IL DISASTRO FERROVIARIO DI GRASSANO DEL 20 OTTOBRE 1888

Il passeggero, che percorreva il tratto ferroviario da Calciano a Grassano, vedeva sul fianco del monte, alla riva destra del fiume Basento, svolgersi una scena vagamente dantesca della ridda tra prodighi e avari. Una folla di manovali operavano con badili o zappe, altri riempivano carriole di terra, altri con grossi sforzi le smuovevano nel terreno argilloso per portarle a scaricare a qualche decina di metri, altri col badile badavano a saldare il carico al fianco del monte. La  loro era una fatica di Sisifo per fermare il monte che scivolava a valle: lo fermavano, lo rimandavano indietro e il monte riprendeva a scivolare.
     La loro fatica impediva che si ripetesse un evento tragico come quello del 20 ottobre 1888, quando il fianco del monte smottò coprendo l’intera valle e provocò il più grosso disastro ferroviario che in quei tempi fosse mai capitato, causando la morte di 20 passeggeri e il ferimento di altri 48. (Desumo questi dati da un atto giudiziario, da ritenersi perciò più attendibili di altri, leggermente discordanti, riportati in altre fonti).
     Quegli uomini impegnati nella fatica di Sisifo avevano eretto un altarino dedicato  alla «Madonna della frana», alla quale si levavano suppliche affinché le autorità non rivedessero la decisione, mai ufficialmente dichiarata, che la manovalanza del posto tenesse a bada la frana. In quei tempi la maggioranza dei lavoratori erano braccianti e non c’era lavoro per tutte le braccia. Ricordo le proteste quando, per sterrare e coprire con una massicciata di brecciolino la strada di Malcanale, fu utilizzata una ruspa e, se non ricordo male, la protesta ebbe la meglio sulla ruspa. Se si toglieva lavoro alle braccia, in quel periodo l’alternativa era l’emigrazione in Venezuela, il solo posto che ci era rimasto e che, annotava Scotellaro a una sua poesia, non valeva un bicchiere d’acqua del nostro Basento.
     La costruzione della ferrovia Battipaglia – Potenza – Metaponto iniziò nel 1863 e fu completata diciassette anni dopo, il 27 dicembre 1880, con l’inaugurazione del tratto Potenza-Calciano. Un lungo periodo in cui già prima si erano scontrate e continuarono a scontrarsi anche dopo, da un lato l’aspirazione di collegare Napoli all’Adriatico, visto come porta dei traffici, dall’altro una ferma opposizione sobillata dai proprietari dei fondi da espropriare o espropriati o che si ritenevano lesi nei loro presunti interessi o che nutrissero un odio ideologico contro il progresso. Mi capitò tra le mani il testo di una conferenza tenuta nel circolo dei nobili e diffusa gratuitamente, stampata su carta lucida in un elegante opuscolo con copertina semirigida, che accusava il treno di essere la causa di tutti i mali e le disgrazie, dal più forte attacco della peronospera non solo alle viti, ma a ogni specie di ortaggi, tale da distruggere tutti i raccolti, alla forma più grave di tubercolosi, che si consigliava di prevenire ingerendo ogni mattina un cucchiaino di zolfo. Si può immaginare quale effetto ebbe sull’opinione pubblica il disastro occorso solo otto anni dopo l’inaugurazione del tratto ferroviario, anche se non ho notizie dell’eco che il disastro ebbe sulla stampa e riguardo alle reazioni popolari dei numerosi paesi che gravitavano sull’area del disastro, di cui oggi mi pare che se ne sia perso il ricordo.
     Il governo e la magistratura si impegnarono a negare la responsabilità della Società ferroviaria.
     Esattamente un mese e due giorni dopo il disastro – nella tornata del 22 novembre 1988 – se ne discusse alla Camera su una interrogazione di un eminente deputato lucano, l’on. Pietro Lacava, che si trovava a Potenza quando accadde il disastro e si recò immediatamente sul posto per rendersi conto della situazione. Lacava, era nato a Corleto Perticara nel 1835, nel cui collegio fu eletto deputato nel 1868, rappresentandolo ininterrottamente alla Camera fino alla morte. Aveva fatto parte di comitati patriottici al tempo della spedizione Pisacane (1857), e nel 1860 fu anche segretario generale del governo prodittatoriale. Fu sottosegretario agli Interni (1876) e ai Lavori Pubblici (1878), quindi ministro delle Poste (1889-91), dell’Agricoltura (1892-93), dei Lavori Pubblici (1898-1900) e infine delle Finanze (1907-08).
