L’UVA PUTTANELLA_Parte III, Cap. VI_Il carcere come gabbia dei desideri e dei sogni
La vita sognata e la vista vissuta. Gli umili servizi del carcere generano pensieri di ribellione.
La parte terza dell’UP è il libro delle Mie prigioni di Rocco Scotellaro, che si presenta come autonomo racconto lungo della sofferenza, delle lunghe attese, della noia di quarantacinque giorni di ingiusta detenzione, nonché di salde amicizie stabilite con compagni di sventura. Si comprende, quindi, l’osservazione del Giannantonio[1] che Scotellaro «perviene ad un’oggettivazione narrativa, nella quale l’io narrante si riconosce nei suoi personaggi, s’identifica con la loro cultura e si ritrova nella rievocazione ambientale».
Il carcere è la gabbia dei desideri e dei sogni di Rocco e dei suoi compagni, specialmente di Chiellino, che, abbiamo visto, sognando, «si leva per correre al lavoro, in bicicletta, nelle aziende del Metapontino». E’ del 4 marzo il sogno di Rocco di essere libero. Chiellino lo disillude, spiegandogli il significato del sogno: «Visita e spoglio di processo; la campagna si fa lunga; male». Aveva ragione, perché la libertà vissuta nel sogno non era quella che Rocco aveva realmente vissuta. Bella la descrizione delle due libertà, quella vissuta della libertà del paese e quella sognata, con la quale si apre il capitolo VI della parte terza.
Disteso sul pagliericcio del carcere, Rocco si sentiva a casa sua, e lo dice a Chiellino che nel sogno stava bene. Ma lui lo svegliò con le parole «La campagna si fa lunga». Il carcere era per Chiellino una campagna come quella della Libia e del fronte italiano, un’altra campagna
Dal sogno alla quotidianità del carcere, a lavare, ginocchioni, il pavimento della camerata, che doveva venire un specchio. Nascono peraltro pensieri di ribellione. Ma perchè i carcerati dovevano pulirsi il pavimento? E’ qui l’origine della schiavitù. Giappone, perciò, non si abbassa mai, è li che fischietta e sorveglia, da padrone.
Così i padroni, i mariti, i padri-padroni mantengono la loro ragione sugli operai, sui contadini, sui pezzenti e comandano alla moglie, ai figli, al fratello più piccolo, al più debole di sé.
Quest’altra pagina, quest’altra giornata di carcere non è “riassumibile”: bisogna leggerla lentamente, fermandosi su ogni parola, meditarla e rimeditarla.
[VI]
Il 4 marzo, non era ancora primavera, perché la luce del mattino pareva la coperta grigioferro sulle nostre carni, mi svegliai col sogno di essere libero. Chiellino, al mio fianco, mi spiegò il significato, dicendo: – Visita e spoglio di processo; la campagna si fa lunga; male -. E forse aveva ragione. La mia libertà del sogno non era quella reale, che avevo vissuta: A ogni passo la gente mi fermava nella strada, da uno passavo a un altro. «’Una cosa’ ‘Una preghiera’ ‘Un fatto importante’ ‘Il certificato’ Il libretto di lavoro, il lavoro, l’elenco dei poveri, i medicinali, la casa che sorge acqua dalla strada, la lampada alla latrina, la tassa bestiame, il bilancio preventivo, l’orario della corriera, Mancano 4 banchi, un’altra lavagna, Il custode al cimitero, Tizio ha parlato male di te, ha detto “basta eccetera”, dopo te lo dico, ha bruciato gli ossi dei morti, Facciamo le guardie consorziali, Dammi un posto qualunque, Solo a me non mi avete dato il sussidio, tutti lo prendono, Quando tutto si vuole tutto si fa. La domanda l’hai messa a dormire?» E le mie infinite risposte e mia madre che dalla finestra diceva loro: «Favorite» e rientrando a me «Neanche pace quando si mangia». E gli amici che commentavano: meglio essere fesso e non sindaco. E io non sapevo dare torto a nessuno.
La libertà sognata era di una notte con l’aria serena quando non vuole mai venire il giorno e allora, fatti a vino, io e i miei amici giriamo, padroni della campagna, protetti da un cielo basso, e ricco di stelle. Andiamo al camposanto, saltando il cancello e stiamo un’ora coi morti e li chiamiamo nel canto. Sono ragazze morte, mai esistite, che il cantore resuscita e ognuna vale per tutti. O vecchi, che un giorno ci dettero fastidio, e ora compassione e confidenza. I bambini, che hanno un campo a parte, farebbero ribrezzo alle cornacchie familiari del cimitero, fanno ribrezzo anche a noi.
