L’UVA PUTTANELLA_Parte III, Cap. X _ Ancora sul problema dell’incompiuto
Col capitolo X si conclude l’Uva puttanella. Ma il verbo concludere è sbagliato, perché l’UP è il «romanzo» che Scotellaro non avrebbe finito mai. Ho trattato questo tema col post pubblicato il 10.03.2013 intitolato: Il problema dell’incompiuto: la vita come racconto. Qui mi limito a ripetere che la prima difficoltà in cui ci si imbatte nell’affrontare una lettura dell’UPè quella dell’incompiutezza dell’opera, cui si aggiunge che le pagine di cui disponiamo (il testo pubblicato a cura di Carlo Levi nel 1955, cui si aggiunsero nel 1974 i Frammenti e Appunti dai quaderni, pubblicati dalle Edizioni Basilicata, in appendice al romanzo o racconto lungo giovanile Uno si distrae al bivio (e, prima, con nota introduttiva di Carlo Levi, in «Nuovi Argomenti», 17-18, novembre 1955-febbraio 1956, pp. 1-40) sono ben poca cosa se confrontate col Disegno generale del libro, pp.97-104 dello stesso USDB. La vastità e l’ambizione del disegno non erano certamente sfuggite a Carlo Levi, che nella prefazione all’edizione del 1964 scriveva che il «romanzo» Rocco non l’avrebbe finito mai, perché quello che aveva cominciato a fare era il racconto della sua vita svolto in dimensione letteraria, era il progetto ambizioso di raccontare tutta la sua vita, quando non si poteva prevedere una vita così breve, e, presumibilmente guardando all’ambizione del progetto, disse a Rocco che la sua UP era meglio del Cristo, come Rocco confidò a Antonio Albanese, commentando che il giudizio di Levi, “esagerato come al solito”, l’aveva bloccato. Ricordando ciò a me stesso, nel momento in cui «concludo» la rilettura del libro, vado pensando che forse bisogna necessariamente rileggere i suddetti Frammenti e Appunti dai quaderni.
Sono molti i temi del X capitolo. Ne richiamo qualcuno, con l’invito a leggerlo tutto: l’occupazione delle terre incolte del 1949 e i fatti di sangue di Montescaglioso, con l’uccisione di Giuseppe Novello (di cui Scotellaro non fa il nome) e l’arrivo in carcere degli «occupatori» delle terre (come li chiama Scotellaro); il ritorno del pensiero alla vita beata che conducono le classi «borghesi», metafora di ingiustizia sociale e di giustizia ingiusta, la spassosissima pagina del codice del cavaliere Carritelli, che il singolare personaggio incontrato nel capitolo III immagina di leggere al procuratore. Alla fine del capitolo ritorna Giappone.
[X]
La figlia del maresciallo si pettinava alla finestra: – Ecco, – disse Giappone, – la famiglia si prepara. Adesso escono, vanno al cinema.
Andammo a vedere al cancello coprendo Giappone.
La figlia del maresciallo si dimenava la capigliatura davanti allo specchio fissato a un chiodo, si voltò verso di noi e cacciò la lingua. – Uh, – le gridò Giappone – ringrazia tuo padre! – e scrollò dalle spalle le nostre teste. – Non c’è altro nella vita che una bella mangiata e una bella coricata con una femmina, – disse. – Le bestie fanno così e le bestie che lavorano non pensano ad altro.
Noi pensavamo ad altro, lo stesso Giappone, di lì a poco, gli dovette passare così cruda la fantasia della casa in campagna con la moglie, si fece dare il codice e lesse gli articoli del furto aggravato, dell’associazione a delinquere e dell’istruttoria.
Mentre stavamo così, Antonio il borsaiuolo mi venne vicino a porgere il filo di cotone con la madreperla, che dovevo far girare, lui teneva il temperino: uscivano le scintille e cadevano sull’anima della carta bruciata, così aveva il fuoco per accendere la cicca. Accese e tirò una boccata piena, andandosene alla sua branda.
– Ti piace questo giuoco? – mi chiese lo zingaro che guardava. – Dobbiamo risparmiare i cerini.
