Nel secondo capitolo di questa parte terza Scotellaro ha presentato una umanità di picari, ribelli e piccoli malavitosi. Tra i tipi descritti sfila anche il ladro sifilitico Brancaccio, che di sé diceva che era morto già quando era nato. Lo abbiamo poi incontrato nel capitolo V

     A capo della fila di fronte alla mia, stava Brancaccio, col letto un po’ discosto dal pulpito, sotto l’altra  finestra, obliqua al foro della porta del cancello, dove  menava per provvidenza una piacevole corrente d’aria,  che cacciava nel suo tubo i fetori del pulpito.

   In questo capitolo nono è interamente e abbondantemente narrata la sua vita avventurosa e fantasiosa di ladro e contrabbandiere e l’esilarante sua prima notte di nozze nella sua povera casa affollata, con la riservatezza del talamo protetta da un telo, in lotta con la moglie che accendeva la luce e lui che la spegneva. Forse il racconto sovrabbonda di dettagli, che donano tono a un singolo racconto, ma sembrano invece creare distonia rispetto all’insieme della parte seconda del “romanzo”.  

     Il solo racconto è oggetto delle considerazioni del prof. G.B. Bronzini, nel più volte citato L’universo contadino e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro, p. 148 ss., che mettono in luce il giusto valore letterario di queste pagine. Concludo riportando tali considerazioni.

 

«« Né mancano ingredienti narrativi attinti direttamente alla magia  lucana, che fanno lampeggiare dall’interno dell’universo contadino  uno speciale grottesco popolare-letterario di immagini, espressioni e  similitudini, come quello del prete mago di San Chirico che cavalca  una capra per allontanare il temporale, così somigliante, nei tratti e  nelle azioni furbesche, al Don Rafele di Marsico Vetere:

 

«« A San Chirico un prete sfruttatore, che nascondeva l’oro e i marenghi nelle casse in cantina e ogni sera se li contava, che portava una  zimarra da dieci anni, con questa saliva, in groppa a una capretta, al  cielo a guidare le nuvole nere, ogni anno, nel mese di agosto. In agosto  era San Rocco, il padrone, che però si festeggiava in grande a Tolve, il  paese dirimpetto, dove tutta San Chirico si spostava. Il prete non suonava le campane per cacciare la nuvola, che era sempre quella, attestata al  di qua del vallone sulle terre di San Chirico, mentre a Tolve si vedevano  le creste delle montagne e le case bianche di sole. La gente, con le  forche, con le pale per ventilare il grano, con le accette e le zappe correva a casa del prete e poi in chiesa, dove il più vecchio suonava lui  le campane. E il prete? L’avevano visto con gli occhi levarsi da terra  sulla capra, poco prima dei tuoni. Fatto sta che lui correva in cantina,  dove penetrava tanta acqua che faceva galleggiare le cassette dei marenghi e lui sopra, in paurosa preghiera. Finito il temporale, lo trovavano in  casa a mangiarsi il sigaro »».

 

«La storia fu raccontata da un sacerdote anche al De Martino,  che così la rinarrò nelle sue Note di viaggio in Lucania del 1953:

 

««C’era una trentina d’anni fa [ … ] un vecchio parroco di Marsico  Vetere, Don Rafele, il quale, per guadagnare autorità fra i contadini,  aveva lasciato creder loro di essere capace di fare la tempesta. Ora  bisogna sapere che questo Don Rafele aveva l’abitudine, malgrado gli  anni, di fare della ginnastica ogni mattina, appena alzato da letto, per  mantenersi svelto e agile nel servire il Signore: una povera ginnastica,  del resto, come può farla un parroco di campagna, qualche flessione  sulle gambe, qualche lancio delle braccia in alto o in avanti, e al massimo una specie di volteggio appoggiandosi alle spalliere di due sedie, che  fungevano da parallele. Una mattina si scatenò una tempesta, a grandine  e vento: ma Don Rafele non rinunziò alla sua abitudine, e mentre fuori  sembrava fosse venuto il giorno dell’Apocalisse, il nostro parroco, nella  sua stanzetta, dette regolarmente inizio alla consueta serie di esercizi. Vi  era però nella stanzetta un finestrino, che dava nell’orto di una contadina a nome Rosina. Poiché la tempesta aveva provocato qualche guasto  nel pollaio, Rosina, avvolta nel suo scialle, era uscita nell’orto correndo,  quand’ecco che passando davanti al finestrino vide – misericordia! –  Don Rafele che si piegava sulle ginocchia, e poi insorgeva di scatto a  braccia in alto, e poi si sollevava da terra reggendosi sulle spalliere delle  sedie e lasciandosi dondolare per qualche istante per aria. Rosina guardò  un attimo, e non ebbe dubbi: Don Rafele stava «facendo» la tempesta.  Senza perder tempo, sgomenta e affannata, Rosina corse in paese, si  affacciò di casa in casa, gridando e chiamando a raccolta i contadini, col  risultato che dopo qualche tempo una folla minacciosa, con forconi e  mazze, faceva ressa davanti alla casa di Don Rafele, decisa a farla finita  con questo seminatore di guai per la povera gente. Don Rafele, quella  volta, ebbe una paura grandissima: e da allora in poi, ogni volta che il  tempo dava segni di mettersi al brutto, usciva in paese a passeggio,  sorridendo amabilmente ai parrocchiani, come per dire: «Ecco, vedete,  io sono tra voi, io non c’entro»».

