Anna era una donna chiacchierata. Samuele Hanau si è suicidato la notte tra il 12 e il 13 giugno, giorno in cui la Chiesa cattolica ricorda Sant’Antonio. Mentre la processione passava davanti alla casa di Anna, don Giacinto, rivolgendosi direttamente al gruppo di chierici, giovani appena usciti dal seminario, alzando la voce, intimò «Guardate avanti!». Don Alfonso, il canonico anziano, che procedeva al suo fianco, non condivise il suo zelo censorio e gli disse: «Ricordati che le tentazioni stanno a ogni angolo di strada».

     La storia di Anna era una storia di seduzione, che si era arricchita di fantasie morbose e l’aveva resa oggetto delle particolari attenzioni degli uomini del paese. Nel clima di pettegolezzi si insinua sottilmente una pudica e delicata storia d’amore. Accade a Natale del 1938.

     La pensione era ancora invasa dagli amici convenuti per portare un saluto, qualche parola di solidarietà, lasciar cadere un rapido commento sugli ultimi accadimenti, pochissimi sorrisi, anche per Anna, che, a un  tratto, sottraendosi alla curiosità, salì veloce nella camera di Samuele, che aveva riordinato per quasi un anno. Cercava qualche segno, un segreto, almeno un ricordo dell’uomo che la mattina di Natale se l’era fatta sedere accanto sulla sponda del letto.

 

«Il tuo respiro … ha il buon odore del mandarino» le disse. Non aggiunse altro.

E lei, candidamente:

«Ma è Natale, a Natale si mangiano i primi mandarini».  «Già, Natale è per voi la festa più importante dell’anno».  E le sorrise baciandola sulla guancia. Un bacio come una carezza. Lei, immobile al suo fianco, nutriva un’attrazione che cercava di nascondere anche a se stessa. Quando si sentì pronta all’abbraccio, lui interruppe l’incantesimo: «So che oggi qui usa dare gli auguri. Anna, i miei auguri  di buona fortuna».

Di un altro bacio, altrettanto casto, fu gratificata davanti  ai clienti e ad alcuni amici della pensione: Samuele la ringraziava per la torta che gli aveva preparato per i suoi quarant’anni.

Quello stesso giorno, all’imbrunire, lei comparve nella camera di Samuele, magnifica nella camicetta a fiori, con un bicchierino di rosolio che per l’emozione non trovava  requie nella mano.

«Lo avete lasciato sul tavolo della festa» disse chiudendosi la porta alle spalle.

Si avvicinò a Samuele che in maniche di camicia leggeva un libro alla luce soffusa di un lume. Egli se la trovò davanti con le sue labbra carnose e fervide, i grandi occhi neri; donandole un sorriso:

« E’ vero, non ho brindato con voi … ».

Non trovò altre parole per commentare quella inaspettata, stupefacente apparizione. Le andò incontro, si bagnò appena le labbra al rosolio, la carezzò sulla guancia, le posò una mano sulla spalla: era dubbioso se poteva spingersi oltre. Lei capì che qualcosa stava finalmente per accadere e si gettò nelle sue braccia, cogliendolo di sorpresa gli sfiorò le labbra con un bacio. Un attimo dopo si per- devano in un abbraccio che si fece vertiginoso quando Samuele cercò il suo seno; lei glielo scoprì e lui glielo baciò, una tempesta di baci.

«Prima o poi doveva accadere», le disse.

E non andò oltre, non ebbero il tempo per poter andare  oltre. Restarono per alcuni istanti in sospeso; insieme sentirono e capirono che qualcuno stava salendo dalla sala grande alle camere. Si ricomposero senza parlare.  Bussarono alla porta, lui andò ad aprirla: Caterina portava in dono una bottiglia di vino malvasia, una specialità del paese, omaggio degli amici della pensione a Samuele.  «Una scusa» pensò Anna. E s’incupì.

II giorno dopo, nel silenzio del primo mattino, Caterina, abbracciandola e quasi in un sussurro:

«Mi dispiace, mi dispiace per te, e ti capisco… ma ho  paura per lui. Se si viene a sapere lo rimandano in carcere, o chissà dove … ».

Due mesi dopo, impensatamente, Samuele si toglieva la vita.

