Rocco scrive il memoriale di Vasco, capraio, che aveva le carni odoranti di latte e di formaggio. Vasco era capo di un terzetto di spenditori di monete false. Il memoriale sfugge a una delle rigorose, minuziose ispezioni della camerata, persino tra il fieno dei pagliericci portati sulla loggiata e spulciati uno ad uno, da cui si levavano colonne di polvere.  Rocco tremava, temendo che le guardie trovassero il memoriale, e Giappone lo rassicurò: – Non ti preoccupare. Sta bene dove si trova -. E, infatti, Rocco lo ritrovò nella pagnotta che il portapranzo gli consegnò dopo il passeggio.

La descrizione dell’ispezione nei suoi assurdi dettagli fa correre la mente, per contrasto, alla sommaria descrizione di Silvio Pellico delle perquisizioni effettuate nella sua cella dello Spielberg. Dice solamente che ne erano effettuate tre al giorno da due guardie accompagnate dal sovrintendente del carcere, che dopo la perquisizione si fermava un po’ a parlare. Con l’ispezione nel carcere di Matera si ha la conta dei carcerati, uno per uno, segnati con l’indice puntato sul petto di ognuno e, quindi, l’umiliante ispezione corporale. Sono sequestrati i mozziconi di lapis, le carte scritte, le cinghie, i coperchi foracchiati delle scatole di crema per le scarpe, di cui i carcerati si servivano per grattugiare il formaggio. A Rocco sequestrano una sorta di libretto per appunti fatto dal compagno di galera calzolaio con bustine di trinciato comune, sigarette «alfa» e nazionali spiegate e legate col filo.

Ma il memoriale di Vasco si salva grazie a Giappone. Urgeva però completarlo, perché il processo era imminente e il pericolo del sequestro sempre incombente.

Il terzetto di falsari erano in carcere da nove mesi, in attesa di giudizio. Rocco, scrivendo il memoriale, comprende e penetra la contorta psicologia dei carcerati nell’organizzazione della loro difesa e ha modo di esprimere considerazioni personali sulla giustizia.

Dei giudici ha la visione di una classe borghese e privilegiata, figlia della borghesia perbenista lontana dal mondo che egli sente di rappresentare. I giudici studiano i processi dalle nove all’una, quando non hanno gli interrogatori o altre incombenze; all’una vanno a mangiare al ristorante, la sera vanno al cinema. Il padre di Rocco avrebbe voluto per tutto l’oro del mondo che il figlio facesse il giudice, ma Rocco per lo stesso prezzo non avrebbe voluto farlo.

Dei giudici non ha fiducia. Ecco cosa scrive, riferendosi alla sua situazione personale: «Il mio giudice mi disse: – Dite se è una persecuzione politica, ma datemi le prove.

Io lo guardai, un secondo, con l’occhio del suo antenato e con quello di suo figlio. Gli vidi i baffi neri e la fede al dito, le labbra di creta e i suoi occhi scattavano come persiane. Avrei voluto parlargli d’altro, non gli risposi. Seppi poi che disse a un suo amico che io lo guardavo dall’alto in basso. Infatti, lui mi pareva una sveglia enorme su un comodino.  Tutti i giudici erano dei pendoloni carichi, le cui lance segnavano il tempo, le ore e i minuti e scoppiavano all’ora voluta dal potere esecutivo.

Le pochissime volte che qualcuno di loro si ribellò  e volle funzionare secondo le leggi scritte e decantate  sulle lapidi, la sveglia si ruppe prima di suonare. Un giudice che non si spiega le cose e deve seguire il  carro del potere, è lo scrivano del carabiniere semianalfabeta, è uno schiavo principe o no che può gustare  soltanto il cibo che gli portano, è un meccanismo …

Macchinette siamo anche noi con molle e rotelle insostituite e insostituibili. A differenza dei giudici, siamo liberi di peccare, difenderci e accusare».

