Il capitolo VIII della parte terza dell’UP è un intreccio forzoso di due motivi. Un’altra ben riuscita descrizione del carcere sembra fungere da pretesto per riprendere il discorso sulla giustizia, trattato nel precedente capitolo, con incontenibile violenza e odio di classe. La reazione all’ingiusta detenzione, che si stava protraendo a lungo,  trattiene l’invettiva nell’ambito dello sfogo personale consegnato a una delle pagine meno riuscite.

     Bello l’incipit, che ci consegna la metafora del carcere paragonato a un nido nella chioma del cielo. Da questo nido lo sguardo del carcerato si posa, all’esterno, sull’orologio in cima al lontano palazzo del tribunale (che allora era in piazza, di fronte al palazzo della prefettura), che si riusciva a intravedere attraverso il fogliame degli alberi, a seconda di come le foglie si muovevano. Di fronte all’allora palazzo di giustizia parte una lunga via, che conduceva al carcere. 

     Il tribunale induce a rievocare la condizione carceraria. Il catalogo dei detenuti dell’ufficio matricola annoverava i giudicabili per i reati più gravi (omicidi,  banda armata, rapine, furti, violenza carnale), i transitanti e i minorenni. Dei reati per resistenza e violenza a pubblico  ufficiale, per istigazione a delinquere, per sedizione e  per. tutti quegli altri crimini delle agitazioni contadine, variamente definiti dal  codice, in maggioranza erano imputati i contadini. Su centosettanta detenuti Scotellaro era il solo che avesse studiato. «Giustizia borghese» era un’espressione fondata sulla realtà.

     La descrizione dell’interno del carcere è accorta e minuziosa, non sfugge alcun locale, servizio o dipendenza.

     Nella camerata di Rocco, la camerata numero 7, che era la migliore e consentiva l’affaccio su due panorami, dopo il 18 settembre 1943, per qualche giorno, erano stati rinchiusi i capi fascisti, avvocati e dottori. La data del 18 settembre si spiega, perché a quella data la Lucania era interamente libera (chi vuole legga il mio post, datato 11.02.2011, La liberazione di Tricarico il 18 settembre 1943). Inoltre, vi erano stati rinchiusi alcuni grossisti di olio e di grano negli anni  delle leggi sui granai e sugli oleari del popolo: uno  di questi, anzi, guardando fuori dalla finestra, comodamente perché la persiana un giorno si trovò asportata  o cadde e le pratiche per rimetterla andarono per le  lunghe, s’innamorò di una formosa fanciulla, che si  affacciava al suo balcone ad innaffiare le piante grasse  sulle lastre di marmo, e per la prima volta, quando il grossista cantava, alzava  gli occhi verso il carcere (nido dei serpenti lo chiama Scotellaro). Dopo pochi giorni si sposarono.

     Con i  fascisti entrarono in carcere piatti in quantità.  – Uscirete presto, la galera non è fatta per voi -, dicevano i carcerati comuni, che in quei giorni anche loro si ingrassavano.

Anche a Rocco qualcuno diceva:  – Uscirai presto, la galera non è fatta per te -. Ma egli voleva che non fosse così. E da questa reazione, di cui va colta la sincera motivazione, Scotellaro passa a una violenta invettiva contro la giustizia di classe, amministrata in un mondo antico. Rocco si lascia prendere la mano e si lascia andare alla diffamazione di persone facilmente individuabili o a considerare alla stregua di reati situazioni legittime,  sebbene considerate ingiuste e che oggettivamente scavavano il fossato tra classi sociali,  come retribuzioni elevate, tredicesima mensilità et similia.

La morte, che lo colse prima della pubblicazione dei suoi scritti, gli risparmiò querele per diffamazione e il tempo trascorso ha steso un fitto velo attraverso il quale si intravedono ombre, a qualcuna delle quali solo pochi sopravvissuti saprebbero dare un nome. Che taccio.

