L’UVA PUTTANELLA__Parte III, Capitolo IX__Brancaccio_ Il prete mago di San Chirico
Nel secondo capitolo di questa parte terza Scotellaro ha presentato una umanità di picari, ribelli e piccoli malavitosi. Tra i tipi descritti sfila anche il ladro sifilitico Brancaccio, che di sé diceva che era morto già quando era nato. Lo abbiamo poi incontrato nel capitolo V
A capo della fila di fronte alla mia, stava Brancaccio, col letto un po’ discosto dal pulpito, sotto l’altra finestra, obliqua al foro della porta del cancello, dove menava per provvidenza una piacevole corrente d’aria, che cacciava nel suo tubo i fetori del pulpito.
In questo capitolo nono è interamente e abbondantemente narrata la sua vita avventurosa e fantasiosa di ladro e contrabbandiere e l’esilarante sua prima notte di nozze nella sua povera casa affollata, con la riservatezza del talamo protetta da un telo, in lotta con la moglie che accendeva la luce e lui che la spegneva. Forse il racconto sovrabbonda di dettagli, che donano tono a un singolo racconto, ma sembrano invece creare distonia rispetto all’insieme della parte seconda del “romanzo”.
Il solo racconto è oggetto delle considerazioni del prof. G.B. Bronzini, nel più volte citato L’universo contadino e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro, p. 148 ss., che mettono in luce il giusto valore letterario di queste pagine. Concludo riportando tali considerazioni.
«« Né mancano ingredienti narrativi attinti direttamente alla magia lucana, che fanno lampeggiare dall’interno dell’universo contadino uno speciale grottesco popolare-letterario di immagini, espressioni e similitudini, come quello del prete mago di San Chirico che cavalca una capra per allontanare il temporale, così somigliante, nei tratti e nelle azioni furbesche, al Don Rafele di Marsico Vetere:
«« A San Chirico un prete sfruttatore, che nascondeva l’oro e i marenghi nelle casse in cantina e ogni sera se li contava, che portava una zimarra da dieci anni, con questa saliva, in groppa a una capretta, al cielo a guidare le nuvole nere, ogni anno, nel mese di agosto. In agosto era San Rocco, il padrone, che però si festeggiava in grande a Tolve, il paese dirimpetto, dove tutta San Chirico si spostava. Il prete non suonava le campane per cacciare la nuvola, che era sempre quella, attestata al di qua del vallone sulle terre di San Chirico, mentre a Tolve si vedevano le creste delle montagne e le case bianche di sole. La gente, con le forche, con le pale per ventilare il grano, con le accette e le zappe correva a casa del prete e poi in chiesa, dove il più vecchio suonava lui le campane. E il prete? L’avevano visto con gli occhi levarsi da terra sulla capra, poco prima dei tuoni. Fatto sta che lui correva in cantina, dove penetrava tanta acqua che faceva galleggiare le cassette dei marenghi e lui sopra, in paurosa preghiera. Finito il temporale, lo trovavano in casa a mangiarsi il sigaro »».
