opera L’universo contadino e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro, p. 145 s. – la Relazione al Re sulle carceri di Matera del 1795 di Giuseppe Maria Galanti. Le carceri di Trani, a cui si paragonano le carceri di Matera nel canto dei carcerati dopo mangiato, erano le più aborrite nella circoscrizione giudiziaria di Puglia e Basilicata.

Carceri di Trani

Tribunale di Matera.

Sti carceri non sapevo

che erano così:

 

tre acini di pasta

e brodo a coppini

st’infami assassini

ci fanno morir.

 

Carceri di Trani

Tribunale di Potenza:

chi piange e chi pensa.

Chi pensa a lavorar.

 

       Pubblico il primo dei dieci capitoli della Parte terza.Vi compaioni i compagni di Rocco: Giappone, Chiellino, Pasciucco, Fascina, Vasco Bartolomeo, Cinodoce, Spio.

 

 

Parte terza

 

[I]

 

Giocavamo alle carte, era proibito: quelle della 2Camerata preparavano i cartoncini, noi li rivestivamo a  uno a uno con la carta dei pacchetti di trinciato comune, il capo calzolaio faceva i disegni delle donne  e dei Re, e Giappone i cavalli.

C’erano i quattro pali regolari e i denari facevano  la stessa impressione delle carte vere. A compagni si  giocava a scopa e a briscola, la coppia perdente si  levava dalla branda e con un gesto: le mani sulle  orecchie, diceva all’altra: – Siete i maestri nostri.

La vittoria consisteva poi nell’essere portato a cavallo per la camerata dal perditore.

Nel carcere significavano una vera sconfitta quelle  parole, dette a malincuore. Oltre la finestra in fondo  cera la balaustrata dei pini, le pancie dei passeri si confondevano con i pinoli, la guardia di Potenza, grassa  e cascante, come una femmina prena, faceva la calza  quand’era di guardia – nella garitta sotto il muro  di cinta. La moglie diceva in giro e lo sapevamo anche  noi: – Che marito santo che tengo! Nicola mio! –  In casa lo guardava lavare i panni col sedere a poppa.

Se ti fai la barba e ti pulisci, mi dicevano la mattina,  non serve che stai in galera. E infatti ci pulivamo anche troppo e avevamo la faccia dei seminaristi. La  galera è una scuola, insegna l’uomo e lo rinvia al  crimine, dicevano.

Di mattinata è Chiellino, balza dalla branda il primo, fa ginnastica e percorre i pochi passi fino al gabinetto, nell’angolo, aperto sopra, è un pulpito con  l’entrata avanti dove si mette le coperta, per porta,  quando l’occupiamo. Chiellino inizia la giornata e quei  passi – atletico, alto è lui – sono la sua andatura  normale della libertà dove si leva per correre al lavoro,  in bicicletta, nelle aziende del Metapontino.

Anche in bicicletta – in quelle discese da Pisticci  – le curve se le prende la ruota, mentre lui assaggia  l’aria e si riempie la gola e dorme l’altro sogno dell’aria  mattutina.

L’uomo povero dio l’aiuta, nasce povero e muore  cornuto. Ha detto, ma poi si è scosso e con lo straccio  si è buttato a terra per fare specchiare il pavimento  grigio di cemento. Accorriamo al pulpito con l’asciugamano e il sapone e le schede della Sisal che la  Direzione ci passa per carta igienica.

Giappone fischia e canta, egli è il capo di noi, ci  guarda con un filo d’occhio mentre gli sistemiamo la  sua tra le nostre brande, che, ripiegate, allargano la  pista per muoverci.

– All’isca, a grilli! – è Pasciucco che si sveglia  mentre aprono la porta esterna e si fa vedere lo scopino  della banda di Bernalda, che ci dà il buon giorno.  Pasciucco uccise la moglie con non ricorda quante  coltellate, rimpiange di non essersi dato all’abigeato  prima di farsi prendere dalla stizza perché sua moglie,  serva, lo tradiva col padrone.

– Sta zitto – gli rimprovera Fucina – hai pure il  coraggio?

– lo non ho rubato a nessuno.

– E io non ho ucciso, sapessi rubare!

_ All’isca, a grilli! – ripete Pasciucco il grido degli  abigeatari dopo il colpo e sorride con tristezza, salta  finché gli badiamo e poi torna alla sua branda.

Il barbiere, Vasco Bartolomeo, che è tra i liberi,  scorazza sulla loggiata: vedendolo al nostro cancello  grida tutta la camerata e lui salta come una capra,  capraio era a libertà, anzi Presidente dei caprai di un paese delle Puglie.

Giappone ci tiene perché gli gridiamo contro, così accorrono le guardie per niente.

Suonano le campane: – Tira a chi ti tira; campana, tira a chi ti tira.

Arriva la caldaia del caffè, – lo avesse mia moglie  _ fa Chiellino … Quando lui era a casa, va bene disoccupato o guadagnava così poco, ma i primi frutti,  avesse o no danaro, li sapeva procurare per moglie e  figli. Tra quanti se ne perdevano che rappresentavano  un crocchio di nespole, un fazzoletto di ciliege, tre arance, un tascapane di fave?

Se il cane si arrabbiava oltre il cancello, interveniva  la forza magica a quietarlo: un laccio delle scarpe, di  pelle di cane, fargli tredici nodi e dire la giaculatoria  a San Donato, che faceva coricare il cane. Era onesto  Chiellino, che – dopo il servizio – snodava il laccio  e il cane nella notte riprendeva ad abbaiare, altrimenti sarebbe morto.