– E perché? Non ce ne sono? Hai voglia quanti fuori! – Disse Pasciucco sorridendo. Si voltò appena al cancello che allora la guardia copriva della grossa porticina di legno.
Non si fece la lettura, perché Giappone aveva sonno, già dormiva. Gli occupatori di terre si alloggiarono sui pagliericci, tutti caddero nel sonno. Timpone, al mio lato, era sveglio e mi disse di un giovane assassino, benestante, che c’era prima: a quest’ora s’inginocchiava a pregare vicino al cancello.
Mi lasciò anche Timpone, che chiuse gli occhi.
La notte cresceva nel carcere, anche io ero stanco per la nottata precedente, ma sentivo la città come un vento fresco, il corso doveva essere pieno, erano le otto, i signori del Circolo stavano con una gamba sull’altra, con sigari e sigarette in bocca, usciva il Prefetto con la moglie e i signori si scappellavano. I contadini stavano seduti, con le braccia stese sui tavoli, in un pozzo di luce nell’androne della Camera del Lavoro. I professori passeggiavano e discutevano. Gli studenti facevano sotto e sopra, tenendosi a braccetto. Le chiese erano chiuse, gli uffici tenevano le targhe sulle porte, i negozi avevano i nomi illuminati, i finestroni del tribunale non si vedevano, c’era la luce accesa dentro l’orologio. Qui, nella camerata, i sei pagliericci per terra e le brande strette una all’altra, parevano 1’addiaccio delle pecore in una terra a maggese. La povera guardia, sotto la finestra, stava nella garitta come un cane. Ricordavo i fatti della lunga giornata e dovevo dire la mia sul prete, sulla religione, sugli occupatori di terra, sulla figlia del maresciallo e sulla città, che mi avevano risvegliato l’amore. Non sapevo dire il resto di niente, salvo che godere questa pace della domenica sera, che tutti aspettano tanto che tutti chiudono senza nulla di fatto. Ecco, pensai subito, la religione potrebbe avere nessun merito, ma l’invenzione della domenica per gli uomini costituisce il suo pregio, la sua corona luminosa: i funzionari, i signori, la nobiltà escono di casa per stare a mezzogiorno e mezza avanti alla porta di una chiesa. Ci credono, non ci credono, portano o no sulla fronte superba e nel vestito la loro qualifica e la loro potenza, il fatto è che sono quieti inattivi, non scrivono le carte, non si attaccano ai telefoni, non stanno a tavolino, non corrono per i corridoi, non chiamano gli uscieri; ma fanno la politica di tutti uscendo nella strada, nel fiume del corso, andando ai teatri, agli stadi a spendere gli omaggi e le regalie, stando, in paese, nella piazza. Ogni domenica la gente si riunisce, a camminare zitti o a battere le mani. Quella domenica del carcere, se fosse venuto il procuratore per la rivolta contro il prete, avremmo potuto fargli sentire il codice del pazzo cavalier Carritelli, sicuri che avrebbe riso.
Articolo 1: È proibito condannare innocenti.
Il procuratore: – Perché?
Carritelli: – Perché io sono in carcere e sono innocente.
Il procuratore e noi a ridere e Carritelli a dire: – Sono innocente io con tutti i miei colleghi.
Articolo 2: Non arrestare mai donne.
– Perché puoi chiudere tutti gli uomini, meno uno, quell’uno basta per tutte le donne; ma se arresti una donna, come fa a far figli? L’umanità se ne muore.
Articolo 3: È vietato cavalcare porci.
– Perché il porco si getta per terra dove c’è acqua e fango e tu cadi, ti fai male e ti sporchi l’abito.
Articolo 4: Non fumare mai all’aperto.
– Perché all’aria il fumo se ne scappa, dentro resta e anche chi non ha sigarette può fumare.
Articolo 5: Le banche sono abolite.
– Perché ci sono molti disoccupati e gente che muore di fame senza soldi. I soldi che non hanno i disoccupati e la gente che muore di fame li tengono chiusi nelle banche, perciò le banche si devono aprire e abolire.
Noi avremmo battute le mani e il procuratore sarebbe andato correndo a dire alla moglie e agli amici il codice del cavaliere. Perché era domenica.
