L’UVA PUTTANELLA__Parte III, Cap. VII__Il memoriale, l’assoluzione e la morte di Vasco, capraio__Il giudizio di Rocco sui giudici
Rocco scrive il memoriale di Vasco, capraio, che aveva le carni odoranti di latte e di formaggio. Vasco era capo di un terzetto di spenditori di monete false. Il memoriale sfugge a una delle rigorose, minuziose ispezioni della camerata, persino tra il fieno dei pagliericci portati sulla loggiata e spulciati uno ad uno, da cui si levavano colonne di polvere. Rocco tremava, temendo che le guardie trovassero il memoriale, e Giappone lo rassicurò: – Non ti preoccupare. Sta bene dove si trova -. E, infatti, Rocco lo ritrovò nella pagnotta che il portapranzo gli consegnò dopo il passeggio.
La descrizione dell’ispezione nei suoi assurdi dettagli fa correre la mente, per contrasto, alla sommaria descrizione di Silvio Pellico delle perquisizioni effettuate nella sua cella dello Spielberg. Dice solamente che ne erano effettuate tre al giorno da due guardie accompagnate dal sovrintendente del carcere, che dopo la perquisizione si fermava un po’ a parlare. Con l’ispezione nel carcere di Matera si ha la conta dei carcerati, uno per uno, segnati con l’indice puntato sul petto di ognuno e, quindi, l’umiliante ispezione corporale. Sono sequestrati i mozziconi di lapis, le carte scritte, le cinghie, i coperchi foracchiati delle scatole di crema per le scarpe, di cui i carcerati si servivano per grattugiare il formaggio. A Rocco sequestrano una sorta di libretto per appunti fatto dal compagno di galera calzolaio con bustine di trinciato comune, sigarette «alfa» e nazionali spiegate e legate col filo.
Ma il memoriale di Vasco si salva grazie a Giappone. Urgeva però completarlo, perché il processo era imminente e il pericolo del sequestro sempre incombente.
Il terzetto di falsari erano in carcere da nove mesi, in attesa di giudizio. Rocco, scrivendo il memoriale, comprende e penetra la contorta psicologia dei carcerati nell’organizzazione della loro difesa e ha modo di esprimere considerazioni personali sulla giustizia.
Dei giudici ha la visione di una classe borghese e privilegiata, figlia della borghesia perbenista lontana dal mondo che egli sente di rappresentare. I giudici studiano i processi dalle nove all’una, quando non hanno gli interrogatori o altre incombenze; all’una vanno a mangiare al ristorante, la sera vanno al cinema. Il padre di Rocco avrebbe voluto per tutto l’oro del mondo che il figlio facesse il giudice, ma Rocco per lo stesso prezzo non avrebbe voluto farlo.
Dei giudici non ha fiducia. Ecco cosa scrive, riferendosi alla sua situazione personale: «Il mio giudice mi disse: – Dite se è una persecuzione politica, ma datemi le prove.
Io lo guardai, un secondo, con l’occhio del suo antenato e con quello di suo figlio. Gli vidi i baffi neri e la fede al dito, le labbra di creta e i suoi occhi scattavano come persiane. Avrei voluto parlargli d’altro, non gli risposi. Seppi poi che disse a un suo amico che io lo guardavo dall’alto in basso. Infatti, lui mi pareva una sveglia enorme su un comodino. Tutti i giudici erano dei pendoloni carichi, le cui lance segnavano il tempo, le ore e i minuti e scoppiavano all’ora voluta dal potere esecutivo.
Le pochissime volte che qualcuno di loro si ribellò e volle funzionare secondo le leggi scritte e decantate sulle lapidi, la sveglia si ruppe prima di suonare. Un giudice che non si spiega le cose e deve seguire il carro del potere, è lo scrivano del carabiniere semianalfabeta, è uno schiavo principe o no che può gustare soltanto il cibo che gli portano, è un meccanismo …
Macchinette siamo anche noi con molle e rotelle insostituite e insostituibili. A differenza dei giudici, siamo liberi di peccare, difenderci e accusare».