 

«Rapido e letterariamente efficace è nel racconto di Scotellaro il  passaggio narrativo dal piano mitico a quello reale del prete volante  disceso in cantina. Altrettanto calibrato è quello inverso, dal reale  al mitico, del carcerato Brancaccio, chiamato il morto vivo perché,  come lui stesso diceva, era morto già quando nacque («lo avevano  messo nella cassa, lo stavano portando, la madre dette gli orecchini  a San Nicola e allora lui urlò», e che dopo questa morte annullata dal Santo aveva scelto per fame il mestiere del ladro e aveva  fatto il contrabbandiere, ma sapeva fare anche le serenate, come  quella che fece alla vedova, quando era andato a venderle pentole  di alluminio per una lira al pezzo:

– Signò, signora mia. ‘Ncapo chesta ve sta bona. Pari te ‘na regina co  a’ corona -. Le regalò la pentola d’alluminio”.

Dopo dieci serenate la vedova lo accettò come secondo marito.

– Il primo era morto tornando da campagna con una fucilata di un  fascista, che era impazzito a sentire «Bandiera rossa» cantata dai contadi-  ni e si era messo a sparare:

Allo stesso modo, in carcere, subito dopo il racconto sul prete  ladro di San Chirico:

Brancaccio aprì la bocca per uno sbadiglio lungo sollevando le braccia e contrasse i muscoli, poi cantò alla finestra:

Oi comme songo allere i banditi

oi quanne vanno dritte ‘e schiupputtate

volendo dire tutte le cose che noi uccelli frenetici non dicevamo ancora contro i fatti del giorno».

 

[IX]

 

Era morto – già quando nacque – diceva lui Brancaccio, il giovane napoletano sifilitico che era l’odio della  guardia infermiere: lo avevano messo nella cassa, lo  stavano portando, la madre dette gli orecchini a San  Nicola e allora lui urlò. Lo chiamarono il morto vivo.  A 11 anni lo mandarono al riformatorio perché da  camion e carretti si trovavano rubati carboni ed arancie. Ne uscì, dopo quattro anni passati nei riformatori  di Firenze e di Avigliano, col mestiere di intagliatore,  il giorno di San Pietro e Paolo del ’42. Nel riformatorio con gli scugnizzi aveva progettato che fare quando si  usciva. Brancaccio dimenticò gl’impegni perché si mise  a giocare al mazzetto e alla barracca con i soldi rubati:  il padre vendeva, lui gli rubava, già a quell’età «figlio  ‘e stuppolo co’ dente d’oro».

La prima donna al casino voleva cinque lire, lui  aveva ventiquattro soldi. Con quattro soldi doveva  comprarsi il pane. Disse di pagare abbasso, alla padrona, e rubò dal comodino la bottiglietta di profumo:  – Femmina di una lira mi hai dato – disse alla Direttrice – e una lira ti dò -, e scappò via, saltando  le scale.

Cominciarono i saccheggi l’anno dopo: il primo,  facile e grosso a Castellammare e alla Centrale, a Torre,  lo stesso giorno: pasta e scatole e un fusto di olio  di due quintali; Brancaccio ne prese, in parte, 80 litri.