Il problema della giustizia Rocco l’aveva anche guardato con forte pregiudizio ideologico. Qualche anno prima, come membro della direzione provinciale del partito socialista, si era opposto energicamente alla proposta di denunciare un funzionario del partito che aveva commesso una qualche irregolarità amministrativa, trovando scandaloso che si volesse rimettere il caso alla «giustizia borghese».

Il memoriale, prolisso, contorto, ricco di infiniti inutili dettagli, di accuse e ritrattazioni, di tortuosi sillogismi, si articola in sette capitoli. Ne do un saggio, che si scoprirà essere crudo elemento di un dramma, che si conclude con la morte di Vasco: «Nel momento dell’arresto di Coccia Innocenzo – cominciava il memoriale di Vasco – lui dichiarò che  questi biglietti falsi l’aveva ricevuti da un certo Bartolomeo capraio, che io 4 o 5 mesi fa gli vendetti  una capra e precisamente abito alla Massaria Ficocchia  vicino al Sanatorio, è presso la strada litoranea, e dice  queste testuali parole: ‘io il giorno 10 Agosto vendevo  fichidindia e verdure’. Prima di tutto domando al Coccia Innocenzo se tiene il patentino e la licenza e il posto assegnato e poi gli domando, al Coccia: Che verdure vendevi? Se questo risulta tutto giusto, allora possiamo  credere che è avvenuto l’incontro con il Bartolomeo  capraio. Ma la verità risulta che lui è un commerciante  ambulante di formaggio, cacioricotta, uova e latticini;  non ha mai venduto fichi d’india e verdura».

Il memoriale finiva con la richiesta di assoluzione  per non aver commesso il fatto. Inoltre, Vasco volle che Rocco gli annotasse nell’ordine tutte le domande di una certa importanza che egli avrebbe rivolto al Signor Presidente.

E’ interessante leggere l’immaginario interrogatorio.

«Presidente, domandi a Caccia: Dove vendevi le  fichidinie e verdure?

– Caccia, dove vendevi queste fichidinie e verdure?

– lo? A Taranto.

– Sì, lo so. Ma voglio sapere a che punto vendevi questa roba.

– A … al Borgo.

– Ma sì. lo voglio indicato proprio il punto dove tu stavi fermo e se tu mi precisi qualche segno di  una rivendita o di una cantina. Insomma voglio indicato qualche segno da te.

– Ah! Ho capito. lo vendevo fichidindie e verdure  a Via D’Aquino, vicino al movimento.

Ecco, Signor del Tribunale, come fa a vendere questa roba a Via D’Aquino, è proibito. I carretti non possono transitare, a causa del movimento. Come portava la merce, con l’aeroplano?».

«Vasco saltava di nuovo avanti ai cancelli felice  delle risposte ingenue del suo complice scemo e delle  sue battute fulminanti».

Il processo si risolse favorevolmente. Vasco e i Ciafarro furono assolti, Caccia rimaneva dentro ancora qualche mese «

Qualche anno dopo i giornali avrebbero pubblicato la notizia che Bartolomeo Vasco, capraio, era morto ucciso da ignoti, di notte, in una casa di campagna, la Masseria Ficocchia, presso il Sanatorio, vicino alla strada litoranea.

 

 

[VII]

 

Quella mattina avvenne la solita visita con il rumore  dei ferri ai cancelli delle finestre e con la conta del  capo guardia che ci toccava il petto da lontano col  cenno di bacchetta del suo indice. Dopo la conta e  le campane suonate ai ferri, si svegliavano i signori  vicini e i passeri se ne scappavano dai cipressi, ci dissero di raccogliere i pagliericci e portarli fuori sulla  loggiata.

Intanto ci aprivamo la giacca, ci calavamo i pantaloni, la guardia ci toccava il petto e le natiche. Spulciatura era, la visita minuziosa. Toglievano i mozziconi  di lapis, le carte scritte, i coperchi foracchiati delle  scatole di crema per calzature, che ci servivano per  grattuggiare il formaggio, le cinghie; a me sequestrarono  le bustine di trinciato comune e delle sigarette «alfa»  e «nazionali» che il calzolaio mi aveva spiegate e legate  col filo facendone un libretto, dove scrivevo.

