Quando, al principio di questo mese di maggio, ero occupato, nella Mostra delle Regioni di «Italia ’61», a far collocare nel padiglione lucano il mio grande quadro sulla vita del Mezzogiorno, che si intitola,  almeno provvisoriamente, «Lucania», mi accorsi un giorno che sulle tabelle appese agli ingressi della sala era scritto, in caratteri di legno, «Basilicata». Me ne accorsi con una certa immediata e istintiva contrarietà (di cui dirò poi le ragioni) tanto che proposi ai commissari presenti di farlo modificare in Lucania: ed essi furono d’accordo, ma poi, per non generare contraddizioni e confusione con le piante già stampate della mostra, finirono, a malincuore, per lasciare quel nome così come era stato scritto. Il motivo della scelta era del resto, come mi fu spiegato, più che legittimo, legale. Non si trattava di una bizzarria di grafici o di architetti, come quella del padiglione lombardo, dove si legge: «Questa è la Lomba», sul lato visibile di un pilastro, mentre su quello invisibile sono relegate le lettere «rdia», ma del fatto che nell’elenco delle regioni previsto nella Costituzione, in quella sua parte purtroppo non attuata, la Lucania è denominata, nell’articolo 131, Basilicata, forse per cancellare un provvedimento del governo fascista (ne avessero cancellati altri meno innocenti) che aveva legalizzato il termine di Lucania. Poiché ho ricevuto alcune lettere, a causa di queste tabelle, nelle quali mi si chiede la mia opinione su questo problema, che Giustino Fortunato aveva definito: «Una misera questione fonologica», penso di rispondere qui.

Proprio cinquanta anni fa, al tempo dell’Esposizione Internazionale torinese del 1911, si era svolta una singolare polemica su questo stesso argomento. L’associazione detta «Fascio lucano» aveva espresso il voto che il Consiglio Provinciale di Potenza chiedesse al governo di provvedere e sostituire al nome di Basilicata quello di Lucania, riprendendo altre deliberazioni in questo senso del Consiglio Provinciale potentino del ’72 e del ’73. Giustino Fortunato reagì subito a questa richiesta con particolare energia, definendo, in due lettere del novembre e del dicembre del 1910, pubblicate sulla «Libera parola» di Potenza, questi voti come «una melensaggine non degna di gente seria, fanciullaggini appena spiegabili cinquanta anni, se non addirittura novanta anni addietro». «Quando ci affrancheremo», – scriveva allora il grande meridionalista – «della retorica che ha la falsità nel contenuto e nella forma? Per Iddio, in tanta romba di chiacchiere democratiche e altisonanti, c’è sempre intorno, purtroppo, e ci ricopre, la muffa de’ vecchi seminari di cento anni fa!». Ne nacque, naturalmente, sia pure nella forma garbata dei galantuomini di allora, un putiferio di risposte, interventi, deliberazioni e lettere luiginesche, rievocanti le glorie antiche e recenti, e il dotto armamentario dei retori locali di allora, con Roma e Garibaldi, e l’eterna citazione del Racioppi che mi sono sentita ripetere tante volte da tutti i piccoli borghesi di tanti anni dopo:

«Dovunque grandi reliquie e più grandi memorie di città greche e latine, di forti popoli, di forti fatti. Qui l’Enotria vetusta, qui la Magna Grecia; e Pitagora, Ocello, Parmenide; qui, prima che altrove, l’antichissimo, sacro nome di Italia». Naturale che uno degli uomini più seri , del nostro paese, Giustino Fortunato, avesse buon gioco in questa polemica. La sua reazione alla proposta nasceva certamente di qui, dallo sdegno verso una classe politica e intellettuale che si pasceva di fumo e si gingillava coi nomi quando incombevano i terribili problemi della malaria e della miseria; e la ripugnanza verso l’accademismo, retorico e latineggiante, «la muffa dei vecchi seminari», di cui quel nome latino Lucania pareva il simbolo e la bandiera. Non per nulla fu poi il governo fascista ad attuare la proposta dei retori di cinquanta anni fa. La questione non era tanto nelle parole innocenti quanto nei loro difensori, e da questo punto di vista Giustino Fortunato aveva senza dubbio ragione. Ma oggi, per lo stesso motivo (e per altri), direi che i termini si siano rovesciati. Basilicata era il termine ufficiale molti anni fa. Era scritto sulle cartine degli atlanti scolastici, dove l’Italia era dipinta di verde, ed era perciò il solo nome familiare agli italiani delle altre regioni. Basilicata era scritta negli atti di governo, era il nome della Brigata, composta del 91a e 92a fanteria, nelle cui caserme, a Torino, io stesso feci il mio servizio militare. E anche a me (che conoscevo gli scritti di Fortunato), prima di andare a vivere in quella regione, in quel periodo di retorica della romanità, la parola Lucania pareva suonasse, per naturale reazione, di un suono in qualche modo falso. Ma quando presi esperienza diretta di quel paese, mi accorsi che le cose stavano in modo opposto. L’uso popolare, che è il solo che conti in cose di questo genere, era almeno in gran parte, sulla bocca dei contadini, Lucania e non Basilicata. Essi si chiamavano lucani e non basilischi (e non solo per repugnanza dell’ «innocuo appellativo di una sorte di rettile anfibio della specie dei sauri, avente una cresta a forma di corona»), e tanto meno basilicatesi (il termine polemicamente difeso da Giustino Fortunato, che scrisse: «Nato basilicatese, basilicatese – e non lucano – voglio morire»), che non intesi usare mai. Forse questo uso di Lucania e lucano da parte del contadini aveva qualche cosa di inconsapevolmente polemico. Basilicata, questo termine bizantino rimasto per tanti secoli, era un appellativo burocratico e statale, la denominazione data da chi domina, fossero re stranieri o feudatari, o quelli di Roma, una espressione amministrativa di uno stato lontano e nemico. Le ragioni dell’uso erano dunque opposte ai motivi che spingevano i retori verso le rievocazioni della romanità, anche se malauguratamente i termini coincidevano. Non erano gli splendori e le glorie mitologiche, e il gusto delle parole a far parlare a Giappone, il contadino compagno di Rocco Scotellaro in una cella del carcere di Matera, della «buia Lucania» buia per lui, e per loro, come un sole spento. Se la retorica dell’antiretorica ha ripristinato ufficialmente il termine Basilicata, l’uso del popolo è dunque quello di Lucania. E del tutto naturalmente, e senza neppur pormi il problema, ma soltanto riflettendo le parole ascoltate nel quotidiano discorso dei contadini, ho dovuto usare sempre la parola Lucania anziché Basilicata nel mio libro Cristo si è fermato a Eboli. .

Se questo è il termine dell’uso del popolo è, mi sembra, il solo legittimo: il solo che può avere un senso quando, come si dovrebbe (e come la Costituente, malgrado il nome diverso, prescrive), la regione possa avere una sua vita autonoma, ed essere sentita come una realtà.

Questo nome infine è stato fissato dai poeti e perciò non può più cambiare. Rocco Scotellaro, il poeta della libertà contadina (che pure nelle sue prose di inchiesta adopera la parola Basilicata quando deve parlare in termini geografici o amministrativi) esprime i valori poetici e umani della sua terra chiamandola col suo nome, fin da quando «Lucania» fu il titolo di una delle prime poesie di lui sedicenne, che dice il senso di quella campagna solitaria, e le capre, e il vento sulle alture, dove:

 

nell’ ombra delle nubi sperduto

giace in frantumi un paesetto lucano.

 

Fuori dalle polemiche vane, della retorica e dell’antiretorica sua sorella, che cosa possiamo dunque concludere ? Resti pure Basilicata come un vocabolo burocratico e tecnico, per indicare un Ente che non c’è ancora. Per quello che è reale e vivo, popolo e poeti, creatori e legislatori della lingua, hanno fissato, per questa terra a me carissima, nelle parole che infinite passano ogni giorno nell’aria, e in quelle che restano scritte sulle pagine, il nome di Lucania.

 

Da:

Carlo LEVI

LE MILLE PATRIE

Uomini, fatti, paesi d’Italia

DONZELLI, Roma, 2000, pp. 225-228

 

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