Da allora, alla Centrale, a Castellammare, a Gragnano portavano via la roba ai tedeschi, lui così nudo  e crudo, con mezza camicia in collo e suo fratello  con un pistolone da 90 colpi. Camminavano, lui, suo  fratello e un altro compagno del palazzo, che una  sera morì sotto il portone: teneva accesa la candela  per sua moglie che stava malata, i tedeschi lo chiamarono e altri sentirono la sparata del mitra. Poi la  moglie fece la bocchinara. La famiglia per i bombardamenti si scasò in un giardino e lui andò lontano  da loro, sempre lontano dal fiato di mamma, e i suoi  fratelli ad Agerola. La casa fu bombardata da certi  nuovi apparecchi a doppia fusoliera, con tuttociò, il  deposito di merci che vi avevano accumulato, lui e il  fratello, era salvo. I tedeschi tornarono al palazzo e  non trovarono la moglie del compagno. Di porta in  porta arrivarono al loro deposito con una bomba a  mano di quelle a pigna. Il fratello, che sapeva il tedesco, si mise a piangere, perché dovevano tutti e  due morire, nemmeno ai cani come si videro. Smantellato il deposito, trovarono sulla strada gli zii con  il cavallo della carrozzella ferito al piede.

Per la fame, Brancaccio propose di ucciderlo, così  camparono alcuni giorni sulla strada vicino alla carrozzella e poi si separarono, perché lui ebbe l’occasione  del saccheggio alla Cirio. Camminò da solo, vendendo  le scatolette di pomodoro fino a Capodimonte, dove  un giorno vide i camion guidati da negri, carichi di  sacchi bianchi. Cominciarono i furti ai camion americani in salita: il ragazzo più agile saliva e scaricava  sulla strada i sacchi di riso, di zucchero, di camicie e  di farina. Molti compagni morirono a fare la corrente  sulla strada: quando misero il negro di guardia sul  carro, il ragazzo più agile saliva lo stesso e si aggrappava con disperazione e chiamava la mano del negro  se non ce la faceva.

Dalla corrente dietro ai camion Brancaccio passò  al porto. Al porto tagliavano il reticolato promettendo  alle sentinelle negre la signorina. E di là la roba passava agli «abbozzatori», i ricettatori che abitavano case  senza letti, vestivano malamente e guadagnavano più  di tutti. Il riso passava per il posto di guardia nei  pantaloni di Brancaccio e compagni. Divennero furbi  anche gli americani, fecero la rivista a ogni entrata e  uscita e spararono a mare, e ogni tanto i giovani portuali si dicevano: – Non sai niente? È andato a mare  Tizio e Caio.

Perché rubavano? Per fame, rispondevamo agli americani. E questi prendevano la decisione di metterli  a tavola davanti a due chili di riso cotto a colla. E  se non volevano mangiare quello, gli americani facevano mangiare per forza la cera. Proprio I’ultimo giorno  che stettero gli americani, morì a mare un altro amico  stretto di Brancaccio. Gli americani se ne andarono  veramente con la loro roba e i loro negri, allora lui  si menò al treno.

Senza biglietti, andata e ritorno, dal ’45 al ’46 da  Napoli verso la Lucania e la Puglia per certe stazioni: Persano, Balvano, Romagnano, Baragiano, Bella-Muro,  nelle notti di estate e d’inverno sull’imperiale del treno,  per il commercio di grano e olio; Brancaccio comandava una compagnia di quattordici uomini e tre donne.  Una di queste se la teneva, dormivano nello stesso  letto negli alberghi, e si amavano come marito e moglie  nelle sale di aspetto davanti agli altri. Lei portava i  conti, lui comandava sul prezzo dell’olio e del grano  e cacciava e intascava i soldi.