Uscimmo all’aria, passando a uno a uno sulla loggiata dove erano accatastati i pagliericci e la polvere  era densa e saliva fumando.

Le guardie continuarono a cercare le pulci tra i  fili del fieno.

Giappone, come nulla fosse, passeggiava lestamente  avanti e indietro. Si avviava verso il muro, con Ciccio,  come verso un negozio e poi tornava verso un altro  negozio. Cominciò a muovere le mani con Ciccio che  gridava, discutevano tutti e due di affari importanti  come due negozianti sulla piazza.

lo tremavo, gli corsi vicino; lui mi sorrise: – Non  ti preoccupare, sta bene dove si trova. – E mi scacciò  con una mano.

Era il memoriale di Vasco, che io scrivevo. Lo  ritrovai infatti nella pagnotta che il portapranzo mi  consegnò, dopo il passeggio.

Vasco ottenne che io uscissi, per la barba, per  dirmi il séguito del memoriale e raccomandare di sbrigarmi; la causa era fissata a giorni e si passava pericolo  di sequestro. Era un vero capraio, col suo abito di  velluto marrone e i pantaloni alla zuava, la coppola  grigia. La carne sua, se non odorava più del latte e  del cacio, era però legnosa e tenera, secca di sudore.  Non lo capivo bene: parlando mi pareva innocente perché la sua persona faceva vedere il capraio che  era stato, ma il memoriale scritto suonava così difensivo e avvocatesco che non ebbi il coraggio di correggerlo, perché una parola mal messa avrebbe rotta la  tesi e scoperto il giuoco, che io scoprivo.

Maneggiava il rasoio al mio mento a piccoli colpi,  guardava alla guardia che ci voltava le spalle, appoggiata alla ringhiera della loggiata, per dire a me, sottovoce: – Ce la fai per stasera? – e alla guardia: _  Superiore, state scontento, ecco fumate – impacciandosi  nel tenere il sapone, la carta, il rasoio, e frugare nelle  tasche per dargli una sigaretta.

– Hai riletto la prima parte. Che te ne pare? È  piazzata bene per l’insufficienza di prove, l’avvocato  farà il resto. Dei tre di noi uno però deve rimanere  dentro, un anno o due, e, se al tribunale sono carogne,  anche tre. Guardia, che dite? Sabato venturo perdete  il barbiere.

lo, al posto del giudice, non sapevo chi portare  assoluto, chi condannato. Capivo però bene il giuoco.  I tre spacciatori di moneta falsa, con Vasco a capo,  stavano dentro da 9 mesi. Prove e controprove, i tre  non avevano tenuto sempre la stessa linea difensiva  – come Vasco – ed erano arrivati alle accuse reciproche. Poi anche i testimoni a carico avevano ritrattato.  Ai confronti gli accusatori una volta li riconoscevano  bene, Vasco e compagni, e poi affermavano che non  erano più loro, ma altri. Le famiglie dei carcerati intanto ripagavano i danneggiati, già al secondo mese  di carcere, e la causa poteva anche finire. Gli avvocati  chiamavano ai colloqui i carcerati e le famiglie, attaccando la giaculatoria: – Esce questo mese, esce quest’altro. Faccio un’istanza. Il procuratore generale è a Roma. La requisitoria non è depositata. Andiamo a ottobre, questa sessione è piena… Hanno trasferito il  giudice, questo che viene è un amico …

La guerra dei processi aveva battute di arresto e  momenti di mischie furiose, indistricabili. I detenuti,  quelli come Vasco, erano severi e crudeli, misuravano  le forze dell’avversario, sceglievano i mercenari e i  propagandisti, dalla tana del carcere muovevano tutte  le pedine necessarie: I giudici studiavano i processi  dalle nove all’una, quando non avevano gl’interrogatori  e le altre incombenze; all’una andavano a mangiare  al ristorante, la sera andavano al cinema.

Mio padre ci teneva, voleva che io facessi il giudice  per tutto l’oro del mondo e io per lo stesso prezzo  non l’avrei voluto, senza sapere che per essere accettato  al concorso è necessario che l’antenato della settima  generazione non sia stato né omicida, né contravventore, né adultero.