Ma Carritelli aveva avuto uno scoppio di nervi, non era uscito a sentire la messa, dicevano i suoi compagni della quarta che da due giorni passeggiava sulla branda avanti e indietro, notte e giorno, si affacciava alla finestra e gridava: – O pasta asciutta bella, ti desidero veder!
Ora la piazza della città diventava un cimitero, la gente si ritirava, quand’ecco un rumore di passi all’ufficio matricola e un tintinnare di catene, uguali a quelli della notte precedente: venivano altri occupatori di terra dai paesi più lontani. Che domenica e domenica e religione e funzionari quieti!
Avevano dette e cantate le messe e allargato lestamente le braccia per dire pax vobiscum, avevano tenuti i comizi per la lotta che assicurava il pane e il lavoro, nelle conferenze del giorno si era parlato di umanità, nei teatri, nei cinema si era riso e pianto per giuoco, e i carabinieri avevano – con tutte le cautele – operato.
Fiore, nel sonno, chiamava dei nomi e diceva: – Figlio mio! Tata mo’ viene, viene presto!
Allora pensai, guardando Fiore rotolarsi e sentendolo parlare, al dolore dei contadini di Montescaglioso, chiusi da un anno, presi all’alba di una giornata eccezionale della loro fatica, gialli e malati, che erano i più stanchi di tutto il carcere, con gli occhi dilatati. Un loro compagno era rimasto ucciso sulla strada, mentre, non più isolati e ognuno con la propria zappa, quella mattina di dicembre si erano levati per andare insieme, tutti su un lembo di terra a piantare l’aratro. Scoppiarono i colpi dei moschetti da una nuvola a pochi metri come un temporale. Nei primi giorni di carcere erano fieri e fiduciosi, poi chi cadeva ammalato non ebbe le medicine e scrisse e si raccomandò invano per averle; le uniche faccie dei colloqui erano quelle dei familiari, che portavano ogni tanto qualcosa. I compagni avvocati dicevano di resistere, e i mesi passavano uno sull’altro.
Purchia, il comunista ribelle, del gruppo di Irsina li scorticava di ogni speranza: – Perché non lanciano tutti i cani, perché ci abbandonano? Fanno la politica a modo loro. La faremo a modo nostro.
I giovani della banda di Bernalda, alcuni ex partigiani e reduci, disoccupati, avevano razziato le masserie e distribuito il grano ai nullatenenti. Anche loro speravano in principio l’aiuto dei beneficiati. Poi andarono più in là di Purchia, rinunziando definitivamente alla fede politica dell’unione dei poveri e dei lavoratori.
– Per combattere una giusta battaglia, uno deve diventare onorevole, e un altro morire? – diceva Purchia. – Uno tenere i comizi e l’altro venire in galera? – Quale solidarietà? – gridava il giovane della banda di Bernalda. – Non religione, non partito, ma la camorra e la propria camicia.
E ce n’era anche per me:
– Te lo dicevo io? – Mi disse un cinico amico.
– Meglio essere fesso e non sindaco.
Quella notte non voleva passare, con tutti i pensieri che correvano come topi. Qualcuno mi aveva detto che il contadino bavarese, la sera, dopo la giornata di lavoro, si mette a sedere e pensa e ripensa e muove il capo, poi si batte improvvisamente una manata sulla coscia: – Ci sarebbe da ridere – dice – se la religione che ho non fosse quella vera!
E se anche la mia fede non era quella vera? In una famiglia, di religione ebraica, c’era una giovane cameriera paesana, che i padroni in certi giorni a una certa ora lasciavano libera, perché dovevano iniziare i loro riti religiosi: – Tu puoi andare, Maria, sei cattolica.
Ma lei prontamente: – Resto, per piacere. Datemi anche questa vostra benedizione, non si sa mai, può servire.
E mio zio sagrestano, anche lui: – O Gesù Cristo mio, tu mi castighi o mi perdoni, ma questo santo tuo prete, don Giacinto, che vuole ogni mattina tutti i soldi contati nella guantiera, non entra in sagrestia se prima non ho finito il giro, e vuole sapere da me chi ha dato e chi no, e la piglia alla lunga e non mi dà mai un soldo se non fa più di una lira, può essere benissimo un diavolo vestito da cristiano.