Era gialla di pelle, lui non poteva accostarsi e  toccarla senza sentirsi subito infuocato, e lei scoppiava  dal ridere, sotto non stava mai ferma: lui si sfogava  e lei cantava o gli diceva i guadagni del giorno. Come  lui aveva la bocca squartata e sempre bavosa, per il  resto i suoi capelli erano ricci e neri, quelli di Brancaccio sbiaditi e stopposi, gli occhi a lei secchi, a lui  lacrimosi e venati di sangue, il naso di lei fino e  sbalzato in avanti, quello di lui a piombo dalla fronte  e largo alle narici. Brancaccio vicino a lei era diventato  un uomo, anche se, a vederlo, una semplice guardia  di paese poteva andare a colpo sicuro verso il contrabbandiere, il mariuolo, l’impestato, il guappo, ricercato  dai comandi e farsi pagare il chiudere gli occhi con  un pacchetto di americane. Era un uomo proprio quando metteva la mano nella tasca dei pantaloni, dove  teneva i biglietti da mille e con quelli sapeva di co-  mandare la sua compagnia, il paese, i contadini che  vendevano, i controllori del treno, gli abbozzatori, e  la sua ragazza, che gli strizzava l’occhio a quella tasca.

Una notte, dovevano spartire il guadagno, tutti i  compagni gli si avventarono feroci alla tasca. Si ferirono con pietre e coltelli e i biglietti da mille, ognuno  si prese i suoi, erano insanguinati. Tornata così la  pace, andarono in un albergo a lavarsi le ferite. La ragazza ora non viaggiò più con lui e gli mise la  condizione di sposarla. Ma lui fu arrestato il giorno  dopo e tradotto da Taranto a Lecce a Salerno. Il  migliore amico suo si prese il comando della compagnia  e la ragazza. Uscito dal carcere in libertà provvisoria  salì sul primo treno in cerca della compagnia. Al ponte  quarto di Romagnano il treno si fermò, era caduto  dall’imperiale e morto quello che lui voleva uccidere,  l’amico traditore, ma la ragazza non c’era, e la compagnia  si era sfasciata. Il treno arrivava ai paesi lucani del  suo commercio, facendo giorno.

Brancaccio si fermò allo scalo di Pisticci e salì al  paese con l’ultimo carico di merce. Qui c’era un’altra  vita, di sole e di pace e di contadini che si muovevano  la mattina e la sera. I paesani lo salutarono, dopo  tanto tempo; vendeva la roba con la bella chiacchiera  e con la cantatina. Decise di rimanere. Si faceva mandare la merce dagli altri, fino a che mise una baracchetta per negozio. La sera, sprofumato con la sciarpa  al collo, portava le serenate, lui cantando, un giovane  del posto suonando la fisarmonica. In capo a una  scala vide una mattina una contadina nera e vestita  di nero sui trent’anni, alta e un po’ grossa, maritata  certamente o vedova, che si pettinava. Le offerse le  pentole di alluminio: – È roba buona che vi fa, una  lire al pezzo, una lira.

Scosse ai gradini le pentole e disse cantando:

Signò, signora mia. ‘Ncapo chesta ve sta bona. Parite  ‘na regina co a’ corona -. Le regalò la pentola d’alluminio. Passarono dieci sere di serenate in capo a  quella scala, la donna era vedova, stava con la madre  vecchia, lo accettò come secondo marito. Il primo era  morto tornando da campagna con una fucilata di un  fascista, che era impazzito a sentire «Bandiera rossa»  cantata dai contadini e si era messo a sparare. Vennero  i compagni napoletani di Brancaccio al paese, la festa delle nozze finì a mezzanotte. Nel vano in capo alla  scala il letto matrimoniale fu circondato dal paravento,  sulla cassa dormiva la vecchia.

– Non smorziamo la luce – gli disse la moglie -, perché tengo paura.

– Perché tieni paura? di chi? – La donna non rispose e chiuse gli occhi. Era più grande di lui, voluminosa sotto le coperte, lui aveva parlato con la  vecchia mentre lei si coricava. Ma gli bastava il viso,  nero e paffuto, melanconico, e le labbra grosse: Brancaccio si sentì pieno di forza, di gola, di minaccia  verso quella donna piena e buona come una cavalla.  Doveva smorzare la luce, la pera dell’interruttore stava  al lato di lei. Si scostò e le mise un suo ginocchio  sulla prima gamba; lei aprì gli occhi e li richiuse  per dire di sì e allargò la gamba, gli mise una mano  sulla spalla per tirarlo su di se. Lui si sentiva piccolo  e leggero sulla brace del suo corpo, cadde, quando  lei fece largo spostando la gamba, di peso col tronco  sul suo seno e con le ginocchia sul sacco del letto.  Voleva ad ogni costo prendere la pera per spegnere  la luce, fece per muoversi e trovò l’altra gamba di  lei, finalmente raggiunge con tre dita la pera e spense.  Lei sussultò subito e lo menò per aria al fianco al  posto suo e riaccese la luce, gridando: – No, falla  stare accesa. – Si ripetette la stessa giostra di lui che  le andava sopra e della luce spenta e subito riaccesa  quando lei spalancò gli occhi atterriti verso l’orlo del  paravento e così rimase immobile.