I ricordi naufragavano nel cuore della donna. Nella stanza messa in disordine dalla perquisizione dei carabinieri Anna metteva le mani tra i vestiti di Samuele appesi nel piccolo armadio a muro e per la prima volta aprì i cassetti del tavolino. Ritrovò al loro posto i libri che gli vedeva  spesso tra le mani, quando leggeva chiuso nella stanza bisbigliando, e quei bisbigli la incuriosivano al punto che  qualche volta appoggiava l’orecchio alla porta. Non più  di tanto per Anna che avrebbe desiderato qualche confidenza in più dall’ospite che, celiando, si era definito “ospite speciale”.

Posò la mano fra le cravatte che pendevano come farfalle e su una in particolare, quella a pallini bianchi e blu, che indossava la mattina di Natale. La prese, la nascose tra le pieghe della gonna e impaziente di ritrovarsi all’aria aperta ridiscese nella grande stanza a piano terra, affrontò la piazza e scomparve.

Caterina era rimasta sola, anche se qualcuno le si avvicinò con l’aria del soccorritore. Lei, davanti alla porta, scrutò il cielo: vide che uno spicchio di luna si era già affacciato dietro la collina e pronunciò una frase che suonò come un segnale di cattivo augurio. Il padrone del caffè, notoriamente superstizioso, appena scese il buio e le ombre degli ultimi passeggiatori cominciarono a perdersi in lontananza, sollevò in aria per il manico una scopa e cominciò a dare la caccia ai pipistrelli che, mai così tanti, avevano preso il posto delle rondini e sibilavano in basso spettrali, sfuggendo all’agguato».

 

 

NOTA

     A ottant’anni abbondanti, quanti si sono accumulati sul mio groppone, non m’invento un altro mestiere: quello del critico letterario. Con questo blog rileggo e invito a rileggere Rocco Scotellaro; ora invito a leggere Mario Trufelli per amore e struggente nostalgia di Tricarico e amicizia per l’uno e per l’altro. Senza alcun’altra pretesa.

     La storia inventata in questo libro da Mario Trufelli è grande storia e piccola storia. Grande storia del regime fascista con le guerre, gli eccessi delle repressioni, la libertà negata e soppressa e l’antisemitismo e Grande storia della mafia; La grande storia si riflette in piccolo a Tricarico (o in qualsiasi altro paese meridionale), nella sua piazza, in un arco di anni in cui io e Mario Trufelli eravamo due ragazzi coetanei, compagni, e in quella piazza abitavamo fronte a fronte, in case distanti non più di tre metri. Mi propongo, quindi, di mettere in luce i puntuali e per certi versi sorprendenti riferimenti alla grande storia e, d’altra parte, di togliere la maschera a personaggi che costituiscono, nel racconto, autobiografia di Mario e mia.

     In tutta la storia ritornano spesso i canonici della Cattedrale di Tricarico, nominati col don che precede il nome di battesimo. Sono effettivamente i nomi di alcuni canonici ad eccezione, giacché a lui si assegna un ruolo-chiave, di don Armando che, come ho rivelato nel precedente post, va identificato in don Peppe Uricchio. Mancano don Tommaso (Aragiusto), don Francescantonio (Sanseverino) e don Mauro (Dente), che spiccavano significativamente nel Capitolo della Cattedrale e invece spicca don Giacinto, al quale è assegnato un ruolo di antagonista di posizioni aperte o meno grette. Mi chiedo se Mario non avesse avuto a mente, nel delineare il personaggio, la mano pesante che Rocco Scotellaro ha nei confronti di don Giacinto nell’ultimo capitolo dell’Uva puttanella. Scotellaro riferisce che lo zio sagrestano (Innocenzo Scotellaro, padre della professoressa Carmela), così si lamenta con Gesù: «O Gesù Cristo mio, tu mi castighi o mi perdoni, ma questo santo tuo prete, don Giacinto, che vuole ogni mattina tutti i soldi contati nella guantiera, non entra in sagrestia se prima non ho finito il giro, e vuole sapere da me chi ha dato e chi no, e la piglia alla lunga e non mi da mai un soldo se non fa più di una lira, può essere benissimo un diavolo vestito da cristiano».