Il problema della giustizia Rocco l’aveva anche guardato con forte pregiudizio ideologico. Qualche anno prima, come membro della direzione provinciale del partito socialista, si era opposto energicamente alla proposta di denunciare un funzionario del partito che aveva commesso una qualche irregolarità amministrativa, trovando scandaloso che si volesse rimettere il caso alla «giustizia borghese».
Il memoriale, prolisso, contorto, ricco di infiniti inutili dettagli, di accuse e ritrattazioni, di tortuosi sillogismi, si articola in sette capitoli. Ne do un saggio, che si scoprirà essere crudo elemento di un dramma, che si conclude con la morte di Vasco: «Nel momento dell’arresto di Coccia Innocenzo – cominciava il memoriale di Vasco – lui dichiarò che questi biglietti falsi l’aveva ricevuti da un certo Bartolomeo capraio, che io 4 o 5 mesi fa gli vendetti una capra e precisamente abito alla Massaria Ficocchia vicino al Sanatorio, è presso la strada litoranea, e dice queste testuali parole: ‘io il giorno 10 Agosto vendevo fichidindia e verdure’. Prima di tutto domando al Coccia Innocenzo se tiene il patentino e la licenza e il posto assegnato e poi gli domando, al Coccia: Che verdure vendevi? Se questo risulta tutto giusto, allora possiamo credere che è avvenuto l’incontro con il Bartolomeo capraio. Ma la verità risulta che lui è un commerciante ambulante di formaggio, cacioricotta, uova e latticini; non ha mai venduto fichi d’india e verdura».
Il memoriale finiva con la richiesta di assoluzione per non aver commesso il fatto. Inoltre, Vasco volle che Rocco gli annotasse nell’ordine tutte le domande di una certa importanza che egli avrebbe rivolto al Signor Presidente.
E’ interessante leggere l’immaginario interrogatorio.
«Presidente, domandi a Caccia: Dove vendevi le fichidinie e verdure?
– Caccia, dove vendevi queste fichidinie e verdure?
– lo? A Taranto.
– Sì, lo so. Ma voglio sapere a che punto vendevi questa roba.
– A … al Borgo.
– Ma sì. lo voglio indicato proprio il punto dove tu stavi fermo e se tu mi precisi qualche segno di una rivendita o di una cantina. Insomma voglio indicato qualche segno da te.
– Ah! Ho capito. lo vendevo fichidindie e verdure a Via D’Aquino, vicino al movimento.
Ecco, Signor del Tribunale, come fa a vendere questa roba a Via D’Aquino, è proibito. I carretti non possono transitare, a causa del movimento. Come portava la merce, con l’aeroplano?».
«Vasco saltava di nuovo avanti ai cancelli felice delle risposte ingenue del suo complice scemo e delle sue battute fulminanti».
Il processo si risolse favorevolmente. Vasco e i Ciafarro furono assolti, Caccia rimaneva dentro ancora qualche mese «
Qualche anno dopo i giornali avrebbero pubblicato la notizia che Bartolomeo Vasco, capraio, era morto ucciso da ignoti, di notte, in una casa di campagna, la Masseria Ficocchia, presso il Sanatorio, vicino alla strada litoranea.
[VII]
Quella mattina avvenne la solita visita con il rumore dei ferri ai cancelli delle finestre e con la conta del capo guardia che ci toccava il petto da lontano col cenno di bacchetta del suo indice. Dopo la conta e le campane suonate ai ferri, si svegliavano i signori vicini e i passeri se ne scappavano dai cipressi, ci dissero di raccogliere i pagliericci e portarli fuori sulla loggiata.
Intanto ci aprivamo la giacca, ci calavamo i pantaloni, la guardia ci toccava il petto e le natiche. Spulciatura era, la visita minuziosa. Toglievano i mozziconi di lapis, le carte scritte, i coperchi foracchiati delle scatole di crema per calzature, che ci servivano per grattuggiare il formaggio, le cinghie; a me sequestrarono le bustine di trinciato comune e delle sigarette «alfa» e «nazionali» che il calzolaio mi aveva spiegate e legate col filo facendone un libretto, dove scrivevo.