Guardava anche lui quando bussarono alla porta  con un tuono di colpi. Come corse alla porta, i colpi  cessarono; aprì e non c’era anima viva, altro non vide  che la luce in coda al vicolo e, sotto davanti a sé, le  altre case nere come al fondo di un pozzo. Lei prese  a lamentarsi, scuotendo il capo a destra e a sinistra:  – Vieni qua, corri. Rimettiti a letto.

Egli tornò, a spinte, con gli occhi e le narici più  larghi di come li aveva e cadde sul cuscino. Si sentiva  il respiro della vecchia al di là del paravento sulla  cassa. Dopo lei gli disse piangendo: – Era mio marito.

Rimasero con la luce accesa, lui appoggiato al cuscino, con i piedi per terra, fino a che fu giorno. Si  vestirono, lei tolse il paravento e fece pulizia, lui l’aspettò al fuoco. Seduto su un basso trepiedi, gli appoggiò il capo sulle ginocchia e dormì; dormì anche  lui col capo sulla mensola affumicata del focolare.

– Dobbiamo mangiare, – disse lei verso le dieci  quando le donne vociarono nel forno che era sotto  la casa. – Tu vai a fare la spesa, io vado a prendere  l’acqua. – Così si mossero, uscirono dalla porta.

– Maria! – la chiamarono le donne. Ma lei non  rispose, camminava portata come una statua verso il  terreno dopo le case che era coperto di erba autunnale.  Le donne la guardarono zitte, e poi si mossero, di  scatto, quando Maria arrivò al muretto rotondo del  pozzo. Non fecero in tempo ad arrivare che quella  già si era piegata come a baciare la terra e scomparsa  dentro, a capofitto.

Brancaccio andò a stare vicino al pozzo, guardato  dalle guardie e dai carabinieri, o dalle donne e dagli  amici, che volevano impedirgli di gettarsi anche lui  nel pozzo.

Il terzo giorno stava fumando la prima sigaretta  dopo la disgrazia insieme all’amico suonatore di fisarmonica, arrivarono due carabinieri: – Avete visto,  disse loro – che non mi getto. È devozione.

– Adesso siamo sicuri, – disse uno di quelli.

Vieni con noi, c’è il mandato di cattura. – Era per i  tanti fatti di contrabbando.

Nel carcere erano le dieci di notte e il sonno ci  attaccava, dopo la lettura; Brancaccio fece un urlo e  cadde dalla branda, rotolava per terra arroccando mani e piedi nella morsa di un attacco epilettico. Chiellino, Ciccio, il tarantino gli si avventarono contro per tenerlo. Poi gli fu addosso mezza camerata. lo dicevo di  lasciarlo a Chiellino che gli spezzava quasi le ossa  delle braccia: – Quello mi morsica -, Chiellino mi  rispondeva. Rimasi freddo e tremavo, poi impugnai  la bacinella e la suonai ai ferri del cancello per dieci  minuti finché le guardie non dettero la voce che venivano.

Venne la guardia infermiere, gli facemmo largo  attorno a Brancaccio ancora dibattuto e furioso. L’infermiere portò le forbici al ditone di Brancaccio e  gli tagliò un pezzo di carne sotto l’unghia. Quando  rinvenne che era così riposato e buono, l’infermiere  lo prese a pugni: – La devi finire, la devi finire,  non me la fai, hai capito?

Nessuno di noi disse più niente.

Dopo un poco, era mezzanotte, vennero a schiudere  la porta io pensai per la visita.

