La storia di Samuele Hanau ha inizio con l’annuncio devastante del suo suicidio. Ci sarà, poi, il suicidio di Ernesto. Due confinati: due storie diverse.

     Dice bene Franco Vitelli nella Nota critica, che, forse, la nota di maggiore forza del libro, quella che più lo caratterizza, è la rappresentazione dell’esperienza dei confinati.

     Un sistema odioso di ‘spiate a pagamento’ costituito da persone estranee all’amministrazione di polizia, scelte in ogni ambiente con il compito di riferire fatti, situazioni, opinioni, critiche, portò alla condanna al confino di decine di migliaia di persone. La Lucania fu ‘isola confinaria’ privilegiata e, quindi, anche a Tricarico, soggiornarono e si sono alternati molti confinati, guardati con simpatia dalla popolazione, che non negava ad essi solidarietà e amicizia. Di alcuni di loro ancora mi ricordo.

     Noi ragazzi non capivamo. Ci chiedevamo perché quei poveri disgraziati fossero stati strappati alle loro case e alle loro famiglie e mandati al confino, a condurre una vita di stenti, di umiliazioni e privazioni materiali e morali. Glielo chiedevamo e loro ci spiegavano che erano stati ingiustamente accusati di ‘aver parlato male del duce’; ingiustamente, perché non era vero, si trattava di false accuse di persone malvage. Ad ascoltare le loro storie eravamo presi da uno stato d’inquietudine: non poteva accadere – ci chiedevamo – che anche  i nostri padri fossero mandati al confino se qualcuno, per malanimo, avesse riferito che avevano parlato male del duce? Questo ci terrorizzava.

     Mario Trufelli con i confinati ha avuto rapporti particolari, più stretti, in un certo senso familiari. E ne ha lasciato il ricordo nel primo di tre racconti, Carcere preventivo, raccolti in un bel libretto intitolato Lo specchio del comò.   

     Carcere preventivo fu la Lucania del ventennio fascista; il racconto di Trufelli si presenta sotto forma di un diario di quattro giornate, a gennaio, febbraio e marzo del 1936, in base ai ricordi di un bambino di sei anni. Soggetti del racconto sono quattro confinati, politici e comuni, dimoranti nell’ albergo Valinotti”, gestito dal nonno di Mario, don Michele Valinotti. Di confinati Trufelli torna ora a parlare in questo libro, in cui racconterà anche storie di confinati che aveva conosciuto da bambino e aggiunge la nota della politica razziale del fascismo – per cui gli è occorsa la figura di Samuele Hanau, che occuperà non poche pagine.

     Veniamo al suicidio. E’ il giorno di Sant’Antonio del 1939. Nessun gallo ha ancora annunciato il sorgere del sole. E’ l’aurora, alba chiara la chiama Trufelli : quell’intervallo di tempo che segue la notte fonda e precede il sorgere del sole. A notte fonda, tra le due e le tre, come accerterà l’ufficiale sanitario, Samuele Hanau si è impiccato a una corda attaccata alla ringhiera, lasciandosi scivolare lungo le scale della pensione Caterina (pensione Cutolo, a fianco del caffè Scardillo), di cui è l’unico ospite. Ospite obbligato, perché Samuele Hanau è confinato: politico, e per di più ebreo. L’essere ebreo rende più precaria la sua condizione, perché il regime fascista aveva cominciato l’anno precedente ad emanare quell’insieme di provvedimenti legislativi e amministrativi, rivolti prevalentemente, ma non solo, contro le persone di religione ebraica, che Benito Mussolini in persona annunciò il 18 settembre 1938 dal balcone del Municipio di Trieste in occasione della sua visita alla città.

     I latrati rabbiosi del cane della caserma e dei randagi, che all’abbaiare del primo si erano raccolti, svegliarono la piazza. La canea violenta e rabbiosa era un misterioso messaggio inquietante. Quale messaggio?

 

I latrati di Bulò, il mastino a guardia della caserma dei carabinieri, svegliarono la piazza. L’alba si era appena annunciata, un’alba chiara, nel mese di giugno del 1939. All’appello risposero i latrati dei randagi, una schiera di cani che non dormivano mai, o così sembrava. Un abbaiare molesto, un frastuono che si concentrò davanti al portoncino della «Pensione Caterina» sul quale Bulò il più addestrato all’attacco, infieriva nell’inutile tentativo di aprirlo con zampate frenetiche che lasciavano segni come ferite. La canea si placò solo quando il portoncino si aprì all’improvviso e apparve Caterina, la proprietaria sconvolta che sembrava cercare una via di scampo. Gridava parole incomprensibili.