     Attivo sulla scena pubblica fino agli ultimi anni di vita (nel 1911 si schierò a favore dell’impresa libica e nel 1912 presiedette la commissione nominata per esaminare il trattato di Losanna con la Turchia), il Lacava morì a Roma il 26 dicembre 1912, dopo esser stato nominato ministro di Stato.
     L’on Lacava fece al ministro dei lavori pubblici Sarocco, a cui l’interrogazione era rivolta, sette domande, che inchiodavano la Società ferroviaria alle sue responsabilità. Il ministro si incaricò in parte di minimizzare i fatti, in parte di negarli, e di escludere ogni responsabilità della Società ferroviaria. Il regolamento della Camera non consentiva all’on. Lacava di ribattere al ministro, ma accadde che subito dopo fosse illustrata un’interpellanza presentata dall’on. Di Sant’Onofrio ai ministri dei lavori pubblici e della guerra, vertente sul grave disservizio ferroviario. Si era infatti verificato un grave disordine ferroviario, che non trovava spiegazione, che si estese a tutte le più eccentriche linee della penisola, causando ritardi fino a 5 o 6 ore.
     Il disordine terminò col doloroso epilogo del disastro di Grassano. Il treno giunse sul luogo della frana, che era caduta poco prima, con due ore di ritardo, per cui incontestabilmente il ritardo fu principalmente dovuto al disservizio ferroviario e non a una sfortunata fatalità. Si aggiunga la mancanza dei freni automatici, che fu una delle cause principali del disastro. Il macchinista aveva visto la frana alla distanza di circa 60 metri, tanto che aveva dato il controvapore e fatto i segnali di allarme, per cui, se i freni automatici vi fossero stati, o il disastro non avrebbe avuto luogo sarebbe stato molto meno grave. Sopra una linea così importante e cosi difficile, come quella Napoli-Metaponto, i freni automatici non sarebbero dovuti mancare, tanto più in quanto ne era fatto obbligo dalle Convenzioni, come fecero presente sia l’on. Lacava sia l’on. Di Sant’Onofrio. I freni automatici risultavano applicati sopra moltissime altre linee di minore importanza, e che non presentavano pericoli così gravi, come quelli della detta linea.
     Una pagina ancora più brutta fu quella scritta dalla magistratura. Una macchia.
     La scandalosa lunga conduzione della causa per il disastro di Grassano si può leggere nei capitolo VIII e IX del volume Difese penalidi Enrico Ferri, Utet 1925, che fu avvocato di parte civile. Enrico Ferri ha un posto di rilievo nella storia della scienza penalistica. E’ stato massimo esponente della scuola positiva di criminologia, distinguendosi da Lombroso in quanto concentrava la sua indagine su fattori sociali ed economici quali fattori che spingevano alla criminalità, professore di diritto penale, avvocato, militante socialista, direttore dell’Avanti e deputato socialista.
La causa rimbalzò da Potenza a Matera, ritornò a Potenza, il cui tribunale, con una onesta e coraggiosa sentenza pronunciata il 21 novembre 1891, condannò un guardiano per omicidi e ferimenti causati dalla sua negligenza, e un telegrafista ferroviario per falsa testimonianza, assolvendo il macchinista per non provata reità e, in particolare, dichiarò responsabile civile il comm. Mattia Massa, direttore generale della Società Ferroviaria (Rete Mediterranea).  
     Gli eventi poco prima ricordati, per contrastare tale affermazione di responsabilità civile, avevano ritardato di tre anni la causa, «e mentre altrove, dirà Enrico Ferri ai giudici di Potenza – come vedemmo in Francia poche settimane or sono, al danno succede rapido e inesorabile il giudizio, in Italia noi di fronte a uno dei più immani disastri che la storia delle ferrovie ricordi, noi per tre lunghi anni tacemmo. Sì che il nostro dolore e la coscienza del nostro diritto furono dentro di noi rinserrati e, dice Paolo Bourget, il psicologo artista: «il silenzio è il veleno del cuore».