E la visita era, un po’ anticipata. Da Brancaccio  passarono per tutta la fila di letti il capo guardia e  due agenti, con le mani dietro le reni. con il capo  basso. Solo il capo guardia girava gli occhi attorno,  sollevandoli ogni volta dal letto che toccava con la  gamba: veterano del mestiere, egli era stato accoppato  dai carcerati sepolti nel sonno e improvvisamente ridesti, che gli avevano rovesciato in capo il secchio  di merda. Arrivarono a me: – Stai sveglio: vuoi venire  fuori? – Mi alzai e li seguii. Appena sulla loggiata,  arrivarono rumori di scarpe dall’ufficio Matricola illuminato, allora la guardia mi disse la spiegazione della  mia uscita: – Ci sono nuovi giunti da segnare.

L’ufficio matricola era pieno fino alla vetrina, c’erano di spalla un carabiniere e un contadino col pastrano sul braccio, e, nel passaggio che ci dettero, altri  contadini con le coppole in mano.

Quel carabiniere e un altro presero una carta di  ricevuta dal capo-guardia e dissero: – Ci sono i colleghi  giù che ci aspettano, buona notte – e se ne andarono  ravviando la bandoliera nel passare tra i contadini.

– Che avete combinato? – disse loro il capo guardia alzando gli occhi sugli occhiali, dal suo tavolo.

– Niente, – rispose un contadino e guardò il capo  e le altre guardie e me che stavo con la penna sospesa  allo scrittoio alto del registrone matricolare. Un altro  contadino accostò una pacca di natica e appoggiò il  gomito sull’altro tavolo, era stanco, aveva la faccia  arsa e friabile come una foglia di tabacco. La guardia  con un pugno al gomito lo faceva per poco cascare  come un palo: – Che vuoi anche la poltrona? Non  stai a casa tua.

Il contadino che prima si era spaventato alla scossa  e al richiamo, sorrise a queste parole teneramente. Ma  la guardia s’inferocì, lo prese per una spalla e lo trascinò alla vetrina: – Mettiti in coda a tutti, ti faccio  vedere. – Dava uno sporco accento barese a queste  parole italiane. Io sapevo che la guardia era un ex-pastorello di Spinazzola; da quando l’avevano messo  a fare la spesa era divenuto grasso e sgorbutico. Segnava la spesa sul registro maltrattando la penna e  addentando il largo labbro: – Vogliono le terre degli  altri, – proseguì – così dicono per non farsi chiamare  ladri e sfaticati.

– Che avete combinato? – Riprese il Capo …

– Abbiamo rubata la terra, – disse il primo contadino, che aveva i capelli grigi attorno al bel volto  rosato. – Eccola qui, – e si guardò gli scarponi pieni  di fango.

– Basta, – disse il Capo, – come vi chiamate?

Cominciamo da te.

– Fiore. – Rispose il primo.  

 – Fiore, come?  

– Fiore Giovanni.

– Di anni?

– 5I.

– Professione?

– Che professione? Magari la professione. Sono analfabeta.

– Che fai? Che fai? – Disse il Capo.

– Il contadino.

– Coniugato?

– Sì.

– Quanti figli?

– Nove.

lo segnavo le risposte sui puntini lunghi del registro, nelle pause immaginavo dal volto sopra la bocca  di Fiore bestemmie e turpi parole, come quelle che  dice la lucertola ai bambini che le mozzano la coda.  La lucertola bestemmia i morti ai bambini, contorcendosi dal dolore con il moncone: a ogni contorcimento  alla lucertola dice il bambino per recuperare il maggior  numero di bestemmie: Cento morti a te e niente a  me, cento a te e niente a me.

– Religione? Cattolico?

– Cattolico? No. – Rispose Fiore.

– Come? – Disse schifato il Capo, e diventò feroce.

– Perché fai pure il protestante? Tua madre non ti ha battezzato?

– Ah! – fece Fiore. – Cattolico sì. Ma non cattolico …

– Che avevi capito? – Disse più forte il Capo –  Qui non si fa politica.

– Religione, si, cattolica. – Disse Fiore.

Vennero con me nella mia camerata quattro dei  quindici braccianti, tutti materani presi nella notte,  mentre dormivano, per istigazione a delinquere, perché  l’indomani sarebbero ritornati a scavare la terra degli  olivastri e quella di uno dei Segretari del Presidente del Consiglio, un certo dottore che non sapevano. Non  ci capivano lì dentro: Pasciucco e Chiellino si misero  ad accostare i letti, un vecchierello lo facemmo stare  in mezzo ai nostri due letti fatti a uno, non si volle  spogliare, si tolse la sola giacca di velluto e dalla  camicia spuntavano le scapole puntute come pale di  fichidindia. Non si mosse dal fianco dove si mise,  chiese: – Che giorno è domani? – È domenica – gli  rispose Chiellino. Fiore stette e stette, in piedi, mentre  gli altri due si erano accoccolati con la fronte sulle  ginocchia, vicino al cancello, poi si stese lungo anche  lui, tanto doveva, verso le due, essere stanco, lo trovammo la mattina col capo poggiato al gradino del  pulpito puzzolente, Ciccio disse di aver fatto bisogno,  all’ora solita sua, verso le tre e non aveva voluto scomodarlo.