Il fruttivendolo, che proprio allora stava aprendo il negozio, colse un nome: «Samuele». Con la vestaglia verde oliva che si apriva controvento, la donna corse verso il carabiniere che dalla caserma veniva a recuperare il cane che aveva mobilitato la pattuglia dei randagi. Tra le lacrime riuscì a dire qualcosa di comprensibile: «Samuele … si è impiccato sulla scala». Subito si precipitarono nella sala a piano terra della pensione e trovarono penzoloni dall’ultimo piolo della robusta ringhiera di ferro, in cima alla scala che portava alle camere da letto, il corpo dell’uomo;  scalzo, con indosso i calzoni e la canottiera bianca. Desolatamente si offriva ai primi raggi del sole che dalla porta spalancata entravano nella stanza e lo lambivano dai piedi su su fino al petto. Al di sotto, la sedia che lo aveva sostenuto fino all’ultimo istante pareva ora cedere.

 

     La mattina dopo, da Firenze, giungono direttamente al cimitero due collaboratori dello studio legale di cui Samuele era titolare. Due amici – non più collaboratori – perché lo studio era stato chiuso. Samuele diceva a Caterina che gli era rimasta una sola causa: la sua, che era una causa persa.

     Uno degli amici riferisce al canonico don Armando, che si trovava al cimitero, che Samuele era un avvocato di Firenze, appunto, e aveva appena compiuto quarant’anni. Non era sposato, la donna amata l’aveva lasciato perché non accettava i suoi “inutili” sacrifici ed era rimasto solo. La sua famiglia, di professionisti, era emigrata in America per sfuggire al rigore delle leggi razziste fasciste. Samuele aveva svolto intensa attività antifascista, entrando in contatto con clandestini fuoriusciti in Francia ed era stato arrestato, tenuto in carcere un paio di mesi  e inviato al confino perché fu sorpreso mentre stava affiggendo manifesti contro il capo del governo. Lo studio legale fu chiuso.

Stagliato in una terrazza aperta sulla valle del fiume che era secco d’estate e in tumulto nelle piene d’inverno, il cimitero tra un intrigo di crisantemi ebbe effetto quasi benefico sui due forestieri, appena ne ebbero varcato il cancello.

Il gridio degli uccelli, che si davano da fare a rincorrersi sfiorando le tombe per recuperare con guizzi veloci il cielo, mutò l’espressione triste della donna. Rivolta al compagno di viaggio, amico o marito (la curiosità cresceva tra i presenti), disse a voce alta:

«Ma che cimitero allegro, Samuele almeno qui riposerà in pace!»

Un invito per don Armando a farsi avanti e a presentarsi  come conoscente e frequentatore dell’avvocato «nei tempi, nei modi e nei luoghi consentiti dalle leggi e dal regolamento sul confino». Capì che i due avevano raccolto la confidenza e si affidò al ruolo – la tonaca gli consentiva autorevolezza – e al doloroso momento che tutti si preparavano a vivere: infossare un uomo, la sua storia, i suoi silenzi. Sparivano definitivamente i suoi occhi di ebreo, neri profondi e resi misteriosi dalle folte sopracciglia; il ciuffo irrequieto dei capelli che gli cadeva sulla fronte e nascondeva l’astuzia dello sguardo, il sorriso disponibile per tutte le circostanze, anche le più scabrose.  Lo pensavano e lo ricordavano così in molti nel paese, ma  don Armando ne tratteggiò la figura con la vividezza di chi dipinge un quadro dal vero.

I due forestieri rimasero colpiti dalla testimonianza così appassionata; l’uomo, rasserenato, uscì dal silenzio e si presentò al prete, facendosi notare anche dal custode che dava frettolosamente qualche indicazione a chi si aggirava con i fiori in braccio. Poi, rivolto a Ninì che non mollava la postazione di privilegio accanto a don Armando, gli chiese se avesse conosciuto Samuele. Il ragazzo, intimidito dalla domanda inaspettata:

«Sì, tutte le mattine gli portavo il giornale».  E non riuscì a dire altro.

L’uomo col tono della voce incrinato:

«Non siamo parenti di Samuele ma colleghi; eravamo colleghi e amici carissimi naturalmente, sia io che Marcella».

Indicò la donna, che si era appiattita sulla porta ancora chiusa della camera mortuaria. La ragazza, poco più che trentenne, indossava un cappellino di feltro leggero che dava alla sua figura un tocco di eleganza discreta anche per i colori contenuti del suo abbigliamento.

«Siamo avvocati, ma lo studio era intestato a Samuele, uno dei più stimati professionisti della città. La sua famiglia non vive più in Italia, i tempi si sono fatti difficili e solo da pochi mesi ha potuto raggiungere gli Stati Uniti.  Samuele ha sofferto molto per questa decisione dei genitori, specie perché suo fratello si stava facendo strada nel mondo della musica. A parte gli amici, non a caso i carabinieri hanno informato me e Marcella della sua scomparsa, in Italia Samuele era rimasto solo, e forse anche questo ha pesato sulla sua disperata risoluzione».