«La storia fu raccontata da un sacerdote anche al De Martino, che così la rinarrò nelle sue Note di viaggio in Lucania del 1953:
««C’era una trentina d’anni fa [ … ] un vecchio parroco di Marsico Vetere, Don Rafele, il quale, per guadagnare autorità fra i contadini, aveva lasciato creder loro di essere capace di fare la tempesta. Ora bisogna sapere che questo Don Rafele aveva l’abitudine, malgrado gli anni, di fare della ginnastica ogni mattina, appena alzato da letto, per mantenersi svelto e agile nel servire il Signore: una povera ginnastica, del resto, come può farla un parroco di campagna, qualche flessione sulle gambe, qualche lancio delle braccia in alto o in avanti, e al massimo una specie di volteggio appoggiandosi alle spalliere di due sedie, che fungevano da parallele. Una mattina si scatenò una tempesta, a grandine e vento: ma Don Rafele non rinunziò alla sua abitudine, e mentre fuori sembrava fosse venuto il giorno dell’Apocalisse, il nostro parroco, nella sua stanzetta, dette regolarmente inizio alla consueta serie di esercizi. Vi era però nella stanzetta un finestrino, che dava nell’orto di una contadina a nome Rosina. Poiché la tempesta aveva provocato qualche guasto nel pollaio, Rosina, avvolta nel suo scialle, era uscita nell’orto correndo, quand’ecco che passando davanti al finestrino vide – misericordia! – Don Rafele che si piegava sulle ginocchia, e poi insorgeva di scatto a braccia in alto, e poi si sollevava da terra reggendosi sulle spalliere delle sedie e lasciandosi dondolare per qualche istante per aria. Rosina guardò un attimo, e non ebbe dubbi: Don Rafele stava «facendo» la tempesta. Senza perder tempo, sgomenta e affannata, Rosina corse in paese, si affacciò di casa in casa, gridando e chiamando a raccolta i contadini, col risultato che dopo qualche tempo una folla minacciosa, con forconi e mazze, faceva ressa davanti alla casa di Don Rafele, decisa a farla finita con questo seminatore di guai per la povera gente. Don Rafele, quella volta, ebbe una paura grandissima: e da allora in poi, ogni volta che il tempo dava segni di mettersi al brutto, usciva in paese a passeggio, sorridendo amabilmente ai parrocchiani, come per dire: «Ecco, vedete, io sono tra voi, io non c’entro»».
«Rapido e letterariamente efficace è nel racconto di Scotellaro il passaggio narrativo dal piano mitico a quello reale del prete volante disceso in cantina. Altrettanto calibrato è quello inverso, dal reale al mitico, del carcerato Brancaccio, chiamato il morto vivo perché, come lui stesso diceva, era morto già quando nacque («lo avevano messo nella cassa, lo stavano portando, la madre dette gli orecchini a San Nicola e allora lui urlò», e che dopo questa morte annullata dal Santo aveva scelto per fame il mestiere del ladro e aveva fatto il contrabbandiere, ma sapeva fare anche le serenate, come quella che fece alla vedova, quando era andato a venderle pentole di alluminio per una lira al pezzo:
– Signò, signora mia. ‘Ncapo chesta ve sta bona. Pari te ‘na regina co a’ corona -. Le regalò la pentola d’alluminio”.
Dopo dieci serenate la vedova lo accettò come secondo marito.
– Il primo era morto tornando da campagna con una fucilata di un fascista, che era impazzito a sentire «Bandiera rossa» cantata dai contadi- ni e si era messo a sparare:
Allo stesso modo, in carcere, subito dopo il racconto sul prete ladro di San Chirico:
Brancaccio aprì la bocca per uno sbadiglio lungo sollevando le braccia e contrasse i muscoli, poi cantò alla finestra:
Oi comme songo allere i banditi
oi quanne vanno dritte ‘e schiupputtate
volendo dire tutte le cose che noi uccelli frenetici non dicevamo ancora contro i fatti del giorno».
[IX]
Era morto – già quando nacque – diceva lui Brancaccio, il giovane napoletano sifilitico che era l’odio della guardia infermiere: lo avevano messo nella cassa, lo stavano portando, la madre dette gli orecchini a San Nicola e allora lui urlò. Lo chiamarono il morto vivo. A 11 anni lo mandarono al riformatorio perché da camion e carretti si trovavano rubati carboni ed arancie. Ne uscì, dopo quattro anni passati nei riformatori di Firenze e di Avigliano, col mestiere di intagliatore, il giorno di San Pietro e Paolo del ’42. Nel riformatorio con gli scugnizzi aveva progettato che fare quando si usciva. Brancaccio dimenticò gl’impegni perché si mise a giocare al mazzetto e alla barracca con i soldi rubati: il padre vendeva, lui gli rubava, già a quell’età «figlio ‘e stuppolo co’ dente d’oro».
La prima donna al casino voleva cinque lire, lui aveva ventiquattro soldi. Con quattro soldi doveva comprarsi il pane. Disse di pagare abbasso, alla padrona, e rubò dal comodino la bottiglietta di profumo: – Femmina di una lira mi hai dato – disse alla Direttrice – e una lira ti dò -, e scappò via, saltando le scale.