Dal cimitero al vicinato il sogno ci portava: le donne maritate gettano l’acqua, lavano i panni, scopano davanti all’uscio, e avvolte in un bagno di tela percalle, cuciscono i corredi. I bambini e le galline si riempiono di polvere. Il barbiere caccia la sedia fuori e si siede, con le spalle al muro, abbracciandosi alla spalliera. Ognuno è dentro il sole, che scavalca la stradetta con un dolce rumore della polvere, delle pietre e delle tegole, e una nuvola è abbozzata dietro al camino: nel brulicante silenzio delle dieci, prima di mezzogiorno, quando il paese si distende nella campagna e i canti dei galli si odono da un burrone all’altro nell’aria vibrante, io mi godo la mia libertà, disteso nel mio letto. A quest’ora nessuna donna si aggrappa ai capelli dell’altra, invece la canzone al bambino:
Pecorella mia come facesti
quando in bocca al lupo di vedesti! …
addormenta anche me; il municipio si apre alle 11, per il pubblico.
Disteso sul pagliericcio del carcere, mi sentivo a casa mia, dissi a Chiellino, nel sogno ora stavo bene, ma lui mi svegliò veramente dal bel torpore dell’ultimo sonno con le parole «La campagna si fa lunga». Il carcere era per lui, come quella della Libia e del fronte italiano, un’altra campagna.
Caddi dalla branda. Volli prendere lo straccio, non so se mi spettava, e se pure mi spettava, Chiellino in mia vece era già accoccolato e così, piegato sulle ginocchia, indietreggiava man mano che con lo straccio puliva il pavimento e la striscia bagnata arrivava ai suoi piedi.
– No, no, deve venire uno specchio, tu lo lisci, devi calcare; calca forte – mi diceva Chiellino. Calcavo forte e nello sventagliare lo straccio due opposti pensieri, a destra e a sinistra, mi salivano in capo: perché dobbiamo pulirci noi il pavimento? Ecco l’origine della schiavitù. Giappone, perciò, non si abbassa mai, è li che fischietta e sorveglia, da padrone: lui, ed anch’io, faremmo crescere la polvere dei mesi e degli anni, lui per protestare e chiedere il colloquio e dire al procuratore di provvedere con uno spazzino o con una guardia, io per richiudermi nello sdegno e nell’isolamento, per non darla vinta ai boia, ai comandanti, ai giudici: essi non ci hanno soltanto messi in galera per scacciarci dalle strade, ma così ottengono che ci avvezziamo all’umile ordine interno e che ricreiamo tra noi la gerarchia dei servizi, la necessità di una legge. Loro ci volano sopra, sorridenti e beati come il generale passa a cavallo a dire col mento, col mento suo e con quello del cavallo: «Bravi, voi siete il mio ordine e la mia volontà, il mio regolamento. Fra poco morirete da cani in battaglia; anche questo è previsto». Noi siamo le pecore e i buoi dei macellai e dei proprietari di bestiame.
Così essi mantengono la loro ragione sugli operai, sui contadini, sui pezzenti e il sempre nuovo annuncio del vangelo, ogni giorno e ogni domenica, ripete la legge degli uomini e ognuno dice a se stesso: «lo sono la via, la verità, la vita» e subito corre a comandare alla moglie, ai figli, al fratello più piccolo, al più debole di sé.
Il pavimento si bagnava, potevo vedermi la faccia dentro e mi arrestai nel vederla.
– Oh, togliti, non sei buono, alle sette ci portano il caffè, facciamo tardi, Mazzolla vieni tu.
Venne Mazzolla, il giovane porcaro, a tirarmi lo strofinaccio. Ma io me lo misi sotto il ginocchio e usci l’acqua nera, per non darglielo.
Mi vedevo nel bagnato: perciò quando i contadini erano seduti alle sbarre della piazza, il Maresciallo, felice, domandava a me dell’ordine pubblico e delle novità! Una volta almeno, io avrò risposto come se tutti quegli uomini mi stessero sotto il sedere, peccando io pure, perché loro mi facevano peccare con quell’aria morta che si davano, con quelle spalle curve e gli occhi a terra, mentre l’ombra cresceva sui ciottoli e mentre sulla Serra di fronte sbocciavano le stelle di oriente. Per distruggere il pensiero peccaminoso, li incitavo alla rivolta, ma loro dovevano sentire lo stesso peso del mento del generale a cavallo. Dissi a Mazzolla: – So fare meglio di te.