 

 

[VIII]

 

Il carcere era un nido nella chioma del cielo. L’orologio  lontano della città, in capo al giallo palazzo del tribunale, era un pezzo del cielo azzurro, che si intravedeva  dalle persiane attraverso il fogliame degli alberi a seconda come si muovevano. Si potevano vedere le lancie  una alla volta, il difficile era però indovinare a dirigere  l’occhio verso il cerchio azzurro, che si spostava nel  cielo. Il catalogo dei detenuti dell’ufficio matricola annoverava i giudicabili per i reati più gravi, omicidi,  banda armata, rapine, furti, violenza carnale, i transitanti e i minorenni; in maggioranza, erano i contadini  del gruppo dei reati per resistenza e violenza a pubblico  ufficiale, per istigazione a delinquere, per sedizione e  per. tutti quegli altri crimini, variamente definiti dal  codice, delle agitazioni contadine. Di 170 collegianti,  io ero il solo che avevo studiato. La camerata numero  sette, dunque, accanto all’ufficio Matricola, al primo  e ultimo piano del convento, mi apparteneva di diritto

Una loggiata correva lungo i muri del piano: per l’infermeria e l’ufficio Matricola, che avevano porte e vetrine, la camerata numero sette nello spigolo, un ripostiglio per il calzolaio e il barbiere, la camerata numero  otto dal cancello di legno grosso, che restava aperto  tutto il giorno per i detenuti lavoranti, cucinieri, barbiere, calzolaio, portapranzo, sagrestano, scopino e scrivanello, e infine la camerata degli sbirri, oltre la quale  cominciava il terzo muro alto e vuoto. Il quarto muro  aveva l’abitazione del Maresciallo comandante e della  sua famiglia, con qualche finestra aperta, e poi il primo  tratto della loggiata. Sotto, al pianterreno del vecchio  convento, c’era la caggiola degli interrogatori e dei  colloqui con gli avvocati, e sotto di noi, come correva  la loggiata, sui due lati del cortile c’erano le altre  camerate dalla prima alla sesta. Al terzo lato la legniera  e il deposito. La cucina era un corpo che invadeva  il cortile all’altro angolo. Sull’ultimo lato la cappella,  specie di grosso armadio, con una porta alta tre metri,  aprendola appariva l’altare; e la portella che menava  alla zanzariera del colloquio ordinario, il detenuto e  la guardia di qua, il visitatore nel corridoio; e la porta,  infine, che dava all’ultimo pezzo di corridoio: vicino  alla scala per il piano di sopra c’erano le panche vecchie  e unte, dove detenuti da una parte, stretti tra loro e  familiari dall’altra, si sedevano, faccia a faccia, e ginocchio a ginocchio, per il colloquio speciale, sotto la  campanella che suonava il mangiare e le fini dei turni  della passeggiata.

Il corridoio, un tubo massiccio di fognatura, di  qui, attraverso tre cancelli, che si aprivano al preavviso  di richiamo delle due guardie fatto con i fischi nel  culo delle chiavi, arrivava all’ingresso. Aperta l’ultima  tavola di ferro con il solo piccolo spiraglio, c’era l’aria  della piazza vuota, e la chiesetta disabitata di tufo  bianco, e l’ospedale, di fronte, e, qui, sul marciapiedi del carcere, la fontana pubblica con le donne insieme  alle donne dei paesi che aspettano nelle lunghe vesti,  sedute per terra e col paniere in grembo, di essere  chiamate al colloquio dalla guardia. Sulla porta di ingresso: «Chi vuol fare del cielo un degno acquisto –  Entri qui dentro a visitar gl’infermi – Con mano porgente e per amore di Cristo. A.D. 1626».

Nella mia camerata, che era la migliore e aveva  due panorami, stettero per qualche giorno i capi fascisti, avvocati e dottori, dopo il 18 Settembre; qui  vennero alcuni grossisti di olio e di grano negli anni  delle leggi sui granai e sugli oleari del popolo: uno  di questi, anzi, guardando fuori dalla finestra, comodamente perché la persiana un giorno si trovò asportata  o cadde e le pratiche per rimetterla andarono per le  lunghe, s’innamorò di una sontuosa fanciulla che si  affacciava al suo balcone ad innaffiare le piante grasse  sulle lastre di marmo, e che per la prima volta alzava  gli occhi al nido dei serpenti, quando il giovane grossista cantava. Dopo pochi giorni si sposarono. Con i  fascisti entrarono piatti in quantità, il maresciallo chiese  aumento di forza, tanto le guardie erano occupate. –  Uscirete presto, la galera non è fatta per voi -. Dicevano i comuni che s’ingrassarono in quei giorni.

lo ero tenuto come quelli dai contadini e dagli  altri: un calzolaio, un camionista, un ambulante, un piccolo proprietario.