Cominciarono i saccheggi l’anno dopo: il primo, facile e grosso a Castellammare e alla Centrale, a Torre, lo stesso giorno: pasta e scatole e un fusto di olio di due quintali; Brancaccio ne prese, in parte, 80 litri.
Da allora, alla Centrale, a Castellammare, a Gragnano portavano via la roba ai tedeschi, lui così nudo e crudo, con mezza camicia in collo e suo fratello con un pistolone da 90 colpi. Camminavano, lui, suo fratello e un altro compagno del palazzo, che una sera morì sotto il portone: teneva accesa la candela per sua moglie che stava malata, i tedeschi lo chiamarono e altri sentirono la sparata del mitra. Poi la moglie fece la bocchinara. La famiglia per i bombardamenti si scasò in un giardino e lui andò lontano da loro, sempre lontano dal fiato di mamma, e i suoi fratelli ad Agerola. La casa fu bombardata da certi nuovi apparecchi a doppia fusoliera, con tuttociò, il deposito di merci che vi avevano accumulato, lui e il fratello, era salvo. I tedeschi tornarono al palazzo e non trovarono la moglie del compagno. Di porta in porta arrivarono al loro deposito con una bomba a mano di quelle a pigna. Il fratello, che sapeva il tedesco, si mise a piangere, perché dovevano tutti e due morire, nemmeno ai cani come si videro. Smantellato il deposito, trovarono sulla strada gli zii con il cavallo della carrozzella ferito al piede.
Per la fame, Brancaccio propose di ucciderlo, così camparono alcuni giorni sulla strada vicino alla carrozzella e poi si separarono, perché lui ebbe l’occasione del saccheggio alla Cirio. Camminò da solo, vendendo le scatolette di pomodoro fino a Capodimonte, dove un giorno vide i camion guidati da negri, carichi di sacchi bianchi. Cominciarono i furti ai camion americani in salita: il ragazzo più agile saliva e scaricava sulla strada i sacchi di riso, di zucchero, di camicie e di farina. Molti compagni morirono a fare la corrente sulla strada: quando misero il negro di guardia sul carro, il ragazzo più agile saliva lo stesso e si aggrappava con disperazione e chiamava la mano del negro se non ce la faceva.
Dalla corrente dietro ai camion Brancaccio passò al porto. Al porto tagliavano il reticolato promettendo alle sentinelle negre la signorina. E di là la roba passava agli «abbozzatori», i ricettatori che abitavano case senza letti, vestivano malamente e guadagnavano più di tutti. Il riso passava per il posto di guardia nei pantaloni di Brancaccio e compagni. Divennero furbi anche gli americani, fecero la rivista a ogni entrata e uscita e spararono a mare, e ogni tanto i giovani portuali si dicevano: – Non sai niente? È andato a mare Tizio e Caio.
Perché rubavano? Per fame, rispondevamo agli americani. E questi prendevano la decisione di metterli a tavola davanti a due chili di riso cotto a colla. E se non volevano mangiare quello, gli americani facevano mangiare per forza la cera. Proprio I’ultimo giorno che stettero gli americani, morì a mare un altro amico stretto di Brancaccio. Gli americani se ne andarono veramente con la loro roba e i loro negri, allora lui si menò al treno.
Senza biglietti, andata e ritorno, dal ’45 al ’46 da Napoli verso la Lucania e la Puglia per certe stazioni: Persano, Balvano, Romagnano, Baragiano, Bella-Muro, nelle notti di estate e d’inverno sull’imperiale del treno, per il commercio di grano e olio; Brancaccio comandava una compagnia di quattordici uomini e tre donne. Una di queste se la teneva, dormivano nello stesso letto negli alberghi, e si amavano come marito e moglie nelle sale di aspetto davanti agli altri. Lei portava i conti, lui comandava sul prezzo dell’olio e del grano e cacciava e intascava i soldi.