La visita, campane sono anche questi colpi ai ferri delle finestre, – Come si va? – dice il capoguardia.

_ Tra cimici, pidocchi e carcerieri tutti bene ci volete.

       – Cambio delle lenzuola.                          .

– Lettera all’avvocato.

– Il bagno.

_ Un paio di pantaloni dal Patronato, mi esce la roba. – Zio Donato lo zingaro toccandosi la brachetta.

– E tanto chi ti vede?

– La figlia del Maresciallo.

– Tua moglie, se viene – dice Giappone al caporale.

– Ti metto in cella.

– Hai offeso tu il detenuto.

– Linfermiera, superiore, infermeria.

– Domani.

– Oggi, superiore.

– Domani.

– La luce qua in mezzo alla camerata.

– Sempre tu, perché?

Giappone: – Perché dobbiamo leggere la sera e  la lampada sta in mezzo, come in seconda, in prima,  nelle altre camerate.

– Vuoi leggere la notte?

– Anche, perché no?

– Mettiti a rapporto col Procuratore.

– Sono cose vostre, i due metri di filo in più li paghiamo noi.

– D’un tratto volete studiare?

– Si.

– lo, per tua sapienza, leggo sempre e me ne intendo.

È per il nuovo giunto che legge per tutti e se  legge così lo metterete fuori accecato.

lo sorrisi per farmi perdonare del tono impertinente di Giappone, che poteva sembrare istigato: altro  non era che il suo modo d’imporre la dignità dei  carcerati.

Dopo avermi osservato per due giorni, disse che  gli servivo e che dovevo essere rispettato. Per Bartolomeo Vasco, amico, dovevo scrivere il memoriale di  difesa, c’era penna e calamaio, altri lavori dopo. Mi  disse: – lo sono vittima della giustizia, sono ladro  sì, ma chi non è ladro? Non voglio essere plebeo e servo io che ho capito le male arti del mondo e le  so adoprare.

So portarmi la pariglia di muli mentre il padrone  dorme in stalla sul letame, perché teme il colpo; ho  corrotto non un solo giudice istruttore, la mia carriera  è cominciata con una lite col Pretore del paese, perché  non volli dargli un cane da caccia, lo voleva per forza,  perché era pretore. I marescialli mangiano, le guardie  carcerarie, i presidenti; gli avvocati rubano, gl’impiegati  non lavorano per lo stipendio che si pigliano, i preti  ingannano la povera gente, il Barone Berlingieri viene  seduto in carrozza a cacciare nel suo paradiso, feci  fuoco alla guardia giurata che mi proibì di sparare  su un capriolo. Amo la vita e le donne e le belle  lettere; gli altri sono come me, solo che il mio mestiere  è rischioso e mi costa la melma sul volto. –

Viene il nostro turno di aria: – Donato, fatti la  roba! – dice Fucina al suo socio, un vecchio zingaro,  per dirgli «vattene a libertà».

Il vecchio, allegro, rimbalza a Pasciucco: – Pasciucco, fatti la roba, a libertà! – e Pasciucco piange «Puntella i piedi alla porta e non te ne andare Nardi Rocco  mio! ». La guardia ha aperto il cancello, la camerata  si vuota come una casa da cui esce il morto tra il  lamento della donna «Puntella i piedi alla porta, Nardi  Rocco mio!» ripete Pasciucco.

Si scende dalla loggiata a passeggiare giù nel chiostro dove sono le porte delle altre camerate.

Giappone mi presenta agli addetti alla cucina, allo  spaccalegna, al calzolaio, a Vasco, allo scopino, al Sagrestano, quasi tutti della banda di Bernalda: – È il  nuovo giunto, un bravo ragazzo.

– Passeggiamo – mi dice poi – ed ecco l’avvertimento, non ti confidare.

 

* * *

 

Le pietre del passeggio erano umide, un lenzuolo  di sole restava appeso sul muro alto, oltre il piano  della loggiata. Mi chiamavano da tutte le camerate,  che avevano alcune solo le porte, altre anche le finestre  basse sul passeggio. C’erano i contadini di Montescaglioso, i compagni di Chiellino di Pisticci; quelli di  Irsina cantavano, alzavano il pugno e volevano baciarmi tra le sbarre.

– Quello è sindaco? – fecero i vecchi.

– Non sono come voi, mi hanno imputato di concussione – dissi a quelli di Irsina.

– E noi da sciopero a rapina, a tentato omicidio, – mi risposero.

– Siamo tutti qua – intervenne Giappone.

– Stai bene alla Settima? Se no, vieni con noi.

– Lo tengo vicino a me, – disse Chiellino, – domani ti lavo la roba, tu scriverai a mia moglie.

Ridemmo, l’ora finiva: – Il giornale, eh il giornale! 

Ma il giornale che volevano da me io nemmeno  potetti averlo, era tra le cose proibite. Dopo mangiato,  il pomeriggio nostro cominciava al mezzogiorno, e si  attaccavano i canti.

 

Carceri di Trani

Tribunale di Matera

Sti carceri non sapevo

che erano così:

 

tre acini di pasta

e brodo a coppini

stinfami, assassini

ci fanno morir.

 

Carceri di Trani

Tribunale di Potenza: 

chi piange e chi pensa. 

Chi pensa a lavorar?

 

Cinodoce e Spio dissi a Giappone e lui volle che glielo spiegassi a tutti – stavano alle nostre finestre:  potevamo guardarle nelle case di fronte, che si godevano laria, quelle donne che aspettavano i mariti coi  seni rovesciati sulle mensole.

 

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