Uscimmo all’aria, passando a uno a uno sulla loggiata dove erano accatastati i pagliericci e la polvere era densa e saliva fumando.
Le guardie continuarono a cercare le pulci tra i fili del fieno.
Giappone, come nulla fosse, passeggiava lestamente avanti e indietro. Si avviava verso il muro, con Ciccio, come verso un negozio e poi tornava verso un altro negozio. Cominciò a muovere le mani con Ciccio che gridava, discutevano tutti e due di affari importanti come due negozianti sulla piazza.
lo tremavo, gli corsi vicino; lui mi sorrise: – Non ti preoccupare, sta bene dove si trova. – E mi scacciò con una mano.
Era il memoriale di Vasco, che io scrivevo. Lo ritrovai infatti nella pagnotta che il portapranzo mi consegnò, dopo il passeggio.
Vasco ottenne che io uscissi, per la barba, per dirmi il séguito del memoriale e raccomandare di sbrigarmi; la causa era fissata a giorni e si passava pericolo di sequestro. Era un vero capraio, col suo abito di velluto marrone e i pantaloni alla zuava, la coppola grigia. La carne sua, se non odorava più del latte e del cacio, era però legnosa e tenera, secca di sudore. Non lo capivo bene: parlando mi pareva innocente perché la sua persona faceva vedere il capraio che era stato, ma il memoriale scritto suonava così difensivo e avvocatesco che non ebbi il coraggio di correggerlo, perché una parola mal messa avrebbe rotta la tesi e scoperto il giuoco, che io scoprivo.
Maneggiava il rasoio al mio mento a piccoli colpi, guardava alla guardia che ci voltava le spalle, appoggiata alla ringhiera della loggiata, per dire a me, sottovoce: – Ce la fai per stasera? – e alla guardia: _ Superiore, state scontento, ecco fumate – impacciandosi nel tenere il sapone, la carta, il rasoio, e frugare nelle tasche per dargli una sigaretta.
– Hai riletto la prima parte. Che te ne pare? È piazzata bene per l’insufficienza di prove, l’avvocato farà il resto. Dei tre di noi uno però deve rimanere dentro, un anno o due, e, se al tribunale sono carogne, anche tre. Guardia, che dite? Sabato venturo perdete il barbiere.
lo, al posto del giudice, non sapevo chi portare assoluto, chi condannato. Capivo però bene il giuoco. I tre spacciatori di moneta falsa, con Vasco a capo, stavano dentro da 9 mesi. Prove e controprove, i tre non avevano tenuto sempre la stessa linea difensiva – come Vasco – ed erano arrivati alle accuse reciproche. Poi anche i testimoni a carico avevano ritrattato. Ai confronti gli accusatori una volta li riconoscevano bene, Vasco e compagni, e poi affermavano che non erano più loro, ma altri. Le famiglie dei carcerati intanto ripagavano i danneggiati, già al secondo mese di carcere, e la causa poteva anche finire. Gli avvocati chiamavano ai colloqui i carcerati e le famiglie, attaccando la giaculatoria: – Esce questo mese, esce quest’altro. Faccio un’istanza. Il procuratore generale è a Roma. La requisitoria non è depositata. Andiamo a ottobre, questa sessione è piena… Hanno trasferito il giudice, questo che viene è un amico …
La guerra dei processi aveva battute di arresto e momenti di mischie furiose, indistricabili. I detenuti, quelli come Vasco, erano severi e crudeli, misuravano le forze dell’avversario, sceglievano i mercenari e i propagandisti, dalla tana del carcere muovevano tutte le pedine necessarie: I giudici studiavano i processi dalle nove all’una, quando non avevano gl’interrogatori e le altre incombenze; all’una andavano a mangiare al ristorante, la sera andavano al cinema.