Era gialla di pelle, lui non poteva accostarsi e toccarla senza sentirsi subito infuocato, e lei scoppiava dal ridere, sotto non stava mai ferma: lui si sfogava e lei cantava o gli diceva i guadagni del giorno. Come lui aveva la bocca squartata e sempre bavosa, per il resto i suoi capelli erano ricci e neri, quelli di Brancaccio sbiaditi e stopposi, gli occhi a lei secchi, a lui lacrimosi e venati di sangue, il naso di lei fino e sbalzato in avanti, quello di lui a piombo dalla fronte e largo alle narici. Brancaccio vicino a lei era diventato un uomo, anche se, a vederlo, una semplice guardia di paese poteva andare a colpo sicuro verso il contrabbandiere, il mariuolo, l’impestato, il guappo, ricercato dai comandi e farsi pagare il chiudere gli occhi con un pacchetto di americane. Era un uomo proprio quando metteva la mano nella tasca dei pantaloni, dove teneva i biglietti da mille e con quelli sapeva di co- mandare la sua compagnia, il paese, i contadini che vendevano, i controllori del treno, gli abbozzatori, e la sua ragazza, che gli strizzava l’occhio a quella tasca.
Una notte, dovevano spartire il guadagno, tutti i compagni gli si avventarono feroci alla tasca. Si ferirono con pietre e coltelli e i biglietti da mille, ognuno si prese i suoi, erano insanguinati. Tornata così la pace, andarono in un albergo a lavarsi le ferite. La ragazza ora non viaggiò più con lui e gli mise la condizione di sposarla. Ma lui fu arrestato il giorno dopo e tradotto da Taranto a Lecce a Salerno. Il migliore amico suo si prese il comando della compagnia e la ragazza. Uscito dal carcere in libertà provvisoria salì sul primo treno in cerca della compagnia. Al ponte quarto di Romagnano il treno si fermò, era caduto dall’imperiale e morto quello che lui voleva uccidere, l’amico traditore, ma la ragazza non c’era, e la compagnia si era sfasciata. Il treno arrivava ai paesi lucani del suo commercio, facendo giorno.
Brancaccio si fermò allo scalo di Pisticci e salì al paese con l’ultimo carico di merce. Qui c’era un’altra vita, di sole e di pace e di contadini che si muovevano la mattina e la sera. I paesani lo salutarono, dopo tanto tempo; vendeva la roba con la bella chiacchiera e con la cantatina. Decise di rimanere. Si faceva mandare la merce dagli altri, fino a che mise una baracchetta per negozio. La sera, sprofumato con la sciarpa al collo, portava le serenate, lui cantando, un giovane del posto suonando la fisarmonica. In capo a una scala vide una mattina una contadina nera e vestita di nero sui trent’anni, alta e un po’ grossa, maritata certamente o vedova, che si pettinava. Le offerse le pentole di alluminio: – È roba buona che vi fa, una lire al pezzo, una lira.
Scosse ai gradini le pentole e disse cantando:
Signò, signora mia. ‘Ncapo chesta ve sta bona. Parite ‘na regina co a’ corona -. Le regalò la pentola d’alluminio. Passarono dieci sere di serenate in capo a quella scala, la donna era vedova, stava con la madre vecchia, lo accettò come secondo marito. Il primo era morto tornando da campagna con una fucilata di un fascista, che era impazzito a sentire «Bandiera rossa» cantata dai contadini e si era messo a sparare. Vennero i compagni napoletani di Brancaccio al paese, la festa delle nozze finì a mezzanotte. Nel vano in capo alla scala il letto matrimoniale fu circondato dal paravento, sulla cassa dormiva la vecchia.
– Non smorziamo la luce – gli disse la moglie -, perché tengo paura.
– Perché tieni paura? di chi? – La donna non rispose e chiuse gli occhi. Era più grande di lui, voluminosa sotto le coperte, lui aveva parlato con la vecchia mentre lei si coricava. Ma gli bastava il viso, nero e paffuto, melanconico, e le labbra grosse: Brancaccio si sentì pieno di forza, di gola, di minaccia verso quella donna piena e buona come una cavalla. Doveva smorzare la luce, la pera dell’interruttore stava al lato di lei. Si scostò e le mise un suo ginocchio sulla prima gamba; lei aprì gli occhi e li richiuse per dire di sì e allargò la gamba, gli mise una mano sulla spalla per tirarlo su di se. Lui si sentiva piccolo e leggero sulla brace del suo corpo, cadde, quando lei fece largo spostando la gamba, di peso col tronco sul suo seno e con le ginocchia sul sacco del letto. Voleva ad ogni costo prendere la pera per spegnere la luce, fece per muoversi e trovò l’altra gamba di lei, finalmente raggiunge con tre dita la pera e spense. Lei sussultò subito e lo menò per aria al fianco al posto suo e riaccese la luce, gridando: – No, falla stare accesa. – Si ripetette la stessa giostra di lui che le andava sopra e della luce spenta e subito riaccesa quando lei spalancò gli occhi atterriti verso l’orlo del paravento e così rimase immobile.