Nel dubbio e nella fede in tutte le religioni che s’insinuavano anche in me, era l’unica religione dei poveri.
Si faceva l’alba. Se uscisse, pensai, come certo uscirà, qualcuno di quelli della banda di Bernalda, cercherà il lavoro, elemosinando per averlo come un pezzente. Non avrà la forza di gridare più, di minacciare, dopo cinque anni di galera, di dire ciò che sente. Si guarderà in giro: la gente è contenta come sta. È stato lui il fuorilegge, come lo guardano tutti, anche gli straccioni. Oggi, libero, potrebbe diventare il migliore alleato del governo locale e nazionale. Infatti lo diventerà, perché lui capisce l’ingiustizia, ma è deciso a starsene zitto.
Dalla rimessa della Questura attaccarono i motori delle motociclette e dei camion, che fecero svegliare Chiellino: – Non fanno manco far giorno – disse. – Chi sa quale altra povera famiglia vanno a rovinare! – I pagliericci, le coperte si mossero e a uno a uno ci mettemmo in piedi.
Ognuno, con la faccia lavata, era già lontano dal suo sogno, dall’odore proprio della sua carne, dalle carte processuali e dai ripieghi difensivi, che la notte sbocciavano come cardi nella terra arida.
Né Pasciucco, né Brancaccio, né il Tarantino, né Giappone e i soci, né io, né Chiellino e gli scioperanti, avevamo pietà di noi stessi tanto da torcere il collo davanti a un giudice liberatore: eravamo tutti in piedi, tenuti dalla forza e dalla luce del giorno.
Chiedemmo la stecca del caffè: – Un giorno ci cacceranno fuori, – disse Chiellino, – per adesso l’appetito è un buon segno.
Erano passate le nove quando l’aria di turno della Settima finì al suono della campanella e ce ne risalimmo a uno a uno passando davanti all’ufficio matricola, giù nel cortile usciva, intanto, dopo di noi, la seconda. I movimenti erano tali e quali a quelli delle greggi, dei conigli, delle galline, dei tacchini, dei porci, chiusi e schiusi nelle masserie. Il capo guardia mi chiamò, cominciava il mio regolare servizio continuato all’aperto, mentre i miei compagni si curvavano sotto la bocca della settima e scomparivano a uno a uno.
Per la mia camerata presi il posto di Bartolomeo nel farmi vedere innanzi al cancello e Giappone, non avendo più modo di recitarmi le sue poesie, me ne passava in belle copie per mio diletto e per il lavoro di critica. Non capisco come gli capitò di scrivere questa per esprimere, la prima volta, dal suo cuore ribelle e incredulo, un atto di fede nei «màrtiri», nella «sincerità», nel «primo maggio», che veniva tra qualche mese, nel carcere, pieno di 30 occupatori di terra:
Memorie della mia vita.
Poveri sogni miei d’amar beati
che nel meglio del gioir siete sfuggiti
suggestivi e lacerati
come uccelli nei boschi siete spariti.
L’amor che mi nacque fu amor pio
e fu stroncato dalla sorte ingrata.
Nei primi sogni d’amor la mia vita
mi trovo in un gran groviglio disperato.
Quel groviglio che vincolato mi tiene
dolor nel cuor mi serra
ed io con battaglia tagliar vorrei la rete
ma ogni speranza mi vien troncata.
Io sono contadino e ne vesto le spoglie,
e tutto ciò? lo farò contro mia voglia.
Ma se il cervello si offusca o s’imbroglia
ne nascerà un battibecco o piglia piglia.
Io, io ho rossor di questo, pien di rancor
e tu Italica pien di lividor
Nostro scorno occulta, e nostro sudor;
Di me parlan di ferocia, e chi sa che male
E tutto si maschera del Papato e Quirinale.
Ahi! cotanti duol vanno nell’oblio
Vigliacca e barbara tirannia!
Vai mio dolente addolorato Verso
in giro per questo universo.
E perché fango-vita, sei così perversa?
È la coscienza dell’uom che è retrocessa!
Io martire e non riconosciuto
me ne infischio dei sapienti incretiniti
da me poco sono riconosciuti.
Il primo Maggio non è lungo ed il trono sarà atterrato:
Chi mi parla di realtà su questa vita?