Mio padre ci teneva, voleva che io facessi il giudice per tutto l’oro del mondo e io per lo stesso prezzo non l’avrei voluto, senza sapere che per essere accettato al concorso è necessario che l’antenato della settima generazione non sia stato né omicida, né contravventore, né adultero.
Il mio giudice mi disse: – Dite se è una persecuzione politica, ma datemi le prove.
Io lo guardai, un secondo, con l’occhio del suo antenato e con quello di suo figlio. Gli vidi i baffi neri e la fede al dito, le labbra di creta e i suoi occhi scattavano come persiane. Avrei voluto parlargli d’altro, non gli risposi. Seppi poi che disse a un suo amico che io lo guardavo dall’alto in basso. Infatti lui mi pareva una sveglia enorme su un comodino. Tutti i giudici erano dei pendoloni carichi, le cui lancie segnavano il tempo, le ore e i minuti e scoppiavano all’ora voluta dal potere esecutivo.
Le pochissime volte che qualcuno di loro si ribellò e volle funzionare secondo le leggi scritte e decantate sulle lapidi, la sveglia si ruppe prima di suonare. Un giudice che non si spiega le cose e deve seguire il carro del potere, è lo scrivano del carabiniere semianalfabeta, è uno schiavo principe o no che può gustare soltanto il cibo che gli portano, è un meccanismo …
Macchinette siamo anche noi con molle e rotelle insostituite e insostituibili. A differenza dei giudici, siamo liberi di peccare, difenderci e accusare.
Bartolomeo mi aveva dettato, io scritto.
«Nel momento dell’arresto di Coccia Innocenzo – cominciava il memoriale di Vasco – lui dichiarò che questi biglietti falsi l’aveva ricevuti da un certo Bartolomeo capraio, che io 4 o 5 mesi fa gli vendetti una capra e precisamente abito alla Massaria Ficocchia vicino al Sanatorio, è presso la strada litoranea, e dice queste testuali parole: ‘io il giorno 10 Agosto vendevo fichidinie e verdure’. Prima di tutto domando al Coccia Innocenzo se tiene il patentino e la licenza e il posto assegnato e poi gli domando, al Coccia: Che verdure vendevi? Se questo risulta tutto giusto, allora possiamo credere che è avvenuto l’incontro con il Bartolomeo capraio. Ma la verità risulta che lui è un commerciante ambulante di formaggio, cacioricotta, uova e latticini; non ha mai venduto fichi d’india e verdura.
Secondo. Poi il Coccia, davanti al Signor Maresciallo, non sa precisare se ha ricevuto dal Bartolomeo Vasco 6 biglietti o 5. Dice che non si ricorda se sono 5 o 6. Questa è un’altra bugia. Perché tu se avevi ricevuto 5 dovevi dire 5, se avevi ricevuto 6, dovevi dire 6.
Terzo. Coccia poi dichiara che il giorno 10 agosto mentre che io vendevo fichidinie e verdure, mi vidi avvicinare da un certo Bartolomeo e parlammo a riguardo delle capre che gli vendetti 4 o 5 mesi fa e il Vasco mi disse queste testuali parole: Cosa guadagni a questo mestiere? E io, Coccia, risposi: Guadagno la misera vita. Bartolomeo risponde: Perché non cambi questo mestiere? e io rispondo: E che mestiere devo fare per guadagnare di più? Risponde Bartolomeo: lo ci ho 5 biglietti falsi e li devi cambiare e facciamo metà per ciascuno. Coccia rispose di si e così Bartolomeo tira dalla tasca una carta e dentro stavano involti 5 biglietti falsi e io li presi e me li misi in tasca.
