A sera comincerà la lettura del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. Si palpa la tensione dell’attesa: tutte le attese sono dolorosamente lunghe e ansiose nel carcere, non finiscono mai: l’attesa del giorno della scrittura, dell’ora del passeggio, della posta, delle visite dei parenti. E’ festa quando un fatto, uno scherzo allenta l’ansia. Come quello di Pasciucco, che si finge venditore della «Cooperativa  del Nord» per i fratelli poveri del Sud e canta le esequie a Giappone, arrotolando i fogli del giornale ai quattro lati del letto, per simulare candele mortuarie, mentre Giappone rispondeva col gesto scurrile più efficace contro la jettatura, che solo i maschi possono praticare.

     Nell’attesa scorre minuzioso e lento il racconto della giornata, dei pensieri, di strane elucubrazioni, come l’ingiustizia di non tener conto della notte nel conteggio della durata della pena. Le notti pesano, portano tristi pensieri e, se ci metti pure la notte, non si sconta un anno, ma se ne scontando due.

     Il racconto ci dice la metratura della camerata, la collocazione dei letti e la luce di calce che la lampada lasciava cadere sulle coperte grigioferro con l’iscrizione ricamata in filo bianco «Carceri giudiziarie». Finalmente la porta piccola della camerata viene chiusa e la guardia ha augurato la buona notte, ricambiato con un’ingiuria, l’orologio di piazza Vittorio Veneto segna le sette. Il tarantino, che dormiva, viene svegliato  energicamente, strattonato e allungato «come la pasta per fare un maccherone».

     Finalmente è giunto il momento della lettura. La lampada è piazzata in mezzo alla camerata e Rocco è felice, perché scopre di avere anche lui un mestiere, quello di leggere e scrivere, che lo faceva sentire utile quanto  il calzolaio, il barbiere, il sarto, addirittura più dello scopino, dello  spaccalegna e del portapranzo.

     Rocco spiega di aver avuto la fortuna di conoscere l’uomo che l’ha scritto, che non è veramente suo amico e non è nemmeno amico dei suoi compagni carcerati. Non è un amico, come non può esserlo il padre, la  madre, il fratello. Amico è l’avvocato, il medico, il  testimone, il deputato, il prete. Questo scrittore è  è un fratellastro suo, di Rocco e di tutti i suoi compagni. È stato anche lui in galera  e va dicendo che ognuno dal presidente al cancelliere,  dal miliardario al pezzente, dovrebbe andarci una volta.

     Il libro che ha scritto è il  più appassionato e crudo memoriale dei nostri paesi.  Ci sono parole e fatti da fare schiattare le molli pance  dei signori nel sonno, meccanicamente, per la forza di  verità. Ci sono morti e lamenti da fare impallidire i  santi màrtiri per la forza di verità. E le nostre terre si  muovono da parere fiumi e i morti, tutti i morti i  bambini e i vecchi vivono sulle nude terre tremanti e  nei boschi.

     Quindi, Rocco legge.

    La lettura collettiva guidata da Rocco è nello stesso tempo un richiamo alla realtà e una proiezione nel sogno, dove il carcere, quello di Levi come il loro, si profila  come «una barca nell’aria». Scotellaro fissa l’effetto incantatorio  di questa lettura negli atteggiamenti degli ascoltatori.

     Giappone stava sul letto come un antico romano  sdraiato sul triclinio, curvo sul fianco; zio Donato, lo zingaro, era seduto nel letto con le  braccia abbracciate ai ginocchi, Chiellino sulla sponda  della branda teneva i piedi a terra; il tarantino, disteso  sulla pancia, aveva il mento piantato nel cuscino e  gli altri, a due a due, voltati sui fianchi, si sentivano  insieme la lettura guardandosi in faccia.

     Tra i compagni di camerata c’era anche quello che Rocco chiama il socio di  Giappone- Costui era un ex milite che, non si sa come, fece la  guerra a favore della repubblica sociale fascista. Era stato condannato a 15 anni,  poi amnistiati. Tornato al paese si diede alla “teppa” (insieme di persone che operano ai margini o fuori della legge)per farsi perdonare la stupidaggine e il rimorso della milizia fascista. Stava come gli altri ad ascoltare, faceva coppia  faccia a faccia col borseggiatore.

     La lettura continuò nella sere seguenti. Il libro veniva richiesto anche dalle altre camerate.

     Dopo la lettura ci si addormentava felici, senza pensare all’interrogatorio e ai giri di vite del  processo, al tragico momento in cui, nell’aula di giustizia si è rinchiusi nella gabbia. Con un  libro al capezzale, anche la morte è una tenera amante.

 

 

Parte terza

[V]

 

     I piani, alla libertà come nel carcere, hanno bisogno  di maturare. Le attese sono lunghe e indifferibili: il  giorno della scrittura, l’ora del passeggio, la posta, le  visite dei parenti non arrivano mai. Il tempo si minuzzava allora in tanti pezzi piccoli e grandi, e di  questi erano pieni la mattina e la sera. Perciò uno scherzo nuovo valeva molto più di una grossa notizia  letta sul giornale o di una carta della Procura per  rimetterci in moto la fantasia beata di una vita già  fatta.

     La sera c’era stata l’orchestrina e si era ballato.

     Pasciucco aveva venduto merce della sua «Cooperativa  del Nord»: – È la Cooperativa del Nord! Per i fratelli  poveri del Sud! Comprate comprate! – A Giappone  aveva cantate le esequie, con la carta accesa per fare  le 4 candele agli angoli del letto: lui frattanto se li  teneva in mano contro la jettatura.

     – Che facevi, tarantino, a quest’ora?

