(Ma quel che resta,

è dono dei poeti).

 

     Sul muro era scritto a stampatello il toponimo Sopportico delle Api. I toponimi delle strade dei poveri non avevano targhe: un addetto del comune era stato incaricato di scriverli a stampatello, con una vernice nera, direttamente sull’intonaco delle pareti. Il sopportico non era neppure una strada, un vicolo: era inaccessibile e all’apparenza inservibile. L’ingresso era sopraelevato di un metro e mezzo circa. Un nome così bello per un vicolo così brutto meravigliava. Il contrasto nascondeva una misteriosa tensione Mi inerpicai per esplorarlo e cercare di capire il senso misterioso delle api. Ma mi prese come un incubo, un triste pensiero che mi fece a lungo non gradita compagnia compagnia.

     Mi venne in mente che Tolstoj nelle Confessioni ricorda una favola orientale. Vi si narra di un viandante inseguito nella steppa da una belva inferocita. Per mettersi in salvo dalla belva il viandante balza dentro un pozzo senza acqua. Ma sul fondo del pozzo vede un drago che spalanca le fauci per divorarlo. L’infelice, non osando strisciar fuori per non essere sbranato dalla belva inferocita, non osando neppure saltare sul fondo del pozzo per non essere divorato dal drago, si afferra ai rami di un cespuglio selvatico cresciuto nelle fenditure del pozzo e si regge ad esso. Le sue mani allentano la presa ed egli sente che presto dovrà arrendersi alla fine che lo attende da ambedue le parti; ma egli continua a reggersi e mentre sta aggrappato si guarda attorno e vede due topi: uno nero e l’altro bianco che girando uno di qua e uno di là dal fusto del cespuglio a cui sta appeso, si sono messi a roderlo. Ed ecco che il cespuglio è lì lì per schiantarsi e precipitare ed egli cadrà nelle fauci del drago. Il viandante vede tutto ciò e sa che inevitabilmente perirà; ma mentre sta così appeso cerca intorno a sé e trova sulle foglie del cespuglio delle gocce di miele, le raggiunge con la lingua e le lecca.

     Tolstoj trae una conclusione amara, che espone per se stesso, ma attribuendogli valore universale. Come l’infelice viandante, anch’egli si regge ai rami della vita sapendo che il drago della morte, pronto a sbranarlo, aspetta inevitabilmente e non può capire come mai è sottoposto a questa tortura. Prova a succhiare quel miele in cui prima trovavo consolazione; ma questo miele ormai non lo rallegra più e il topo bianco e il topo nero – giorno e notte – rodono il ramo a cui si regge. Vede chiaramente il drago e il miele non è più dolce per lui. Vede una cosa sola: il drago inevitabile e i topi – e non può distogliere lo sguardo da essi. E questa non è una favola bensì la vera verità indiscutibile e comprensibile a tutti.

     Così, il sopportico mi parve un pozzo spaventevole.

Alcuni anni dopo Antonio Albanese mi prestò un fascicolo della rivista mensile di politica e letteratura Il Ponte. La rivista era stata fondata nel 1945 da Piero Calamandrei. Ad affiancare Calamandrei c’erano l’economista Alberto Bertolino, il politico Enzo Enriques Agnoletti, lo scrittore Corrado Tumiati e lo storico della letteratura Vittore Branca.

     Su quel fascicolo era stata pubblicata una poesia di Rocco Scotellaro, che aveva un bellissimo titolo – Al Sopportico delle Api il primo amore. Vinsi la sensazione che mi incuteva il sopportico e capii di quale aurea poetica Rocco l’aveva circondato.  E amai moltissimo altre due sue poesie – Vico Tapera e Il giardino dei poveri – che sono l’anima di Tricarico.:.

 

Al sopportico delle Api

affisse ai muri le nostre iniziali

col colore della paglia bruciata.

L’amore nostro crebbe qui

nella stalla vicina.

E io vederti sorgere tenera ombra,

misuravo le parole tue calde

cercandoti le labbra con le dita.

Ombre di noi che siamo in fuga

si allungano, scompaiono

quando la lucerna del mulattiere

mette fremito alle bestie per la biada.

    

     La scritta sul muro fu sostituita, così come in tutte le strade del paese, da una targa composta con mattonelle. Una per volta le mattonelle caddero, sostituite da altre mattonelle. Le api non ci sono più, sostituite da lapi inesistenti in natura, sui vocabolari e sulle enciclopedie.

     L’addetto del comune, incaricato di scrivere il nome del sopportico,  non sapendo, giustamente, cosa fossero i lapi e pensando a un errore, insomma che in comune avessero scritto lapi al posto di api, corresse la scritta che gli era stata affidata da trascrivere, e così rimase per alcuni decenni e così l’ha conosciuta la mia generazione e, fortunatamente, Rocco Scotellaro. L’addetto del comune merita grande riconoscenza per aver tracciato una strada luminosa per la poesia.

     Ma i lapi, i lapi cosa sono? Ripeto: i lapi non esistono in natura, sui vocabolari e sulle enciclopedie. Se ne possono trovare, con la L maiuscola, sugli elenchi telefonici della Toscana e delle province limitrofe. Null’altro.

     Il mistero è agevolmente spiegabile, con un po’ di fantasia. Il sopportico fu dedicato ai lapicidi, che sono gli artisti della pietra. Lapicida e omicida hanno la stessa desinenza cida, dal verbo latino caedere = troncare, tagliare. L’etimo è lo stesso, ma gli effetti sono affatto diversi se si interviene su una pietra o su una persona umana. Della diversità non ebbe ad accorgersene qualcuno in comune, che troncò la parola, pensando di far salva la vita ai poveri lapi.  

     Dai lapi alle api. La favola è finita. Le api volano nell’aria, nelle parole scritte della poesia di Scotellaro. Grande cosa ci resta.

 

Was bleibet aber,

sufren die Dichter.

(Ma quel che resta,

è dono dei poeti).

 

Friedrich Hölderlin

Andenken

 

 

 

 

 

 

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