Il mio giudice mi disse: – Dite se è una persecuzione politica, ma datemi le prove.

Io lo guardai, un secondo, con l’occhio del suo  antenato e con quello di suo figlio. Gli vidi i baffi  neri e la fede al dito, le labbra di creta e i suoi  occhi scattavano come persiane. Avrei voluto parlargli  d’altro, non gli risposi. Seppi poi che disse a un suo  amico che io lo guardavo dall’alto in basso. Infatti  lui mi pareva una sveglia enorme su un comodino.  Tutti i giudici erano dei pendoloni carichi, le cui lancie  segnavano il tempo, le ore e i minuti e scoppiavano  all’ora voluta dal potere esecutivo.

Le pochissime volte che qualcuno di loro si ribellò  e volle funzionare secondo le leggi scritte e decantate  sulle lapidi, la sveglia si ruppe prima di suonare. Un  giudice che non si spiega le cose e deve seguire il  carro del potere, è lo scrivano del carabiniere semianalfabeta, è uno schiavo principe o no che può gustare  soltanto il cibo che gli portano, è un meccanismo …

Macchinette siamo anche noi con molle e rotelle insostituite e insostituibili. A differenza dei giudici,  siamo liberi di peccare, difenderci e accusare.

Bartolomeo mi aveva dettato, io scritto.

«Nel momento dell’arresto di Coccia Innocenzo – cominciava il memoriale di Vasco – lui dichiarò che  questi biglietti falsi l’aveva ricevuti da un certo Bartolomeo capraio, che io 4 o 5 mesi fa gli vendetti  una capra e precisamente abito alla Massaria Ficocchia  vicino al Sanatorio, è presso la strada litoranea, e dice  queste testuali parole: ‘io il giorno 10 Agosto vendevo  fichidinie e verdure’. Prima di tutto domando al Coccia  Innocenzo se tiene il patentino e la licenza e il posto  assegnato e poi gli domando, al Coccia: Che verdure  vendevi? Se questo risulta tutto giusto, allora possiamo  credere che è avvenuto l’incontro con il Bartolomeo  capraio. Ma la verità risulta che lui è un commerciante  ambulante di formaggio, cacioricotta, uova e latticini;  non ha mai venduto fichi d’india e verdura.

Secondo. Poi il Coccia, davanti al Signor Maresciallo, non sa precisare se ha ricevuto dal Bartolomeo  Vasco 6 biglietti o 5. Dice che non si ricorda se  sono 5 o 6. Questa è un’altra bugia. Perché tu se  avevi ricevuto 5 dovevi dire 5, se avevi ricevuto 6,  dovevi dire 6.

Terzo. Coccia poi dichiara che il giorno 10 agosto  mentre che io vendevo fichidinie e verdure, mi vidi  avvicinare da un certo Bartolomeo e parlammo a riguardo delle capre che gli vendetti 4 o 5 mesi fa e  il Vasco mi disse queste testuali parole: Cosa guadagni  a questo mestiere? E io, Coccia, risposi: Guadagno  la misera vita. Bartolomeo risponde: Perché non cambi  questo mestiere? e io rispondo: E che mestiere devo  fare per guadagnare di più? Risponde Bartolomeo:  lo ci ho 5 biglietti falsi e li devi cambiare e facciamo  metà per ciascuno. Coccia rispose di si e così Bartolomeo tira dalla tasca una carta e dentro stavano involti  5 biglietti falsi e io li presi e me li misi in tasca.