A don Armando, del quale aveva incrociato lo sguardo, aggiunse:

«lo mi chiamo Luigi Aleardi, viviamo a Firenze con Marcella Giannini, che non è mia moglie ma, come vi dicevo, una collega. Dall’inizio dell’anno siamo stati costretti a chiudere lo studio legale. Per ordini superiori. Altra amarezza per Samuele al quale lo potemmo comunicare il dodici marzo, il giorno in cui gli facemmo giungere i nostri auguri per i suoi quarant’anni».

Legittimato da un tacito consenso, don Armando fece la domanda che i due forse si aspettavano:

«Samuele era un ebreo, ormai lo sappiamo tutti in paese.  Ma voi … ?»

«Se fossimo ebrei, probabilmente non saremmo qui oggi» fu la risposta lapidaria e amara di Luigi Aleardi, una risposta che nascondeva ben altri gravi interrogativi.  Continuò:

«Poche volte ho visto tanta luce illuminare un cimitero.  Il cielo vasto e queste povere tombe si fanno momenti solenni nella loro semplicità. Sto parlando a un sacerdote che certo aveva capito che Samuele era rispettoso della storia degli altri e orgoglioso della sua origine. Senza ostentare la sua fede, ha sempre avuto nel cuore le preghiere che aveva ascoltato e imparato dalla madre».  L’Aleardi s’infervorava e don Armando con prudenti gesti della mano gli fece capire di abbassare il tono della voce. Ma lui, senza neppure un attimo di esitazione:  «Viviamo con una spia a ogni porta e a ogni angolo di strada, gli ebrei soprattutto sono accusati di avere molto potere e molto denaro. Samuele, che veniva da una famiglia di professionisti, non aveva per sua scelta né potere né danaro. Noi che lo frequentavamo lo abbiamo sostenuto durante tutti questi mesi di segregazione, eravamo sempre in  ansia per le sue stravaganze, chiamiamo così le intemperanze di chi ha un profondo spirito di ribellione».  Tacque, si guardò intorno, lo trafisse il dubbio di non essere soli; si avvicinò all’orecchio del prete e sussurrò:

«Le sto creando qualche difficoltà?»

Don Armando, che si muoveva disinvolto nella vita del paese senza sentirsi addosso l’impaccio della politica, lo rincuorò: il custode faceva strada alle persone in visita ai defunti, il brigadiere rincorreva il cane, Ninì raccoglieva le more.

«Siamo soli. Ancora per poco, però».

Il tono bonario diede fiducia all’Aleardi che si sentì incoraggiato.

«Samuele aveva frequenti contatti clandestini con fuoriusciti in Francia, persone molto in vista. La notte in cui fu arrestato stava affiggendo manifesti in cui sfoga va tutto il sarcasmo toscano di cui era capace contro il capo del governo. Lo tennero in carcere per quasi due mesi, poi fu mandato al confino qui, a una distanza che per noi sembrava infinita. Un alto dirigente del fascio aveva addirittura chiesto di cancellare il suo nome dai registri anagrafici di Firenze, quasi non fosse mai nato.  Ma quella richiesta sciagurata per fortuna non ebbe seguito».

Marcella, dal suo angolo accanto alla camera mortuaria, finalmente parlò, il viso tra le mani:

«Ha messo fine alla sua rivoluzione, al suo sogno».  E Luigi Aleardi, in controcanto:

«Anche al sogno della donna amata che non accettò i suoi inutili eroismi – così li chiamava – e si dichiarò libera.  Un’altra dolorosa sconfitta per Samuele».

«Anche il suicidio è una sconfitta» replicò don Armando senza l’aria consolatoria che hanno i preti.

 

 

Due protagonisti di queste storie inventate sono ispirati a persone reali. Don Armando è don Giuseppe (don Peppe) Uricchio, detto Pizzilone, canonico della cattedrale di Tricarico, di fede politica nittiana, storico direttore didattico delle Scuole elementari di Tricarico, terrore di generazioni di ragazzi tricaricesi. Aveva fama di grande latinista. Figlio di un fabbro ferraio, mestiere che esercitava il fratello, nonno di Rocco Minichino, con bottega in viale Regina Margherita, sotto il Seminario, dopo il muraglione del Palazzo ducale.

Ninì è Mario Trufelli.

Francesco Saverio Nitti (Melfi 1868 – Roma 1953) è stato il primo presidente del consiglio lucano (il secondo è stato Emilio Colombo). Uomo politico liberale, giornalista, economista, professore universitario e meridionalista di orientamento democratico. Come capo del governo affrontò la riforma elettorale, la questione fiumana e le trattative di pace di Parigi dopo la prima guerra mondiale. Esule sotto il fascismo, nel dopoguerra fu promotore dell’Unione democratica italiana con Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando. Tornato in Italia dopo la seconda guerra mondiale, fu eletto alla Costituente ed è stato senatore di diritto. Candidato all’Assemblea costituente nella circoscrizione della Basilicata, fu memorabile la rivalità col giovanissimo Emilio Colombo, che chiamava “il sagrestanello”. Furono entrambi eletti con largo suffragio.

 

 

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