Col moto dello straccio, inginocchiato per terra, l’altro pensiero prese il sopravvento: ero una capra che lesta salta tra i cespugli; se si allontana il pastore le getta una pietra avanti e la chiama per nome.
Al pulpito gli altri, in camicia, con gli asciugamani al collo, a turno si lavavano. Dal rubinetto l’acqua finiva sul bianco appoggiapiedi del cesso, con un getto alto: bisognava divaricare le gambe e perciò uno solo poteva comodamente stare dentro il pulpito; un altro poteva anche lavarsi ma attingere quando poteva con le mani da fuori, e curvare il capo all’angolo per non bagnare le gambe del primo.
Chiellino portava a sciacquare i sei stracci puzzolenti, aveva via libera. Mazzolla riempiva i catini per la riserva d’acqua. Tornati ai posti, si piegavano coperte e lenzuola e pagliericci, alcune brande si spezzavano in due, era una comodità perché così c’era più largo per muoverci. I tavoloni ai muri tenevano la nostra roba, la riserva da mangiare, il sapone, le gavette e il cucchiaio e qualche libro, o lavori a maglia, cotone e spago.
Ciccillo, socio di Giappone, un giovane con le basette scese, nero in faccia e umido alle narici, ci passava il suo coccio di specchio.
Giappone si preparava la colazione di pane e olio e origano, e fischiava mazurke e polke, lo accompagnava Pasciucco, facevano tutt’e due la banda dei giorni prima della festa quando la questua gira a svegliare la gente nei vicinati del paese.
Codicchio teneva un occhio chiuso: slanciato e biondo, portava gli stessi stivaloni del giorno dell’assassinio: in piena strada aveva affrontato un ragazzo, come lui: – Tu vuoi farmi le corna con mia moglie, tu? – sparandogli tre colpi. Poi era corso a casa dalla moglie. La moglie stava lavando, sposata da 9 giorni, come lavano tutte dopo la settimana delle nozze. Le tirò altri colpi, avrebbe voluto ragionare con lei dopo gli spari, ma lei cadde nella schiuma di sapone del tinozzo. Se ne scappò in campagna. Ci sarebbe rimasto per sempre facendo la vita del lepre, tra gli amici e i parenti delle masserie, dormendo le nottate di agosto sotto le macchie che sono le sole piante ad avere le foglie. Gli andarono a dire che sua moglie era salva, già operata e ricucita, non offesa sempre bella, allora partì a Matera, come se nulla fosse, come se facesse un altro viaggio col mulo per una fiera comprando e vendendo, alto sugli stivaloni neri.
Codicchio, ravvolte le coperte, era il primo a passeggiare, col fumo della sigaretta sul collo. Si sentiva un eroe per la prodezza di aver difeso il suo onore, che nessuno gli minacciava, come in un giuoco da ragazzi. Seduto alla branda, si piegava mesto sulle ginocchia: allora il giudice avrebbe potuto vedere in lui crescere l’uomo.
Pasciucco, l’altro uxoricida, invece, canticchiava: «Aliano e Alianello – Sant’Arcangelo e Missanello _ Gorgoglione e Cirigliano – Chi vuole puttane – Va a Stigliano – Chi vuole quelle più fini – Va a Pisticci e a Ferrandina». – Silenzio! – ci gridava. Si metteva i pollici alla cinta: – Entra la Corte. Imputato che ci hai da dire? Ci ho da dire, Signor Tre Pizzi e Signori della Corte Serena, che per giudicarmi io voglio un presidente cornuto come me. Poi la Corte si ritira. Poi esce. Il Presidente legge la sentenza: Pasciucco, vattene, assolto per ignoranza!
Il pentolone del caffè arrivò al nostro cancello. Giappone disse avviandosi il suo commento poetico alla mesta oratoria di Pasciucco: – La donna spinge l’uomo più forte contro la sua propria sorte. – Chiese alla guardia: – È così, superiore?
[1] Pompeo GIANNANTONIO, Rocco Scotellaro, Mursia, Milano 1986, p. 229, citato da G.B. Bronzini in L’universo contadino cit., pag. 147
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