Un imbecille o un impazzito,
uguaglianza bella, perché dormi?
Atterriamo questi nocivi vermi.
E io, tra monti e valli, sfiderò la mia sorte
fra boschi fitti inzinnanti pietre
sarà lì il regno della mia morte
con guardie gigantesche e bestie nere.
Caro Scotellaro, quante cose avrei da raccontare, ma per spazio di misera carta non si può continuare.
Giappone era corto e grigio, ma duro nella stessa pingue pancetta e nelle grosse natiche, con molto pelo pizzuto in capo e sugli occhi. Non era quasi mai triste, ma chiuso come un riccio o che leggesse e scrivesse o che, con le mani nelle tasche troppo basse dei pantaloni, stesse al cancello o alla finestra a guardare avanti a sé.
Quante volte, dopo la prima, Giappone era entrato in carcere e quante altre volte ci sarebbe venuto dopo l’ultima? Incomprensibile e fuggevole era il suo sorriso che non si capiva di che cosa egli avrebbe voluto riempirsi, finalmente soddisfatto di vivere: come tutti i cercatori di gioia, era spesso annoiato con la mano sotto la cintola al caldo del ventre e si scuoteva e usava lucidi discorsi solo se si trattava di decidere un’azione comune o di impartire un consiglio ai suoi più sfortunati compagni fino a diventare per loro severo e autoritario. Ma egli non avrebbe saputo dirmi da dove cominciare una nuova vita: non bastava non rubare più. Ecco il paese, rotondo in capo al colle, e le case disposte come la merlatura di una torre; tutti lo accoglievano paurosi e ubbidienti i contadini, che gli apprezzavano il coraggio di un loro ideale eroe, nessuno mai gli aveva detto: – Ora basta, mettiti a lavorare. – E nessuno di quelli che lo temevano e lo odiavano gli avrebbe mai più riconosciuto l’innocenza, la giustificazione, le attenuanti. La moglie, una contadina che viveva da regina solitaria, gli avrebbe fatto le focaccie, le stesse che gli mandava in carcere in una valigia ogni quindici giorni; contenta di riaverlo, preparava la tavola gli faceva la pulizia, ogni giorno, rivedendolo, diceva: – È andata bene! – e si accalorava e lo amava più di ogni altra moglie che si corica col marito che torna ogni sera dalla campagna. La villeggiatura di Giappone al paese durava fino al giorno della prima chiamata in caserma. Egli, per conto suo, non sarebbe mai più diventato servitore e ignoto cittadino. Scartato l’ultimo rimorso, si sarebbe dato alle fiere e di nuovo all’abigeato con la forza di avere contro di lui la notte e tutte le porte chiuse delle stalle e delle case degli uomini. Nel carcere, in quest’alternata villeggiatura, l’unica grande speranza nasceva sul fondo del ricordo dei fasti dei furti riusciti dall’inizio della carriera, quando, senza macchia, affrontava anche il Barone Berlingieri e gli parlava a tu per tu. Ora gli avrebbe parlato per dirgli con maggior sicurezza: – So come te le sei fatte queste terre, mascalzone, ti è andata giusta.
Cosa doveva dirgli: – Dammi una mano -? E quello l’avrebbe rifiutata. Chiedergli e avere un posto comodo e di comando come meritava? Giappone credeva nei propri diritti di uomo accorto e intelligente e nel privilegio di chi sa fare, ma era insieme pessimista sul buonvolere degli uomini e del Berlingieri, delle sue guardie e dei suoi fattori. Egli sarebbe andato avanti per la sua strada, con la sua sorte, usando sapienza, astuzia e orgoglio, che potevano anche fruttare la fortuna per l’avvenire, ma nemmeno la sperava, seppure modesta, perché sarebbe ritornato alla sua terra, alle avventure di sempre tra i boschi e le pietre del suo paese, dove avrebbe aspettato il regno della morte, solenne, come gli si doveva, «con guardie gigantesche e bestie nere». Tutti gli altri eroi e avventurieri pari suoi, antichi e recenti, delle città e delle nazioni lontane, egli li leggeva nei libri, quando non aveva altro da fare, e per lui anche Dante era un eroe, un confratello riconosciuto dopo morto.
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