Guardava anche lui quando bussarono alla porta con un tuono di colpi. Come corse alla porta, i colpi cessarono; aprì e non c’era anima viva, altro non vide che la luce in coda al vicolo e, sotto davanti a sé, le altre case nere come al fondo di un pozzo. Lei prese a lamentarsi, scuotendo il capo a destra e a sinistra: – Vieni qua, corri. Rimettiti a letto.
Egli tornò, a spinte, con gli occhi e le narici più larghi di come li aveva e cadde sul cuscino. Si sentiva il respiro della vecchia al di là del paravento sulla cassa. Dopo lei gli disse piangendo: – Era mio marito.
Rimasero con la luce accesa, lui appoggiato al cuscino, con i piedi per terra, fino a che fu giorno. Si vestirono, lei tolse il paravento e fece pulizia, lui l’aspettò al fuoco. Seduto su un basso trepiedi, gli appoggiò il capo sulle ginocchia e dormì; dormì anche lui col capo sulla mensola affumicata del focolare.
– Dobbiamo mangiare, – disse lei verso le dieci quando le donne vociarono nel forno che era sotto la casa. – Tu vai a fare la spesa, io vado a prendere l’acqua. – Così si mossero, uscirono dalla porta.
– Maria! – la chiamarono le donne. Ma lei non rispose, camminava portata come una statua verso il terreno dopo le case che era coperto di erba autunnale. Le donne la guardarono zitte, e poi si mossero, di scatto, quando Maria arrivò al muretto rotondo del pozzo. Non fecero in tempo ad arrivare che quella già si era piegata come a baciare la terra e scomparsa dentro, a capofitto.
Brancaccio andò a stare vicino al pozzo, guardato dalle guardie e dai carabinieri, o dalle donne e dagli amici, che volevano impedirgli di gettarsi anche lui nel pozzo.
Il terzo giorno stava fumando la prima sigaretta dopo la disgrazia insieme all’amico suonatore di fisarmonica, arrivarono due carabinieri: – Avete visto, disse loro – che non mi getto. È devozione.
– Adesso siamo sicuri, – disse uno di quelli.
Vieni con noi, c’è il mandato di cattura. – Era per i tanti fatti di contrabbando.
Nel carcere erano le dieci di notte e il sonno ci attaccava, dopo la lettura; Brancaccio fece un urlo e cadde dalla branda, rotolava per terra arroccando mani e piedi nella morsa di un attacco epilettico. Chiellino, Ciccio, il tarantino gli si avventarono contro per tenerlo. Poi gli fu addosso mezza camerata. lo dicevo di lasciarlo a Chiellino che gli spezzava quasi le ossa delle braccia: – Quello mi morsica -, Chiellino mi rispondeva. Rimasi freddo e tremavo, poi impugnai la bacinella e la suonai ai ferri del cancello per dieci minuti finché le guardie non dettero la voce che venivano.
Venne la guardia infermiere, gli facemmo largo attorno a Brancaccio ancora dibattuto e furioso. L’infermiere portò le forbici al ditone di Brancaccio e gli tagliò un pezzo di carne sotto l’unghia. Quando rinvenne che era così riposato e buono, l’infermiere lo prese a pugni: – La devi finire, la devi finire, non me la fai, hai capito?
Nessuno di noi disse più niente.
Dopo un poco, era mezzanotte, vennero a schiudere la porta io pensai per la visita.