     Non so se per costruire il personaggio di Anna, Mario si sia ispirato a un personaggio reale. Non glielo chiedo, perché, giustamente, non me lo direbbe, né io riesco a immaginarne uno.

     Dal primo mattino, quando in paese si diffonde la voce del suicidio di Samuele Hanau, alla delicata storia del fugace amore tra Samuele e Anna – pagine che salto, perché il mio è un lavoro meramente antologico, ma invito a leggere – si dipana la piccola storia e sfilano personaggi che, chi ha oltrepassato gli ottant’anni riconosce e ricorda. 

     Scoperto il corpo esanime di Samuele Hanau, Caterina, la padrona della pensione, se ne sta con la testa tra le mani accanto al camino. Trufelli aveva verosimilmente in mente l’albergo Cutolo, con portoncino d’ingresso a fianco del caffè Scardillo. Il barista che mette in pressione la macchina del caffè, superstizioso, che con la scopa scaccia i pipistrelli, mai così numerosi, non può che essere Innocenzo Scardillo. La vicinanza del suo bar alla pensione che aveva ospitato il confinato ebreo impone questa identificazione.

     Tornando dove il discorso è stato interrotto, nella pensione entrano i più mattinieri. Per primo il fruttivendolo (non c’era un fruttivendolo in piazza, ma banchi per la vendita di frutta e verdura in viale Regina Margherita, sotto il muraglione del palazzo ducale). Sul riquadro della porta intanto erano apparsi l’anziano usciere giudiziario, notoriamente mattiniero (don Michele Valinotti, nonno di Mario Trufelli), il giornalaio che era stato svegliato dall’abbaiare dei cani (Vincenzo Carolillo), il falegname che aveva casa e bottega nella piazza (Michele Sellitti, detto mast Michel Sturn, suocero dell’ufficiale giudiziario Rocco Picardi) e il farmacista (don Giovanni Carbone), che non aveva chiuso occhio per un certo via vai, una sorta di tramestio che arrivava dalla strada.

     Vado a un’altra pagina del libro, dove si racconta dell’arrivo in piazza, l’indomani mattina, di una Lancia Augusta di lusso color amaranto, con due uomini a bordo, oltre l’autista. Chiedono dov’è la caserma, ma mantengono un contegno riservatissimo. E’ nello stile degli uomini del prefetto Arturo Bocchini, il potente capo della polizia che lavorò al rafforzamento della polizia secondo le direttive del regime fascista, in particolare attraverso l’organizzazione di squadre speciali e di una capillare rete di controllo sull’attività degli antifascisti. Nel 1927 Bocchini costituì un nuovo apparato poliziesco alle sue dirette dipendenze, che Mussolini decise poi di diffondere in tutto il territorio nazionale; venne così creata l’OVRA  (Sigla di Opera Vigilanza Repressione Antifascista), che indicava il complesso dei servizi segreti di polizia politica durante il regime fascista. Nata nel 1926 per iniziativa di Mussolini, raccoglieva anche i servizi informativi dei vari corpi aventi funzioni di pubblica sicurezza e proponeva la denuncia degli indiziati al Tribunale speciale per la difesa dello Stato o alle commissioni per il confino.

     Bocchini, come capo della Polizia per quattordici anni, sarà l’uomo della sicurezza di Mussolini; l’8 novembre 1926 (appena due giorni dopo l’entrata in vigore delle leggi speciali di sicurezza) farà arrestare deputati antifascisti, o semplici sospettati di dissidenza, tant’è che la stessa sera fece arrestare anche Antonio Gramsci. Sarà ancora Bocchini a rifiutare il ricovero in sanatorio di Sandro Pertini malato al confino a Ponza. Sarà Bocchini, ancora, che farà arrestare Alcide De Gasperi.

     Bocchini, dunque, nella finzione letteraria, si interessa anche di Samuele Hanau, e lo sospetta di far parte di una cricca di congiurati che progettano l’uccisione di Mussolini. Hanau teme l’arresto e si uccide. Qual è la ragione vera dell’interesse di Bocchini per Hanau? Trufelli insinua l’ipotesi, che mette in bocca a don Armando che il motivo vero sia il suo essere ebreo, aprendo così la pagina del più efferato crimine della Storia, riservandoci una sorprendente sorpresa. La vedremo col prossimo post.

 

 

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