Il camionista che disse al commissario: «Non so niente. Sono stato chiamato a caricare paglia». La paglia se n’era caduta alla grande velocità che lui andava  ed erano spuntate sul carro le corna dei buoi rubati,  lui però non ne sapeva niente. Anche lui mi diceva:  – Uscirai presto, la galera non è fatta per te.

Volevo che non fosse così. Non c’erano certi miei  signori che avevano ucciso, sia pure per colpa, avevano  rubato, violentato la servetta di dodici anni? Stavano protetti nel loro castello e ricevevano le autorità in  salotto con la fotografia del genitore, il defunto senatore del Regno, secondo istruttore del processo Matteotti. Il maresciallo non sarebbe venuto qui per i  suoi soprusi, i suoi reati, nemmeno il maresciallo del  carcere se io l’avessi denunciato per concussione continuata offrendo le prove, l’Esattore mai più, che guadagnava 5 milioni all’anno per legge, i veterinari, che  denunciavano l’afta epizootica quando avevano bisogno  di soldi, i segretari comunali, il dottore delle prefetture,  che, per un sopraluogo finito in un’ora, si faceva pagare  tre giorni di trasferta e il segretario asseriva essere  doveroso e solito da parte dei sindaci liquidare, il  medico che non visitava il giovane, presunto omicida,  ridotto con la carne nera in caserma per tre giorni  fino alla scoperta del vero autore. E tanti, ma chi  può nominarli? Degli Enti, dei Consorzi, degli Istituti,  delle Banche. Se quelli commettono un reato, sono  trasferiti di autorità con le spese di trasporto a carico  del denaro pubblico: così girano anche l’Italia da una  provincia all’altra. E se sono licenziati, prendono una  liquidazione che li fa milionari. E se restano allo stesso  posto, nella stessa città, prendono la 13·, la 14· e la  15· mensilità perché l’anno lo allungano loro come  vogliono. E, ripresi, sanno difendere la causa dei figli e della famiglia piangendo e furiosamente accusando  le api regine, gl’intoccabili superiori d’ufficio. Quando  quei signori sono colpiti, diventano tutt’al più comunisti per il tempo necessario a rimettere le cose a  posto nella santità del lavoro, dello Stato, dello straordinario, della pubblica funzione. Ogni giorno, solo al  paese mio, si dicono 10 messe nelle chiese nello stesso  momento in cui la carovana dello Stato inizia la sua  giornata di crimini e gli uomini forti calpestano le  strade.

Non sarebbero venuti che i miei amici sindaci, non altri sindaci, per un motivo o per l’altro, a turno,  secondo il piano che il Signor Prefetto e i suoi giurati  avevano prestabilito. Anch’io, dunque, sarei uscito presto. Il carcere si doveva riempire del materiale umano,  prescelto dalla Giustizia, secondo la norma che vige  anche nelle confraternite: il più fesso porta la croce.

Caddero tutte le parole maiuscole, in cui avevo  creduto, o che, rimaste fredde, in molti, noi giovani,  eravamo accorsi a riempire di calore e di amore. Fino  a quando io sono il solo in mezzo a 170 persone e  poiché uscirò presto non c’è parola maiuscola che valga.

Altri devono sembrare, poveretti, tagliati per questo  domicilio. Usciti di galera, torneranno nei bassi, nei  sotterranei, nei pozzi, dove ai piedi della scala è il  letto, e nelle case affumicate e nei pagliai. Usciti, porteranno gli stessi calzoni rotti e l’unico paio di scarpe  per anni e la camicia a pezzi oppure, vestiti da fratelli della confraternita, riprenderanno il Crocefisso di ferro  per le processioni ai morti e ai santi. Battuti dalla  legge dei forti, avessero avuto almeno una religione  dei deboli.

 

 

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