E la visita era, un po’ anticipata. Da Brancaccio passarono per tutta la fila di letti il capo guardia e due agenti, con le mani dietro le reni. con il capo basso. Solo il capo guardia girava gli occhi attorno, sollevandoli ogni volta dal letto che toccava con la gamba: veterano del mestiere, egli era stato accoppato dai carcerati sepolti nel sonno e improvvisamente ridesti, che gli avevano rovesciato in capo il secchio di merda. Arrivarono a me: – Stai sveglio: vuoi venire fuori? – Mi alzai e li seguii. Appena sulla loggiata, arrivarono rumori di scarpe dall’ufficio Matricola illuminato, allora la guardia mi disse la spiegazione della mia uscita: – Ci sono nuovi giunti da segnare.
L’ufficio matricola era pieno fino alla vetrina, c’erano di spalla un carabiniere e un contadino col pastrano sul braccio, e, nel passaggio che ci dettero, altri contadini con le coppole in mano.
Quel carabiniere e un altro presero una carta di ricevuta dal capo-guardia e dissero: – Ci sono i colleghi giù che ci aspettano, buona notte – e se ne andarono ravviando la bandoliera nel passare tra i contadini.
– Che avete combinato? – disse loro il capo guardia alzando gli occhi sugli occhiali, dal suo tavolo.
– Niente, – rispose un contadino e guardò il capo e le altre guardie e me che stavo con la penna sospesa allo scrittoio alto del registrone matricolare. Un altro contadino accostò una pacca di natica e appoggiò il gomito sull’altro tavolo, era stanco, aveva la faccia arsa e friabile come una foglia di tabacco. La guardia con un pugno al gomito lo faceva per poco cascare come un palo: – Che vuoi anche la poltrona? Non stai a casa tua.
Il contadino che prima si era spaventato alla scossa e al richiamo, sorrise a queste parole teneramente. Ma la guardia s’inferocì, lo prese per una spalla e lo trascinò alla vetrina: – Mettiti in coda a tutti, ti faccio vedere. – Dava uno sporco accento barese a queste parole italiane. Io sapevo che la guardia era un ex-pastorello di Spinazzola; da quando l’avevano messo a fare la spesa era divenuto grasso e sgorbutico. Segnava la spesa sul registro maltrattando la penna e addentando il largo labbro: – Vogliono le terre degli altri, – proseguì – così dicono per non farsi chiamare ladri e sfaticati.
– Che avete combinato? – Riprese il Capo …
– Abbiamo rubata la terra, – disse il primo contadino, che aveva i capelli grigi attorno al bel volto rosato. – Eccola qui, – e si guardò gli scarponi pieni di fango.
– Basta, – disse il Capo, – come vi chiamate?
Cominciamo da te.
– Fiore. – Rispose il primo.
– Fiore, come?
– Fiore Giovanni.
– Di anni?
– 5I.
– Professione?
– Che professione? Magari la professione. Sono analfabeta.
– Che fai? Che fai? – Disse il Capo.
– Il contadino.
– Coniugato?
– Sì.
– Quanti figli?
– Nove.
lo segnavo le risposte sui puntini lunghi del registro, nelle pause immaginavo dal volto sopra la bocca di Fiore bestemmie e turpi parole, come quelle che dice la lucertola ai bambini che le mozzano la coda. La lucertola bestemmia i morti ai bambini, contorcendosi dal dolore con il moncone: a ogni contorcimento alla lucertola dice il bambino per recuperare il maggior numero di bestemmie: Cento morti a te e niente a me, cento a te e niente a me.
– Religione? Cattolico?
– Cattolico? No. – Rispose Fiore.
– Come? – Disse schifato il Capo, e diventò feroce.
– Perché fai pure il protestante? Tua madre non ti ha battezzato?
– Ah! – fece Fiore. – Cattolico sì. Ma non cattolico …
– Che avevi capito? – Disse più forte il Capo – Qui non si fa politica.
– Religione, si, cattolica. – Disse Fiore.