La mattina, il meraviglioso prete grasso aveva preparato, con il sagrestano (uno della banda di Bernalda),  l’altare per la messa. Ci schiusero. Dalla seconda Camerata insolitamente, erano usciti a uno a uno i detenuti con Purchia in testa, il capo degli irsinesi, un  comunista ribelle, che, seduto alla branda, dava gli  ordini ed era ascoltato. Era voluto uscire per sapere  il più presto possibile le notizie degli occupatori di  terra. Decidemmo anche noi di scendere alla messa.  Le altre domeniche non avevamo assistito. Era una  lunga fila avanti all’altare, ai lati nostri stavano le  guardie una pareva un cagnolino di tre mesi che salta  addosso a tutti, così vicino a me, andava e veniva  alzando le spalle e incupendosi. Noi veramente facevamo come le vespe a chiuderci vicini e stretti e passarci le parole e i segni: «Fuori c’è movimento. Verranno altri, occupano le terre. Questi sono di Matera,  verranno quelli dei paesi. E dove li metteranno?».

Il Sagrestano si mosse facendo l’inchino col leggio  e il messale da una parte all’altra. La voce del prete non si sentiva, ogni tanto alzava le braccia come un  prigioniero voltandosi a noi. Dove gli venne tutta quella voce quando si voltò e rimase fermo senza alzare  le mani per fare la predica! Ci puntò gli indici come  due rivoltelle e li tenne così: – Che volete da Gesù,  voi, voi pecore smarrite? Voi pecore zoppe e morvose?  – Tolse gli indici e noi lo guardammo da allora con  un muscolo molle e uno duro delle gambe, pronti a  farlo continuare, pronti, come si è in certi casi a incassare i colpi, e a fremere e muoverci. Infatti venne  il punto quando disse con voce pacata: «l comunisti  sono tutti cretini e delinquenti». Purchia gli gridò «eh»  che poi tutti prolungammo, mentre le guardie ci correvano da capo in coda. Purchia mise il piede fuori  della fila, con le mani nelle tasche dei pantaloni fece  i quattro passi fino al cancello della seconda: – Che  hai? – Voglio rientrare. – Disse alla guardia che gli  corse dietro. Anche noi ci sparpagliammo avanti ai  cancelli delle camerate e vicino la porta per salire  alla settima. Si vide il Maresciallo sopra la loggiata  con una mano impugnata alla ringhiera e l’altra alta  verso la sua fronte, pareva dovesse caderci addosso.  Si mise a correre come chi corre a spegnere un fuoco  senza neanche un secchio d’acqua.

– Hai visto, – disse il prete al sagrestano, – e a  me che volli vederla che gente maledetta. lo non dico  più messa -. Si curvò all’altare e si nascose sotto la  pianeta che aveva una grande piega al suo collo fatto  rosso d’anguria con i semi neri, certe piazze malate  che gli dovevano bollire.

– Aspetta che finisce -. Disse il maresciallo a Purchia.

– No, – disse Purchia.

I contadini nuovi giunti erano curiosi come bambini al primo giuoco, se ne stavano uniti al muro.

– Se tu vuoi che aspetto, io mi metto a passeggiare  e faccio l’ora di aria. Imparagli l’educazione.

– Ti prego, – disse il Maresciallo.

– Puoi farti la comunione, – gli rispose Purchia indicandogli il prete che era rimasto al nascondiglio.

Ce ne andammo tutti dentro, attaccammo i giuochi  a dama e carte con l’unico ripetuto commento: il «Ti  prego, ti prego» del maresciallo e la risata sincera.