Perciò anche questo risulta falso. Prima di tutto  dovete ricordare che Coccia non si ricorda se i biglietti  erano 5 o 6, poi dovete tenere presente che lui precisò  bene con la parola cinque biglietti. Poi il Maresciallo  descrive ‘Vasco Bartolomeo è molto scaltro’; se vera-  mente dobbiamo tenere vera la parola del Maresciallo  che Vasco è un uomo scaltro, non si avesse mai presentato in quel modo che dice il Coccia, ma non solo  Vasco, ma neanche un uomo stupido si poteva presentare in quella forma senza conoscere la persona sicura.  Mica si tratta di un sacco di patate che si doveva  cambiare. Se veramente avesse stato il Vasco a dare  questi biglietti, avesse saputo bene sapere la responsabilità di questi biglietti e perciò non avesse mai  andato da questo Coccia senza avere una conoscenza  precisa. Perciò non risulta neanche questa una verità  lampante. Poi dovete ricordare che il Coccia non sa  neanche precisare il cognome del Vasco. E veramente  il Vasco avesse avuto dei rapporti col Coccia doveva  sapere benissimo il cognome del Vasco. Perciò anche  questa è una bugia vera e propria.

Quarto. Poi dovete tenere presente il giorno undici  agosto. Dice il Coccia: lo mi recai a Laterza il giorno  11 e mi recai a casa di Mattei e lì trovai Ciafarro  Nicola e Ciafarro Fedele e mi domandarono se io li  potessi fare occupare a qualche lavoro, essendo che  io facevo Taranto-Bari.

Domando ora a Coccia: Cosa facevi Taranto-Bari?

 Coccia dice queste parole a rispondere a Ciafarro  e a tutta la compagnia: ‘Anco io mi trovo a tristi  condizioni senza lavorare, tanto vero che ho accettato  da un certo Bartolomeo 5 vaglia di L. 10.000 ciascuno  per andarli a cambiare, ma a questo momento mi sono  pentito e li voglio ritornare indietro’.

E così subito risponde Ciafarro Nicola: ‘Dammi  qui questi biglietti che li cambio io’.

Fino a questo momento il Signor Coccia quasi si  vuole levare la responsabilità di essere colpevole, ma  l’ultimo gradino non se lo ha saputo salire, perché  ha sentito che non suonava bene, ma lui qui stava  quasi per dire che lui era innocente, ma poi ha ripreso  di nuovo il cammino, poi qui si vendono un’altra volta  le patate, che lui si presenta a persone che non ha  mai visto, subito li confida un fatto molto delicato  dei biglietti falsi, a persone che lui ha conosciuto per  la prima volta, perciò anche qui il Coccia non dimostra  una verità.

Quinto. Poi quando il Vasco Bartolomeo veniva  arrestato e, contestata l’accusa fatta a lui, si dichiarava  innocente e chiesto confronto con chi fosse che l’accusava e così il confronto avvenuto, il Coccia non fu  in grado di conoscere quel Bartolomeo che lui diceva,  anzi disse queste testuali parole: ‘Non è questo quel  Bartolomeo che a me si presentò’. Ma poi rimasto  solo con il Maresciallo e diversi carabinieri, anzi i  marescialli erano due, e così lo fecero finire al Coccia  a dire: ‘Forse che quel Bartolomeo, che si presentò  da me, adesso sia magrito e io non lo conosco bene’.  Qui credo che ci sta qualche cosa di fesseria vera e  propria. Come si fa a magrire in tre giorni dal 10 al  13. In tre giorni non credo che un uomo non si  può conoscere. Poi dovete tener presente che Coccia  dice che 4 o 5 mesi fa ha venduto una capra e perciò  la deve conoscere con tanta precisione. Ma la bugia  ci ha sempre le gambe corte, perciò anche questo non  corrisponde a verità.

Sesto. Poi il Coccia dice al Signor Giudice che  un giorno ha venduto il formaggio a una persona  che lui non conosce e ha ricevuto due vaglia da 10  milalire e uno da 5 milalire, e non li ha conosciuti se fossero falsi: ‘lo credevo di essere buone’. Perciò,  Signori di questo Tribunale, voglio sapere qual’è la  verità di questo Coccia, che voi volete tenere verità  se li ha ricevuti quando lui ha venduto il formaggio  oppure che lui li ha ricevuti da questo Bartolomeo il  capraio che abita alla Massaria Ficocchia vicino al sanatorio. Perciò vogliamo ammettere che il Coccia ha  ricevuto dal Bartolomeo i 5 biglietti e voi come fate  a tenere responsabile Vasco Bartolomeo, chi me lo  dice che una persona che conosce a Vasco Bartolomeo  sia presentato con quel nome da Coccia. Voi Signor  del Tribunale quale prova avete a carico del Vasco?  Nessuna prova, non è neanco chiamata di correità perché il Vasco ha fatto due confronti e non è stato  mai riconosciuto. Perciò non potete dire che questa  sia chiamata di correità, ma la verità sarà precisa quella  che il Coccia dice, che ha venduto il formaggio e  perciò deve rispondere solo lui di questo reato.