Perciò anche questo risulta falso. Prima di tutto dovete ricordare che Coccia non si ricorda se i biglietti erano 5 o 6, poi dovete tenere presente che lui precisò bene con la parola cinque biglietti. Poi il Maresciallo descrive ‘Vasco Bartolomeo è molto scaltro’; se vera- mente dobbiamo tenere vera la parola del Maresciallo che Vasco è un uomo scaltro, non si avesse mai presentato in quel modo che dice il Coccia, ma non solo Vasco, ma neanche un uomo stupido si poteva presentare in quella forma senza conoscere la persona sicura. Mica si tratta di un sacco di patate che si doveva cambiare. Se veramente avesse stato il Vasco a dare questi biglietti, avesse saputo bene sapere la responsabilità di questi biglietti e perciò non avesse mai andato da questo Coccia senza avere una conoscenza precisa. Perciò non risulta neanche questa una verità lampante. Poi dovete ricordare che il Coccia non sa neanche precisare il cognome del Vasco. E veramente il Vasco avesse avuto dei rapporti col Coccia doveva sapere benissimo il cognome del Vasco. Perciò anche questa è una bugia vera e propria.
Quarto. Poi dovete tenere presente il giorno undici agosto. Dice il Coccia: lo mi recai a Laterza il giorno 11 e mi recai a casa di Mattei e lì trovai Ciafarro Nicola e Ciafarro Fedele e mi domandarono se io li potessi fare occupare a qualche lavoro, essendo che io facevo Taranto-Bari.
Domando ora a Coccia: Cosa facevi Taranto-Bari?
Coccia dice queste parole a rispondere a Ciafarro e a tutta la compagnia: ‘Anco io mi trovo a tristi condizioni senza lavorare, tanto vero che ho accettato da un certo Bartolomeo 5 vaglia di L. 10.000 ciascuno per andarli a cambiare, ma a questo momento mi sono pentito e li voglio ritornare indietro’.
E così subito risponde Ciafarro Nicola: ‘Dammi qui questi biglietti che li cambio io’.
Fino a questo momento il Signor Coccia quasi si vuole levare la responsabilità di essere colpevole, ma l’ultimo gradino non se lo ha saputo salire, perché ha sentito che non suonava bene, ma lui qui stava quasi per dire che lui era innocente, ma poi ha ripreso di nuovo il cammino, poi qui si vendono un’altra volta le patate, che lui si presenta a persone che non ha mai visto, subito li confida un fatto molto delicato dei biglietti falsi, a persone che lui ha conosciuto per la prima volta, perciò anche qui il Coccia non dimostra una verità.
Quinto. Poi quando il Vasco Bartolomeo veniva arrestato e, contestata l’accusa fatta a lui, si dichiarava innocente e chiesto confronto con chi fosse che l’accusava e così il confronto avvenuto, il Coccia non fu in grado di conoscere quel Bartolomeo che lui diceva, anzi disse queste testuali parole: ‘Non è questo quel Bartolomeo che a me si presentò’. Ma poi rimasto solo con il Maresciallo e diversi carabinieri, anzi i marescialli erano due, e così lo fecero finire al Coccia a dire: ‘Forse che quel Bartolomeo, che si presentò da me, adesso sia magrito e io non lo conosco bene’. Qui credo che ci sta qualche cosa di fesseria vera e propria. Come si fa a magrire in tre giorni dal 10 al 13. In tre giorni non credo che un uomo non si può conoscere. Poi dovete tener presente che Coccia dice che 4 o 5 mesi fa ha venduto una capra e perciò la deve conoscere con tanta precisione. Ma la bugia ci ha sempre le gambe corte, perciò anche questo non corrisponde a verità.
