Lo studente universitario Emilio Colombo si presenta a sostenere l’esame di diritto ecclesiastico. Il prof. Arturo Carlo Jemolo, che si accinge a esaminarlo,  guarda il libretto e chiede: «Ah, tu sei di Potenza, ma sai chi era mons. Serrao?».

     Nel libro Per l’Italia, per l’Europa, pubblicato poche settimane prima della sua morte, Colombo spiega succintamente chi fosse mons. Serrao, ma non dice se alla domanda del prof. Jemolo seppe rispondere. Conoscendolo, penso di si e ritengo opportuno far conoscere questa eccezionale figura di eccelesiastico.

      Mons. Giovanni Andrea Serrao è stato un ecclesiastico di tendenze liberali con venature di giansenismo, vescovo di Potenza, orrendamente trucidato nel 1799 unitamente al rettore del seminario. La toponomastica potentina lo ricorda col secondo nome: Andrea.  

     Egli era nato da nobile famiglia calabrese il 4 febbraio 1731 a Castelmonardo (oggi Filadelfia, essendo il paese natio andato completamente distrutto a causa di un terremoto) in provincia di Catanzaro.

     Compì gli studi a Napoli, dove conobbe eminenti uomini della cultura e della vita politica del tempo, fra i quali Antonio Genovesi, Domenico Cirillo, Francesco Mario Pagano e Domenico Forges Davanzati (che nel 1799 fecero parte del governo provvisorio della Repubblica Napoletana).

     Avviatosi alla carriera ecclesiastica, scrisse diverse opere in latino e acquistò notorietà perché sosteneva la concezione democratica dello Stato e perché si opponeva al potere della Curia Romana.

     Fu nominato vescovo di Potenza il 18 luglio 1783. De Rosa definì il suo episcopato «l’espressione più alta di questi vescovi filo-tanucciani e riformatori» (Gabriele DE ROSA, Vescovi, popolo e magia nel Sud, Napoli, 1983, p. XXVII). La sua elezione a vescovo era stata causa di un braccio di ferro tra Pio VI e la corte di Napoli. Giunto nella diocesi di Potenza, illudendosi di aver acquisito l’autonomia episcopale e in ossequio alla distinzione giurisdizionalista tra curia romana e Santa Sede, sospese ogni rapporto diplomatico con Roma, pur proclamando «la sua volontà di restare fermo e costante nella verità e nella pace della Chiesa e del suo capo», e aprì invece una serie di rapporti ufficiali con la corte napoletana.

     Avviò quindi il suo programma di riforme che andava in direzione di una generale restaurazione della vita religiosa, assicurando un’adeguata preparazione del clero e un miglioramento della sua qualità morale, con la riapertura del seminario  e con l’esercizio di un più attento controllo attraverso puntuali visite pastorali.

     Il programma si scontrò subito con la cronica mancanza di mezzi finanziari, tanto che, per esempio, Serrao dovette rinunciare al seminario.  Contemporaneamente, a causa della sua stessa scelta politica, si trovò costretto ad accettare l’ingerenza dell’autorità regia in tutti gli atti del governo episcopale, anche in quelli di ordinaria amministrazione. Ne approfittarono gli ecclesiastici più insofferenti, che utilizzarono la minaccia di far ricorso al re ogni volta che il vescovo dava il via a un’iniziativa riformista che ledeva i loro interessi, sottoponendolo quindi costantemente a una vera e propria forma di «terrorismo psicologico» che ne indeboliva sempre più la posizione.

     Così il suo atteggiamento andò progressivamente irrigidendosi man mano che il regalismo borbonico esautorava la figura del vescovo nei confronti del clero diocesano, e i contrasti con gli ecclesiastici divennero sempre più frequenti, specialmente negli anni Novanta. Nello stesso periodo maturò il graduale distacco di Serrao, come di altri giansenisti, dal riformismo e dal lealismo borbonico a seguito dell’arresto della politica giurisdizionalista e del riavvicinamento della corte di Napoli alla Santa Sede. Quando la situazione appariva ormai senza via di uscita, arrivò nel 1799 anche a Potenza il governo repubblicano. Il vescovo invitò il popolo a obbedire al nuovo governo, probabilmente nella speranza che l’antico programma di riforme potesse essere affidato al nuovo regime democratico. Sarebbe invece caduto poco dopo sotto la scure reazionaria, trucidato chi dice nel suo letto, chi dice sulla scalinata della cattedrale, non giacobino, ma piuttosto martire in nome di una riforma religiosa e politico-ecclesiastica che aveva, senza successo e con ostinata fedeltà, perseguito durante tutto il corso della sua vita.

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