Tricarico fu uno dei pochi paesi della Lucania, e del Mezzogiorno, a votare in maggioranza per la Repubblica. Con la Repubblica anche la Democrazia Cristiana del ventiseienne Emilio Colombo fu la scelta dei tricaricesi del 2 giugno 1946. Si parlò di «duello» tra Colombo e l’ex presidente del consiglio Francesco Saverio Nitti, personalità di cultura e intelligenza straordinarie. Se non di duello, la campagna elettorale in Lucania ebbe indubbiamente come principali protagonisti Colombo e Nitti, che chiamava “sagrestanello” il giovane candidato democratico cristiano. Nitti era stato presidente del consiglio prima che Colombo nascesse e il suo secondo ministero cadde quando Colombo era nato da tre mesi. L’anziano statista e il giovane di benne speranze rappresentavano le maggiori correnti  politiche alla ripresa della vita democratica, anche se il ricordo di Nitti si era un po’ attenuato durante il suo esilio nel periodo fascista. Più viva fu la presenza di Colombo, che aveva molto lavorato soprattutto attraverso l’Azione Cattolica e fu il principale protagonista della riscossa democratico cristiana, che divenne primo partito della regione, risalendo dal clamoroso insuccesso del partito popolare nel 1919, che aveva riscosso un misero 3 per cento. I nittiani, il 2 giugno, furono secondi; Nitti, peraltro, in tutta la circoscrizione superò Colombo in preferenze.
     Socialisti e comunisti si classificarono, rispettivamente, al terzo e al quarto posto; i socialisti erano in testa ai comunisti. A Tricarico i socialisti conseguirono un lusinghiero successo, benché lontano dal risultato della DC, e i comunisti riuscirono a racimolare una sessantina di voti. Cinque mesi dopo, alle prime elezioni amministrative comunali si registrò un crollo della Democrazia Cristiana e l’elezione a Sindaco del ventitreenne socialista Rocco Scotellaro, che capeggiava una lista tecnicamente non di sinistra, giacché la componevano non solo socialisti e comunisti, ma anche repubblicani e indipendenti. Il 18 aprile del 1948, tutto all’opposto, all’elezione della prima legislatura repubblicana, si registrerà il trionfo della Democrazia Cristiana col sessanta per cento dei voti.

     Il racconto di Quando i galli si davano voce è pura invenzione letteraria, lontana dalla storia reale del momento, ma anticipatrice del futuro. Ninì, giovane maestro di scuola elementare, è il capo dei socialisti, richiamando la vicenda politica di Rocco Scotellaro, con la cui figura viene misteriosamente a confondersi. Ninì è Rocco Scotellaro?  Appreso il risultato elettorale, con la lettura dell’ultima scheda del quarto seggio, che, col voto a favore della Repubblica, simbolicamente sancisce la scelta repubblicana dei tricaricesi, Ninì sente imperioso il bisogno di recarsi a casa di don Armando per riferirgli il risultato elettorale. « Don Armando – gli annuncia  – ha vinto la Repubblica, e anche il vostro partito, la Democrazia Cristiana, e anche Nitti ha ottenuto un successo personale che credo vi gratifichi molto »-. Qui il momento letterario coincide con la realtà storica. La Democrazia Cristiana – e non il movimento di Nitti – era ora il partito dell’ex nittiano don Peppe Uricchio. Nitti, quando Nitti si recò a Tricarico per tenere il suo comizio, s’incontrò in piazza col suo amico e antico sostenitore. I due si abbracciarono commossi e don Peppe comunicò al politico melfese che aveva compiuto la scelta a favore dell’unità politica dei cattolici, della Democrazia Cristiana. I due si dettero politicamente l’addio.