     Il direttore generale Mattia Massa aveva parlato di speculazioni e di pettegolezzi, aggiungendo disprezzo al dolore dei parenti dei morti e dei feriti, e la sua difesa aveva sostenuto che sarebbe stata vana disquisizione accademica il discutere se coi freni automatici, di cui era mancante il treno, si sarebbe potuto evitare o rendere meno grave il disastro. Si creò un clima che fu il pretesto di cui si avvalse la corte di cassazione per trasferire la causa, per legittima suspicione, dalla corte d’appello di Potenza, che avrebbe dovuto discutere in appello i ricorsi contro la sentenza del tribunale di Potenza,  alla corte d’appello di Bologna! Enrico Ferri dovette spiegare chi erano le vittime di quel disastro: i morti e i feriti e non la Società ferroviaria. Ancora oggi accade che le vittime del crimine (abbiamo esempi nella cronaca giudiziaria di ogni giorno) sono rimproverate e in un certo qual modo colpevolizzate per aver subito un processo di vittimizzazione. Mi pare opportuno, pertanto, riportare un breve brano della una memoria di Enrico Ferri, che si legge nel IX capitolo delle citate Difese penalie col quale chiudo questa amara storia: « … A Bologna il P.M. e il relatore non fecero che uno sfogo irruento contro il tribunale di Potenza che aveva osato condannare la Società ferroviaria … tanto che io, sdegnosamente protestando, lasciai la toga e non volli partecipare alla discussione. In Cassazione continuò lo stesso malaugurato influsso e la impunità del disastro di Grassano (che mi fu confessato a quattr’occhi essere imposta dalla ragione di stato di non provocare il fallimento della Rete Mediterranea, con l’obbligo di pagare qualche milione di indennizzo)». Due anni dopo la sentenza di Potenza, cinque anni dopo il disastro, la Società ferroviaria andò esente da ogni responsabilità!
     Sono trascorsi centoventisette anni dal disastro di Grassano, di cui si è perso persino il ricordo. Non mi sento pertanto a disagio se aggiungo un’appendice – appendice non del disastro ma della costruzione della ferrovia – riguardante la famiglia di mia moglie. 
     A tale costruzione parteciparono tecnici francesi, uno dei quali aveva portato la famiglia in Basilicata, prendendo alloggio a Tricarico. Della famiglia faceva parte una giovane fanciulla di nome Blanche. Non so se bella (e la bellezza dell’asino a sedici anni doveva vantarla e ingentilire con la dolce cadenza francese)o essenzialmente perché straniera e soprattutto francese, lo speziale di Tricarico la rapì. Costui si chiamava Domenico Lavecchia, all’esercizio della farmacia univa la proprietà di un discreto patrimonio. Aveva quindi i requisiti per chiedere la mano della francesina, che, sfortunatamente per lui, era attesa in Francia da un bel tenentino, al quale s’era promessa. Lo speziale tricaricese non si scoraggiò e romanticamente la rapì, ripetendo il gesto all’origine della storia di Roma. Al rapimento seguì, festeggiatissimo, il matrimonio riparatore, dal quale nacquero cinque figli, tre femmine e due maschi. Di queste figlie e figli ricorderò due: Cristina e Giovanni.
     Cristina, da cui ha preso il nome mia moglie, detta Titina, è la madre dell’avv. Domenico De Maria, mio suocero e nipote dello speziale rapace e, ovviamente, nipote della francesina tentatrice.
     Giovanni è il padre di Bianca Lavecchia, vedova del dott. Michele Molinari, che è stato sindaco di Tricarico negli anni Sessanta.
     Blanche, Bianca è nome che è rigogliosamente gemmato in famiglia. Bianca si chiamava una sorella dell’avv. De Maria, Bianca è il secondo o terzo nome di mia moglie e di sua sorella Paola, Bianca è il nome della vedova Molinari, altre Bianche sono gemmate dagli altri figli della francesina, che ho omesso di ricordare e forse continuano a gemmare.
     Qual è stata la ragione del successo di questo nome? Perché piace? O per riconoscenza verso quest’ava venuta d’oltralpe a popolare Tricarico? O per il fascino dell’esotico?
     Inutile cercare la risposta, l’esotico non tira più.

 

 

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