Settimo. Poi a riguardo della lettera anonima fatta  al Signor Giudice Istruttore a carico di Vasco non  risulta nulla di verità, perché la lettera dice che questo  Alfredo che tiene la cantina e dietro alla cucina fa  una stanza e su alla destra fa un’altra stanza e li ci  sta una grossa crasta di vino, levate quella crasta e  lì trovate un buco e lì dovete trovare un camerino e  lì dovete trovare tutto, poi dice che ci sta un certo  Tortorella che tiene un caffè alla via di mezzo e da  lui saprete meglio la verità di tutto, quando poi all’indagini dei carabinieri non risulta affatto questo caffè  e non risulta vero che alla cantina ci sta questo buco  a forma di camerino».

Il memoriale finiva con la richiesta di assoluzione  per non aver commesso il fatto. Inoltre il mio amico  voleva che gli annotassi nell’ordine tutte le domande  di una certa importanza che egli avrebbe rivolto al  Signor Presidente.

«Presidente, domandi a Caccia: Dove vendevi le  fichidinie e verdure?

– Caccia, dove vendevi queste fichidinie e verdure?

– lo? A Taranto.

– Sì, lo so. Ma voglio sapere a che punto vendevi questa roba.

– A … al Borgo.

– Ma sì. lo voglio indicato proprio il punto dove tu stavi fermo e se tu mi precisi qualche segno di  una rivendita o di una cantina. Insomma voglio indicato qualche segno da te.

– Ah! Ho capito. lo vendevo fichidinie e verdure  a Via D’Aquino, vicino al movimento.

Ecco, Signor del Tribunale, come fa a vendere  questa roba a Via D’Aquino, è proibito. I carretti  non possono transitare, a causa del movimento. Come  portava la merce, con l’aeroplano?».

Vasco saltava di nuovo avanti ai cancelli felice  delle risposte ingenue del suo complice scemo e delle  sue battute fulminanti.

Giappone lo chiamava apposta per farlo danzare  avanti al nostro cancello. Egli menava le gambe all’aria  e noi gli gridavamo contro con fischi e urla. Doveva  scappare via subito nella camerata degl’inservienti col  cancello aperto, per sfuggire alle guardie che accorrevano al nostro chiasso.

Venne a saltare, dopo il processo, e rimase al cancello con tutto il nostro chiasso, era stato assolto lui  e i Ciafarro; Caccia rimaneva dentro ancora qualche  mese.

Ricevemmo, quel giorno stesso, litri di vino dal  libero cittadino Bartolomeo, che volle così chiudere e  gloriare la nostra amicizia; litri e sigarette e denaro  ebbero le guardie per il loro benevolo servizio di custodia e di «Vigilando redimere», secondo il motto.

Vasco usciva redento per la terza o la quarta volta.

Qualche anno dopo i giornali avrebbero pubblicato  la notizia che Bartolomeo Vasco, capraio, era morto  ucciso da ignoti, di notte, in una casa di campagna,  la Masseria Ficocchia, presso il Sanatorio, vicino alla  strada litoranea.

La memoria di Coccia, fatta e rifatta, finiva con queste parole: « .. .Io voglio sperare che la signoria  vostra vuole riconoscere bene la mia innocenza e di  pensare che ci ho moglie e figli e i miei genitori  tutti invalidi al lavoro e mi dovete perdonare se io  non ho subito dichiarato la verità. È stato che io  avevo paura, essendo recidivo».

 

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