Vennero con me nella mia camerata quattro dei quindici braccianti, tutti materani presi nella notte, mentre dormivano, per istigazione a delinquere, perché l’indomani sarebbero ritornati a scavare la terra degli olivastri e quella di uno dei Segretari del Presidente del Consiglio, un certo dottore che non sapevano. Non ci capivano lì dentro: Pasciucco e Chiellino si misero ad accostare i letti, un vecchierello lo facemmo stare in mezzo ai nostri due letti fatti a uno, non si volle spogliare, si tolse la sola giacca di velluto e dalla camicia spuntavano le scapole puntute come pale di fichidindia. Non si mosse dal fianco dove si mise, chiese: – Che giorno è domani? – È domenica – gli rispose Chiellino. Fiore stette e stette, in piedi, mentre gli altri due si erano accoccolati con la fronte sulle ginocchia, vicino al cancello, poi si stese lungo anche lui, tanto doveva, verso le due, essere stanco, lo trovammo la mattina col capo poggiato al gradino del pulpito puzzolente, Ciccio disse di aver fatto bisogno, all’ora solita sua, verso le tre e non aveva voluto scomodarlo.
La mattina, il meraviglioso prete grasso aveva preparato, con il sagrestano (uno della banda di Bernalda), l’altare per la messa. Ci schiusero. Dalla seconda Camerata insolitamente, erano usciti a uno a uno i detenuti con Purchia in testa, il capo degli irsinesi, un comunista ribelle, che, seduto alla branda, dava gli ordini ed era ascoltato. Era voluto uscire per sapere il più presto possibile le notizie degli occupatori di terra. Decidemmo anche noi di scendere alla messa. Le altre domeniche non avevamo assistito. Era una lunga fila avanti all’altare, ai lati nostri stavano le guardie una pareva un cagnolino di tre mesi che salta addosso a tutti, così vicino a me, andava e veniva alzando le spalle e incupendosi. Noi veramente facevamo come le vespe a chiuderci vicini e stretti e passarci le parole e i segni: «Fuori c’è movimento. Verranno altri, occupano le terre. Questi sono di Matera, verranno quelli dei paesi. E dove li metteranno?».
Il Sagrestano si mosse facendo l’inchino col leggio e il messale da una parte all’altra. La voce del prete non si sentiva, ogni tanto alzava le braccia come un prigioniero voltandosi a noi. Dove gli venne tutta quella voce quando si voltò e rimase fermo senza alzare le mani per fare la predica! Ci puntò gli indici come due rivoltelle e li tenne così: – Che volete da Gesù, voi, voi pecore smarrite? Voi pecore zoppe e morvose? – Tolse gli indici e noi lo guardammo da allora con un muscolo molle e uno duro delle gambe, pronti a farlo continuare, pronti, come si è in certi casi a incassare i colpi, e a fremere e muoverci. Infatti venne il punto quando disse con voce pacata: «l comunisti sono tutti cretini e delinquenti». Purchia gli gridò «eh» che poi tutti prolungammo, mentre le guardie ci correvano da capo in coda. Purchia mise il piede fuori della fila, con le mani nelle tasche dei pantaloni fece i quattro passi fino al cancello della seconda: – Che hai? – Voglio rientrare. – Disse alla guardia che gli corse dietro. Anche noi ci sparpagliammo avanti ai cancelli delle camerate e vicino la porta per salire alla settima. Si vide il Maresciallo sopra la loggiata con una mano impugnata alla ringhiera e l’altra alta verso la sua fronte, pareva dovesse caderci addosso. Si mise a correre come chi corre a spegnere un fuoco senza neanche un secchio d’acqua.
– Hai visto, – disse il prete al sagrestano, – e a me che volli vederla che gente maledetta. lo non dico più messa -. Si curvò all’altare e si nascose sotto la pianeta che aveva una grande piega al suo collo fatto rosso d’anguria con i semi neri, certe piazze malate che gli dovevano bollire.
– Aspetta che finisce -. Disse il maresciallo a Purchia.
– No, – disse Purchia.
I contadini nuovi giunti erano curiosi come bambini al primo giuoco, se ne stavano uniti al muro.
– Se tu vuoi che aspetto, io mi metto a passeggiare e faccio l’ora di aria. Imparagli l’educazione.
– Ti prego, – disse il Maresciallo.
– Puoi farti la comunione, – gli rispose Purchia indicandogli il prete che era rimasto al nascondiglio.
Ce ne andammo tutti dentro, attaccammo i giuochi a dama e carte con l’unico ripetuto commento: il «Ti prego, ti prego» del maresciallo e la risata sincera.