Sesto. Poi il Coccia dice al Signor Giudice che un giorno ha venduto il formaggio a una persona che lui non conosce e ha ricevuto due vaglia da 10 milalire e uno da 5 milalire, e non li ha conosciuti se fossero falsi: ‘lo credevo di essere buone’. Perciò, Signori di questo Tribunale, voglio sapere qual’è la verità di questo Coccia, che voi volete tenere verità se li ha ricevuti quando lui ha venduto il formaggio oppure che lui li ha ricevuti da questo Bartolomeo il capraio che abita alla Massaria Ficocchia vicino al sanatorio. Perciò vogliamo ammettere che il Coccia ha ricevuto dal Bartolomeo i 5 biglietti e voi come fate a tenere responsabile Vasco Bartolomeo, chi me lo dice che una persona che conosce a Vasco Bartolomeo sia presentato con quel nome da Coccia. Voi Signor del Tribunale quale prova avete a carico del Vasco? Nessuna prova, non è neanco chiamata di correità perché il Vasco ha fatto due confronti e non è stato mai riconosciuto. Perciò non potete dire che questa sia chiamata di correità, ma la verità sarà precisa quella che il Coccia dice, che ha venduto il formaggio e perciò deve rispondere solo lui di questo reato.
Settimo. Poi a riguardo della lettera anonima fatta al Signor Giudice Istruttore a carico di Vasco non risulta nulla di verità, perché la lettera dice che questo Alfredo che tiene la cantina e dietro alla cucina fa una stanza e su alla destra fa un’altra stanza e li ci sta una grossa crasta di vino, levate quella crasta e lì trovate un buco e lì dovete trovare un camerino e lì dovete trovare tutto, poi dice che ci sta un certo Tortorella che tiene un caffè alla via di mezzo e da lui saprete meglio la verità di tutto, quando poi all’indagini dei carabinieri non risulta affatto questo caffè e non risulta vero che alla cantina ci sta questo buco a forma di camerino».
Il memoriale finiva con la richiesta di assoluzione per non aver commesso il fatto. Inoltre il mio amico voleva che gli annotassi nell’ordine tutte le domande di una certa importanza che egli avrebbe rivolto al Signor Presidente.
«Presidente, domandi a Caccia: Dove vendevi le fichidinie e verdure?
– Caccia, dove vendevi queste fichidinie e verdure?
– lo? A Taranto.
– Sì, lo so. Ma voglio sapere a che punto vendevi questa roba.
– A … al Borgo.
– Ma sì. lo voglio indicato proprio il punto dove tu stavi fermo e se tu mi precisi qualche segno di una rivendita o di una cantina. Insomma voglio indicato qualche segno da te.
– Ah! Ho capito. lo vendevo fichidinie e verdure a Via D’Aquino, vicino al movimento.
Ecco, Signor del Tribunale, come fa a vendere questa roba a Via D’Aquino, è proibito. I carretti non possono transitare, a causa del movimento. Come portava la merce, con l’aeroplano?».
Vasco saltava di nuovo avanti ai cancelli felice delle risposte ingenue del suo complice scemo e delle sue battute fulminanti.
Giappone lo chiamava apposta per farlo danzare avanti al nostro cancello. Egli menava le gambe all’aria e noi gli gridavamo contro con fischi e urla. Doveva scappare via subito nella camerata degl’inservienti col cancello aperto, per sfuggire alle guardie che accorrevano al nostro chiasso.
Venne a saltare, dopo il processo, e rimase al cancello con tutto il nostro chiasso, era stato assolto lui e i Ciafarro; Caccia rimaneva dentro ancora qualche mese.
Ricevemmo, quel giorno stesso, litri di vino dal libero cittadino Bartolomeo, che volle così chiudere e gloriare la nostra amicizia; litri e sigarette e denaro ebbero le guardie per il loro benevolo servizio di custodia e di «Vigilando redimere», secondo il motto.
Vasco usciva redento per la terza o la quarta volta.
Qualche anno dopo i giornali avrebbero pubblicato la notizia che Bartolomeo Vasco, capraio, era morto ucciso da ignoti, di notte, in una casa di campagna, la Masseria Ficocchia, presso il Sanatorio, vicino alla strada litoranea.
La memoria di Coccia, fatta e rifatta, finiva con queste parole: « .. .Io voglio sperare che la signoria vostra vuole riconoscere bene la mia innocenza e di pensare che ci ho moglie e figli e i miei genitori tutti invalidi al lavoro e mi dovete perdonare se io non ho subito dichiarato la verità. È stato che io avevo paura, essendo recidivo».
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