     Il racconto si conclude con la morte di don Armando, a dicembre del 1949. «Una donna del vicinato,  che con altre, secondo la consuetudine, aveva ricomposto  in tonaca nera e mani in croce sul petto il corpo senza vita di don Armando, si affacciò alla finestra e quasi interrogando Ninì esclamò: “Quanta gente sta passando, sembra una processione. A quest’ora poi …”».
 Vedremo nel prossimo post il senso ambivalente si questa processione. Ora lascio la parola a Trufelli.
Cinque minuti dopo la mezzanotte il presidente del  quarto seggio elettorale – gli altri avevano già concluso lo  scrutinio – lesse l’ultima preferenza sull’ultima scheda:  «Repubblica».
Scoppiarono applausi che il presidente tentò di scoraggiare, ma i carabinieri di servizio al seggio fecero finta di  non sentire. Soltanto un rappresentante di lista del partito monarchico, rosso in viso, si avvicinò a Ninì: gli rovesciò parole a diluvio che nessuno capì e si ebbe in risposta un lungo sospiro del “signor maestro”.
Con i conti fatti sul momento dall’impiegato municipale all’anagrafe, nel paese la Repubblica aveva vinto con oltre il sessanta per cento dei suffragi.
Allora Ninì si fece sentire: <<È un trionfo!». Ed ebbe un  solo unico scopo, portare la notizia a don Armando che lo stava aspettando nella sua casa ».

 

«Il tuo partdon Armando che lo stava aspettando nella sua casa.

 

«Don Armando, ha vinto la Repubblica, e anche il vostro  partito, la Democrazia Cristiana; Nitti ha ottenuto un successo personale che credo vi gratifichi molto; i socialisti e comunisti sono il secondo partito con un forte consenso” “Il tuo partito, vero?», domandò don Armando, guardandolo con simpatia.
«Proprio cosl. Ho la tessera con la firma del segretario nazionale Pietro Nenni», disse Ninì, compiaciuto.
«È stata una tua scelta, sono certo che non l’hai fatta a cuor leggero, ma sull’onda dell’entusiasmo per la politica  che finalmente è tornata».
Ninì scese nella strada che era notte fonda, i compagni lo  stavano aspettando rumorosi e irrequieti. Si diressero alla Camera del Lavoro, dove lo strepito degli organetti e  dei canti si disperdeva di vicolo in vicolo, portando lontano l’eco della festa che finì all’alba. Ninì si sentì rapito dal richiamo di un uccello. «Canta il merlo», pensò. Don  Armando lo svegliava imitando il fischio del merlo,  quando andava a servirgli la messa.
Gli ultimi compagni, rauchi esausti e storditi dai frequenti brindisi si erano dileguati. Ninì restò solo a guardare l’orizzonte con uno striscio d’azzurro che cominciava a tinteggiare il cielo della piazza. Passavano i primi  contadini con muli e asini, zappe e bisacce; una piccola  processione di uomini che andavano nei campi e lo salutavano togliendosi la coppola. Lo chiamavano Ninì, ormai era un compagno, ma da guardare con rispetto.
Nel cerchio di luce della lampada verde sul comodino accanto al letto, di don Armando non si percepiva quasi più la fisionomia.
Ninì, che lo vegliava, pensò a un giuoco di ombre. Ma  sul volto del canonico in ogni ruga era scritta la storia della lunga dolorosa malattia.
Lo sguardo, appena visibile tra le palpebre semiaperte, si  perdeva in un punto indefinito della stanza dov’era caduto il silenzio.
Don Armando moriva. Era l’alba di una fredda domenica di dicembre del Quarantanove. Si era annunciata con la nebbia che nascondeva i profili delle montagne e i tetti delle case. A sorpresa si svelò un sole malato che donò  un briciolo di luce agli ultimi istanti di vita del vecchio  canonico, l’uomo libero, mite e nondimeno inflessibile.  E proprio Ninì, il ragazzo di una volta che gli serviva la  messa e lo faceva sussultare nella chiesetta del cimitero  quando suonava il campanello stonato, gli chiudeva gli  occhi, accanto alle sorelle … in preghiera. Fuori la luce  del giorno cominciava a dilagare. Dalla strada saliva un  tramestio di gente in cammino. Una donna del vicinato,  che con altre, secondo la consuetudine, aveva ricomposto  in tonaca nera e mani in croce sul petto il corpo senza vita di don Armando, si affacciò alla finestra e quasi interrogando Ninì esclamò:
«Quanta gente sta passando, sembra una processione. A quest’ora poi … »
 
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