IL FANCIULLO NON GUIDA IL CAVALLO

si neque fervidis

pars inclusa caloribus

mundi nec Boreae finitimum latus

durataeque solo nives

mercatorem abigunt, horrida callidi

vincunt aequora navitae?

Magnum pauperies obprobrium iubet

quidvis et facere et patì

virtutisque viam deserit arduae.

Vel nos in Capitolium

quo clamor vocat et turba faventium

vel nos in mare proximum

gemmas et lapides, aurum et inutile,

sumrni materiem mali,

mittamus, scelerum si bene paenitet.

Eradenda cupidinis

pravi sunt elementa et tenerae nimis

mentes asperioribus

formandae studiis. Nescit equo rudis

haerere ingenuus puer

venarique timet, ludere doctior

seu Graeco iubeas trocbo

seu malis vetita legibus alea,

cum periura patris fides

consortem socium fa llat et hospites,

indignoque pecuniam

heredi properet. Scilicet inprobae

crescunt divitiae, tamen

curtae nescio quid semper abest rei.

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Traduzione di Giuseppe Giannotta

Non la parte della terra invasa dal caldo

nè quella percorsa da borea

e neppure i duri ghiacciai

impauriscono il mercante

e il marinaio di specchi selvaggi.

La povertà obbrobriosa

impone ogni cosa,

fa abbandonare i valori.

Buttiamo in Campidoglio

dove s’avviva il consenso,

o in un mare vicino a noi

perle, monili, l’oro inutile

(causa di disgrazie),

se chiediamo d’essere schietti.

Sopprimiamo lo stimolo

del falso desiderio

e avviamo la gioventù

a studi seri. L’incauto

fanciullo non sa guidare il cavallo

che strepita, timoroso

di cacciare, bravo più

nel greco gioco del cerchiello

o nell’altro dei dadi ,

che la legge combatte.

Perchè lo spergiuro d’un padre

imbroglia amici ed ospiti

per ammucchiare denaro

al figlio senza meriti.

Così aumenta la ricchezza

che il vento sparpaglia.

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     Carm. 3,24 (coscienza della virtù). La ventiquattresima ode del terzo libro, divisa in quattro strofe, è composta di 64 versi. Giannotta ne ha scelti 29, gli ultimi nove della terza strofa e la quarta strofa interamente, e li ha intitolati «Il fanciullo non guida il cavallo». Ossia un fanciullo di buona famiglia senza meriti, bravo col cerchio greco e addirittura nel gioco dei dadi, punito dalla legge, piuttosto che nell’arte del cavalcare, utile per la caccia. Il cerchio greco era un gioco col quale ancora ci dilettavamo noi della mia generazione, e così lo chiamavamo, facendo correre un cerchio guidato da un bastoncino curvato all’estremità. Il cavallo, all’epoca, già costituiva un segno di superiorità sociale ed era inammissibile che non si facesse valere la condizione privilegiata. Nel Rinascimento sapere andare a cavallo aveva assunto una connotazione particolare. Un nobile, un ricco non potevano non sapere andare a cavallo. Tutto ciò che era collegato al nobile animale conferiva autorevolezza. Presso la corte degli Asburgo d’Austria «quella di maestro delle scuderie era una delle quattro maggiori cariche […] che andarono consolidando la loro supremazia a partire dal Cinquecento». A Ferrara «quella di maestro di stalla era una carica così prestigiosa che conferiva il diritto di sedere alla mensa ducale». A Bruxelles, alla corte dei Paesi Bassi austriaci, il primo scudiero proveniva dall’alta nobiltà. (P. Mieli, L’arma della memoria, ed. Rizzoli, Milano, 2015, p. 74 s.)

     Il tono civile dell’ode, proclamato anche nella dedica alla coscienza della virtù, ricorda le prime sei odi di questo terzo libro (odi romane).

     In una società corrotta come quella uscita dalle guerre civili, senza ideali apparenti, il desiderio di una restaurazione morale è vivo e quasi insopprimibile; ma non servono leggi ad arginare il disfacimento, se manca una profonda coscienza della virtù: leggi limitative o costrittive rimangono lettera morta, vuoto nominalismo se non si ritrova in se stessi la ragione intrinseca d’un retto vivere. La possibilità esiste sempre anche nella società più misera: bisogna avere coscienza e volontà. Se l’esame delle condizioni intorno a noi non può che ingenerare pessimismo, rimane pure una speranza, confortata persino dall’esempio di popoli considerati barbari. E il poeta addita gli sciti della steppa della Tracia, che trainano la loro casa, o gli iraniani geti, popoli nomadi che vivevano tra il Danubio e il Don e praticavano nelle loro società una specie di comunismo primitivo.

     Il pessimismo oraziano è certo intenso, ma non senza spiragli: la retta via ci sta davanti, basta sceglierla. Chi vuole eliminare stragi e rabbia dalle lotte civili dovrà porre un freno al dilagare dell’arbitrio e costituire esempio a chi verrà. Il merito genera invidia, ma è rimpianto e cercato quando è estinto. Occorre la pena per estinguere il male. La legge senza morale è sterile.

     Il poeta si rivolge a un generico Romano e dice che quantunque egli avesse maggiori ricchezze degli arabi e della doviziosa India, e occupasse con le sue ville tutto il Mar Tirreno e l’Àppulo, se la crudele Necessità si farà sentire, non avrebbe liberato l’animo dalla paura e non si sarebbe sottratto al destino della morte. Meglio di lui stanno i nomadi Sciti, che trasportano con sé le loro case, e meglio i severi Geti, cui piace alternarsi di anno in anno nella coltivazione della terra. Colà i figliastri, privi come sono della madre, sono allevati dalla buona matrigna; e la moglie dalla ricca dote non comanda sul marito né cede al fascino di un giovane. Chiunque vorrà porre fine alle empie stragi e alle rabbiose lotte intestine, se br13amerà che sotto la sua statua si scriva “padre della patria”, dovrà porre un freno al dilagare dell’arbitrio. Perle, gioielli e oro gettiamoli in Campidoglio, gettiamoli in fondo al mare se veramente ci pentiamo dei nostri delitti. Intanto i padri di figli inetti con perfidia frodano il socio di affari, ingannano il proprio ospite e accumulano ricchezze per un erede indegno. «Che le ìmprobe ricchezze crescano, sì, è naturale; tuttavia un non so che al patrimonio, che par sempre piccolo, sempre manca!», così Giustino Fortunato traduce gli ultimi tre versi di quest’ode, concludendola significativamente.

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