Il cavaliere Carritelli aveva gli occhi pieni di quella libidine degli scemi e muoveva le mani brune, pelose e  morbide come i ciechi. Era in galera da otto anni, dal 1942, senza che si fosse conclusa una sola fase del processo a suo carico. Era accusato di avere ucciso i suoi figli: a uno aveva dato da ingoiare due soldi; e poiché anche il primo bambino era morto improvvisamente, fu sospettato dalla moglie di averlo ucciso. Per due volte la causa era stata differita, la seconda quando già il Pubblico Ministero aveva concluso la requisitoria con la richiesta di una condanna a morte.

     Disse a Rocco, lisciando con le dita i baveri listati della giacca: – Tu comandi un paese? Io sono cavaliere e generale. Siamo colleghi.

     Si vantava che i galantuomini al paese, dottori, avvocati, e professoroni, se la facevano con lui.

    Nella camerata lo irridevano: – Uomo inservibile, sei -. Su di lui fioccavano pesanti dicerie riguardanti sfera sessuale e corna.

     Il cavaliere si lamentava con Rocco della moglie, che diceva: – Mi fossi spezzate le gambe quel giorno. Sei pazzo. E lo disse anche ai professori – Siccome lo credevano pazzo per le accuse della moglie, diceva che per questo lo tenevano in carcere. Minacciava che li avrebbe scannati tutti.

     Il poveretto ansimava, agitava le mani, cacciava la lingua come un cane: «Li scannerò, io sono innocente; quando sarà che mi riconoscono? Li scannerò come si uccide il porco, i professori, li scannerò».

     Gridava tanto, sempre le stesse parole. Interveniva il maresciallo a chiamarlo: Carritelli ! Il cavaliere abbassava la voce, distendeva il volto e chiedeva a Rocco se egli riteneva che avrebbero riconosciuto la sua innocenza.

     Rocco lo rassicurava: Sì, cavaliere, ti riconosceranno. Allora il cavaliere ritornava felice e libidinoso: «Mia moglie, ecco» e disse recitando «bassa d’animo e triste – incapace di sentire amore per alcuno – incontentabile per capricci e per spirito di contraddizione – aspra nei modi e nelle parole – pronta a commettere castelli in aria … ».

 

Parte terza

[III]

– La visita del cavaliere – dissero al cancello – per  il nuovo giunto -, e mi chiamarono.

     Un uomo con la barba nera mi tendeva le mani dal rettangolo dove passavano le gavette: – Siamo  colleghi, – disse.

     Aveva occhi pieni di quella libidine degli scemi  e come i ciechi muoveva le mani brune, pelose e  morbide. Se le portò al bavero della giacca di lana  listata e disse: – Vedi sono cavaliere e generale, siamo  colleghi. Sono alla libertà, in tutte le camerate, che  mi piace vado, mi devono rispettare perché so comandare, loro lo possono dire. I superiori sono buoni  colleghi. Tu non comandi un paese? Siamo colleghi.

     Era l’uomo che avrebbe ucciso un suo bambino,  dandogli da ingoiare due soldi. E poiché anche il primo  bambino era morto improvvisamente fu sospettato dalla moglie e la legge doveva affermare la sua responsabilità. Per due volte la causa era stata differita, la  seconda quando già il Pubblico Ministero gli aveva  sparato la condanna a morte. Era dentro dal 1942,  ancora giudicabile.