Pasciucco fu il primo a rompere l’incanto: stavamo contenti della ragione avuta sul prete, e come chi ha ragione nessuno di noi cacciava fuori la lingua per maledire: il povero prete era all’antica, a suo modo, un bravuomo, come tutti i suoi colleghi che si contentano di vivere e solo per questo sono una necessità sociale nel corpo malato dei nostri paesi. Portava la veste frusta, ma pulita sulla carne bianca e gonfia, aveva una bella calligrafia, era suo compito censurare la corrispondenza: all’ora di pranzo mangiava anche lui la stessa nostra razione di vitto, ogni tanto lasciava il cucchiaio e prendeva la penna per mettere il visto e il timbro; seduto a un tavolino, il Maresciallo lo guardava come un suo dipendente che doveva dar conto. Quel giorno il Maresciallo, per punirlo, dovette privarlo del vitto, che non gli spettava, perché non si vide più dopo che sparecchiò l’altare e si svesti, in modo che pareva meglio la botticina che era con una doga allascata dal collo all’inguine, la sua pancia.
Pasciucco raccontò le confessioni di un sagrestano al suo arciprete: il sagrestano non accusava mai peccati, niente, non faceva mai niente. Va bene che stai nella chiesa, gli disse l’arciprete, ma i peccati li fai: chi si è fregato il caciocavallo nella dispensa? E il salame? Il sagrestano non rispondeva, disse all’arciprete: Don Ro’, non si sente, non si sente. Come non si sente? inferocì don Rocco. Il Sagrestano rispose: Vuoi sapere, vieni qui, cambiamo posto, mi metto io nel confessionile. Cambiarono posto: Don Ro’, è vero che te la fai con mia moglie? Di’ la verità. Don Rocco rispondeva: Come? come? Il Sagrestano gli disse: Te lo dicevo io che non si sentiva.
– Fanno il loro mestiere -, disse zio Donato lo zingaro.
– Più difetti tengono, tanto più sono bravi, – disse il camionista.
I preti di paese che giocano a carte, fumano, s’ubriacano tengono più compari dei galantuomini. Adesso li fanno fatigare di più con gli ordini che hanno. Prima erano nittiani o giolittiani e partecipavano alle lotte politiche, liberamente chi con uno, chi con un altro partito, non facevano le prediche, come adesso, servivano alla pace e all’intontimento della povera gente. E la povera gente era così dominata dalla potenza del prete, che lo credeva per la vicinanza a Dio e ai Santi capace di ripagare i torti e la stessa ingiustizia del cielo quando grandinava sui grani e sulle viti. Ed era sempre lui il responsabile della buona e della cattiva sorte collettiva. Ed era anche lui nella sorte con i venti e le gelate, soldi non ne vedeva e le feste se le passava. A San Chirico un prete sfruttatore, che nascondeva l’oro e i marenghi nelle casse in cantina e ogni sera se li contava, che portava una zimarra da dieci anni, con questa saliva, in groppa a una capretta, al cielo a guidare le nuvole nere, ogni anno, nel mese di agosto. In agosto era San Rocco, il padrone, che però si festeggiava in grande a Tolve, il paese dirimpetto, dove tutta San Chirico si spostava. Il prete non suonava le campane per cacciare la nuvola, che era sempre quella, arrestata al di qua del vallone sulle terre di San Chirico, mentre a Tolve si vedevano le creste delle montagne e le case bianche di sole. La gente, con le forche, con le pale per ventilare il grano, con le accette e le zappe correva a casa del prete e poi in chiesa, dove il più vecchio suonava lui le campane. E il prete? L’avevano visto con gli occhi levarsi da terra sulla capra, poco prima dei tuoni. Fatto sta che lui correva in cantina, dove penetrava tanta acqua che faceva galleggiare le cassette dei marenghi e lui, sopra, in paurosa preghiera. Finito il temporale, lo trovavano in casa a mangiarsi il sigaro.
Brancaccio apri la bocca per uno sbadiglio lungo, sollevando le braccia e contrasse i muscoli, poi cantò alla finestra:
Oi comme songo allere li banditi
oi quanne vanno dritte ‘e schiupputtate
volendo dire tutte le cose che noi uccelli frenetici non dicevamo ancora contro i fatti del giorno.
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