     Il tarantino già dormiva con la cuffia in capo. E  un altro rispondeva: – Contava i soldi spiccioli a sua  moglie toccandole i capezzoli per farla venire in caldo.  – La galera la notte mica ce la contano; non è un anno di pena, ma due, se ci metti pure la notte.

     Piazzata finalmente la lampada in mezzo alla camerata, era l’avvenimento che da una settimana si aspettava di provare, io finalmente sapevo un mestiere  che serviva, leggere e scrivere, e mi sentivo utile quanto  il calzolaio, il barbiere, il sarto, più dello scopino, dello  spaccalegna e del portapranzo.

     La mia fila di letti andava dal cancello alla finestra,  la fila opposta partiva dal gabinetto, di fronte al cancello: in mezzo altri tre detenuti si stendevano il pagliericcio per terra. In diciotto si stava a largo: la  camerata era undici passi lunga e larga sette.

     A capo della fila di fronte alla mia, stava Brancaccio, col letto un po’ discosto dal pulpito, sotto l’altra  finestra, obliqua al foro della porta del cancello, dove  menava per provvidenza una piacevole corrente d’aria,  che cacciava nel suo tubo i fetori del pulpito. La  lampada pioveva una luce di calce sulle coperte grigioferro con l’iscrizione ricamata in filo bianco «Carceri giudiziarie»

     Ormai ci avevano chiusa la piccola porta, alla buona sera della guardia avevamo risposto «Fetenti», zio  Donato ascoltò l’orologio di piazza Vittorio Veneto,  erano le sette, c’era da svegliare il tarantino, che dormiva da un’ora, perché cominciava il libro.

     Il tarantino si arrese alle rampogne di Giappone  e di Chiellino che in mutande andarono al suo letto  e lo allungarono come la pasta per fare un maccherone.

     A che vale leggere per noi, ve lo dice questo libro,  che spiega pure quando e come e perché uno scrive, io dissi.

     Io ho avuto la fortuna di conoscere l’uomo che l’ha scritto, non è veramente mio amico, non è nemmeno,  vi avverto, un vostro amico. Ha scritto questo che è il  più appassionato e crudo memoriale dei nostri paesi.  Ci sono parole e fatti da fare schiattare le molli pancie  dei signori nel sonno, meccanicamente, per la forza di  verità. Ci sono morti e lamenti da fare impallidire i  santi màrtiri per la forza di verità. E le nostre terre si  muovono da parere fiumi e i morti, tutti i morti i  bambini e i vecchi vivono sulle nude terre tremanti e  nei boschi. E i vivi … Leggiamo ora.

     Però vi dicevo dello scrittore, che non è un amico.

     Non è un amico, come non può esserlo il padre, la  madre, il fratello. Amico è l’avvocato, il medico, il  testimone, il deputato, il prete. Quest’uomo è un fratellastro, mio, nostro, che abbiamo un giorno incontrato  per avventura. Ciò che ci lega a lui è la fiducia reciproca per un fatto accaduto a lui e a noi e un  amore della propria somiglianza. Eccolo qui, alla prima  pagina, comincia, sentite. È stato anche lui in galera  e va dicendo che ognuno dal presidente al cancelliere,  dal miliardario al pezzente, dovrebbe andarci una volta.

     « … Chiuso in una stanza, e un mondo chiuso, mi è  grato riandare con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza  conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria  e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo  arido, alla presenza della morte».

     Giappone stava sul letto come un antico romano  al triclinio, curvo sul fianco (così anche mangiava il  rancio), con l’orecchio e la guancia nella mano a foglia,  zio Donato, lo zingaro, era seduto nel letto con le  braccia abbracciate ai ginocchi, Chiellino sulla sponda  della branda teneva i piedi a terra; il tarantino, disteso  sulla pancia, aveva il mento piantato nel cuscino e  gli altri, a due a due, voltati sui fianchi, si sentivano  insieme la lettura guardandosi in faccia. Il socio di  Giappone, un ex milite che non si sa come fece la  guerra a favore della repubblica sociale contro Badoglio  e i traditori e che era stato condannato a 15 anni,  poi amnistiato, e che finalmente al paese, si era dato  alla teppa senza volontà, per farsi perdonare la stupi-  daggine e il rimorso dell’inutile milizia, e per compiere  la prima azione coraggiosa e umana della sua vita,  rubando, stava come gli altri ad ascoltare, faceva coppia  faccia a faccia col borseggiatore, il suo respiro era  forse più libero per l’intensa partecipazione, le sue  coperte si gonfiavano e si rilasciavano più delle altre.

     Nelle sere seguenti il libro lo consumammo come  un pasto: da zingari, da abigeatari, da amici in una  festa. E già le camerate ce lo chiedevano come una  sigaretta.

     lo pensavo al fratellastro, che intanto, mite e solenne, nel suo carcere, che era una barca nell’aria,  con l’occhio destro spezzava i volti, il pane, i tetti, i  gufi, la luna, i fiori, la terra, il cielo e il mare, e con  quello sinistro amava queste cose e le pativa. Ora,  nell’alto silenzio di casa sua, egli avvertiva il molteplice  rumore del tempo e le voci delle campane e delle  sirene, le parole delle strade, i concerti degli uccelli affastellati nella notte, il lontano brulicare delle foreste.

     Noi ci addormentavamo felici bambini con l’ultima  parola di quella lettura che era una preghiera comune:  chi pensava più all’interrogatorio e ai giri di vite del  processo, al tragico momento della gabbia? Con un  libro al capezzale, anche la morte è una tenera amante.

     A lui decidemmo di chiedere grazia dei nostri peccati, sapendo che egli non ce li perdonava, ma li amava  e li pativa; con l’occhio destro e con l’occhio sinistro  egli ci avrebbe guardati.

 

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