Pasciucco fu il primo a rompere l’incanto: stavamo  contenti della ragione avuta sul prete, e come chi ha  ragione nessuno di noi cacciava fuori la lingua per  maledire: il povero prete era all’antica, a suo modo,  un bravuomo, come tutti i suoi colleghi che si contentano di vivere e solo per questo sono una necessità  sociale nel corpo malato dei nostri paesi. Portava la  veste frusta, ma pulita sulla carne bianca e gonfia,  aveva una bella calligrafia, era suo compito censurare  la corrispondenza: all’ora di pranzo mangiava anche  lui la stessa nostra razione di vitto, ogni tanto lasciava  il cucchiaio e prendeva la penna per mettere il visto  e il timbro; seduto a un tavolino, il Maresciallo lo  guardava come un suo dipendente che doveva dar  conto. Quel giorno il Maresciallo, per punirlo, dovette  privarlo del vitto, che non gli spettava, perché non  si vide più dopo che sparecchiò l’altare e si svesti,  in modo che pareva meglio la botticina che era con  una doga allascata dal collo all’inguine, la sua pancia.

Pasciucco raccontò le confessioni di un sagrestano  al suo arciprete: il sagrestano non accusava mai peccati,  niente, non faceva mai niente. Va bene che stai nella  chiesa, gli disse l’arciprete, ma i peccati li fai: chi si  è fregato il caciocavallo nella dispensa? E il salame?  Il sagrestano non rispondeva, disse all’arciprete: Don  Ro’, non si sente, non si sente. Come non si sente?  inferocì don Rocco. Il Sagrestano rispose: Vuoi sapere,  vieni qui, cambiamo posto, mi metto io nel confessionile. Cambiarono posto: Don Ro’, è vero che te la  fai con mia moglie? Di’ la verità. Don Rocco rispondeva: Come? come? Il Sagrestano gli disse: Te lo  dicevo io che non si sentiva.

– Fanno il loro mestiere -, disse zio Donato lo  zingaro.

– Più difetti tengono, tanto più sono bravi, – disse  il camionista.

I preti di paese che giocano a carte, fumano, s’ubriacano tengono più compari dei galantuomini. Adesso  li fanno fatigare di più con gli ordini che hanno.  Prima erano nittiani o giolittiani e partecipavano alle  lotte politiche, liberamente chi con uno, chi con un  altro partito, non facevano le prediche, come adesso,  servivano alla pace e all’intontimento della povera gente. E la povera gente era così dominata dalla potenza  del prete, che lo credeva per la vicinanza a Dio e ai  Santi capace di ripagare i torti e la stessa ingiustizia  del cielo quando grandinava sui grani e sulle viti.  Ed era sempre lui il responsabile della buona e della  cattiva sorte collettiva. Ed era anche lui nella sorte  con i venti e le gelate, soldi non ne vedeva e le  feste se le passava. A San Chirico un prete sfruttatore,  che nascondeva l’oro e i marenghi nelle casse in cantina  e ogni sera se li contava, che portava una zimarra  da dieci anni, con questa saliva, in groppa a una capretta, al cielo a guidare le nuvole nere, ogni anno,  nel mese di agosto. In agosto era San Rocco, il padrone,  che però si festeggiava in grande a Tolve, il paese  dirimpetto, dove tutta San Chirico si spostava. Il prete  non suonava le campane per cacciare la nuvola, che  era sempre quella, arrestata al di qua del vallone sulle  terre di San Chirico, mentre a Tolve si vedevano le  creste delle montagne e le case bianche di sole. La  gente, con le forche, con le pale per ventilare il grano,  con le accette e le zappe correva a casa del prete e poi in chiesa, dove il più vecchio suonava lui le campane. E il prete? L’avevano visto con gli occhi levarsi  da terra sulla capra, poco prima dei tuoni. Fatto sta  che lui correva in cantina, dove penetrava tanta acqua  che faceva galleggiare le cassette dei marenghi e lui,  sopra, in paurosa preghiera. Finito il temporale, lo  trovavano in casa a mangiarsi il sigaro.

Brancaccio apri la bocca per uno sbadiglio lungo,  sollevando le braccia e contrasse i muscoli, poi cantò  alla finestra:

 

Oi comme songo allere li banditi

oi quanne vanno dritte ‘e schiupputtate

 

volendo dire tutte le cose che noi uccelli frenetici  non dicevamo ancora contro i fatti del giorno.

 

 

 

 

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