     «Mi chiamano inservibile, ditelo voi se sono inservibile, inservibile il cavaliere Carritelli! lo so tutte le  sette battute. Il tenente a Roma da militare mi voleva  bene, i galantuomini al paese se la facevano con me,  dottori e avvocati, e professoroni. Ungila, ungila con  la tintura. Il tenente mi faceva massaggiare la figlia,  una stozza. Uno sempre si vergogna con le donne,  feci l’olio caldo, ma poi mi vergognai. Aspettavo di  non vergognarmi quando mi sposai. E la mamma di  mia moglie mi diceva: Che avete? Non vi vedo bene.  Il miglior fondo se ti porti bene. Che devo fare?  domandai. Devi togliere tutti i turaccioli alle bottiglie.  Andammo in cantina con lei, con mia moglie, mi dimenticai: lei voleva sapere perché. Aspetta, vado a  togliere i turaccioli alle bottiglie e i timpani ai bottiglioni. Li tolsi. Ora dì a tua madre che non si lagni  più. Venne la madre e la sorella, nella cantina era  tutto a posto. Tu vuoi essere messo in bocca il colombo, mi dissero. Non avevo sturato? Sì ma ci andava  la polvere e il topo.

     Come a un bambino, a tua moglie devi sturare,  come fece mio marito, disse la vecchia. Passarono quindici giorni, dicevo a mia moglie: non dirmi niente.  E poi. finalmente capitò a letto, ebbi la fortuna di  trovarlo largo, se no già mi stancavo, adesso non mi  dicono che non sono buono. Ma sempre quella vecchia  della madre: è uscito il sangue a tua moglie? E che  la davo col coltello? Andò senza combattere. Adesso  viene il fatto della pece. Stavo all’ospedale per l’otite,  dicevano certi malati: Tu ci hai l’otite e noi siamo  ciclisti. Anche le suore li chiamavano ciclisti. E che  erano i ciclisti? gl’impestati. Mi spiegarono che una  femmina pareva buona, ma furono impestati. Allora  anch’io sono ciclista e non feci più con mia moglie  per togliere l’occasione. Un compagno calzolaio che  stava in punta di paese, io passeggiavo, lui mi chiamò:  non fai con tua moglie? No, perché m’impesto; non  devi fare con quella buona per non incappare in quella  cattiva. Non devi rubare ché non ti vede nessuno,  ma quando sei visto, stai bene quando non rubi. Ti  dico io, mi disse il calzolaio, come non impestare. Ti  dò un po’ di pece da mettere lì per non fare andare  nessuno, e la togli quando vuoi andare tu. Mi dette  la pece in un barattolo, mettila sul fuoco prima, quando  è calda, fai finta di andarci tu e metti la pece. Venne  anche lui per vedere dal buco della porta. Prepàrati,  còricati che mi sento, dissi a lei. Avevo la pece in  mano: e quella che ne devi fare? La tengo io, poi la  fanno gettare le galline. Tà, gliela misi, lei si lagnava  perché scottava e poi con l’acqua fredda che versò  se ne venivano peli e tutto».

     Il cavaliere si muoveva le mani addosso, apriva  la bocca per un risolino continuo, mentre la camerata  gli gridava ferocemente «Uomo inservibile!» e i suoi occhi erano felici calati sugli zigomi, appena scoperti  della splendente barba nera.

     «Che diceva mia moglie? – riprese. – Mi fossi spezzate le gambe quel giorno. Sei pazzo, diceva. E  lo disse anche ai professori, perciò non mi cacciano  ancora. Ma io li scannerò». Il poveretto prese ad ansimare, mosse le mani a gesticolarle, cacciava la lingua  come un cane: «Li scannerò, io sono innocente; quando sarà che mi riconoscono? Un pugnale, come si  uccide il porco, come fiata il porco. Cristo è in cielo,  Cristo in terra sono i professori, li scannerò».

     Gridava tanto sempre le stesse parole che si sentì  il maresciallo chiamarlo: ‘Carritelli!’ e abbassò di tono  e si distese il volto: «Tu dici che mi riconoscono?».

Sì, cavaliere, ti riconosceranno. Ritornò felice e libidinoso: «Mia moglie, ecco» e disse recitando «bassa  d’animo e triste – incapace di sentire amore per alcuno  _ incontentabile per capricci e per spirito di contraddizione – aspra nei modi e nelle parole – pronta a  commettere castelli in aria … ».

 

 

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