Don Giacinto e don Armando discutono ad armi impari, nell’ufficietto dell’usciere giudiziario, delle leggi razziali e del ruolo degli ebrei per la Chiesa in uno degli abituali conclavi serali dei canonici. «Vi dice qualcosa il nome Samuele Hanau, con l’acca davanti?» domanda don Giacinto entrando nell’ufficio, col tono provocatorio amplificato da quell’ «acca davanti»,  per aggiungere subito che nessuno aveva capito nulla, che l’uomo che si era suicidato era un … ebreo. Le sue considerazioni superficiali mostrano scarsa conoscenza della posizione della Chiesa sul ruolo degli ebrei, che lo induce a confonderla con la politica antisemita del regime fascista. Il suo antagonista,  don Armando, con sottile ironia, si avvale di un libello di uno dei massimi gerarchi fascisti, quel Roberto Farinacci ras di Cremona, noto per la sua disinvolta carriera di studi, per la sua fama di istruttore di manganellatori e per il suo odio antisemita. Don Armando ne legge ampi passi: la bolsa retorica del gerarca si ritorce in aspra critica alla politica razziale.

     Il passaggio è sorprendente e va notato per due motivi. Il primo è che l’autore – l’io narrante Mario Trufelli – fa leggere il libello di Farinacci a don Armando, e non posso negare che mi ha sorpreso che Mario conosca quel testo introvabile o, meglio, inesistente in quasi tutte le biblioteche e noto solo a qualche agguerrito specialista. Il passaggio va inoltre notato per l’occasione, colta con abile delicatezza, di accostare a don Armando la figura del nonno – usciere giudiziario nel romanzo e nella vita –  esaltandone la figura nel tessere l’elogio del prelato. «Alle  sue spalle, sulla parete, il ritratto di Vittorio Emanuele III. Era nato lo stesso anno del Re d’Italia, il 1869, e si compiaceva di assomigliare al sovrano, non per la statura, che lo superava di diversi centimetri, ma per la solennità del baffo di cui andava fiero. Aveva la buona abitudine di saper ascoltare, soprattutto don Armando che aveva un talento particolare per mettere in difficoltà i suoi interlocutori».

     Non voglio rubare spazio al libro. Nulla dirò della posizione della Chiesa sul ruolo degli ebrei e il giudizio sulla politica razziale del regime. Peraltro dice abbastanza Farinacci. Dirò chi è stato Roberto Farinacci e farò qualche cenno della sua politica antisemita, che non nasce nel 1938, bensì risaliva all’indomani dell’ascesa al potere di Adolf Hitler, dopo di che lascerò che il lettore di questo post passi più utilmente alla lettura del libro.

     Roberto Farinacci (1892-1945), gerarca fascista, fondò il fascio di combattimento di Cremona ed è stato uno dei più violenti dirigenti dello squadrismo fascista dell’età «rivoluzionaria del movimento». E’ stato segretario del partito nazional fascista (PNF) dal 1924 al 1926.

     Membro del Gran Consiglio del fascismo, il 25 luglio 1943 si schierò contro l’ordine del giorno Grandi e patrocinò un proprio ordine del giorno, che raccolse solo il suo voto, di sfiducia a Benito Mussolini e di assoluta fedeltà all’alleato tedesco. Riparò poi in Germania e militò nella repubblica sociale italiana (RSI). Fu giustiziato dai partigiani.

     Nel 1938 fu il gerarca fascista che accolse con maggior entusiasmo le leggi razziali e l’alleanza con la Germania nazista. Il 7 novembre 1938, Farinacci tenne a Milano una celebre conferenza, per ribattere le posizioni della Chiesa cattolica, che aveva protestato contro l’impostazione razzista delle leggi antisemite, accusando la Chiesa di parteggiare per gli ebrei e di rinnegare, con le sue proteste, una plurisecolare tradizione di ostilità antiebraica. Affermò che i cattolici fascisti consideravano il problema ebraico un problema strettamente politico e non religioso, e in materia politica ognuno ha e difende le sue idee. Se, come cattolici, i fascisti erano diventati antisemiti, ciò erano dovuti agli insegnamenti pervenuti dalla Chiesa attraverso venti secoli.

     Affidò le sue idee al nominato libello intitolato  La Chiesa e gli ebrei, Roma, Tipografia Tevere, XVII. (Il testo non riporta altra data, se con quella fascista, corrispondente al 1938-1939. Il regime aveva aggiunto una seconda calendarizzazione, che riportava in lettere romane gli anni dall’avvento del fascismo, secondo la formula «Anno … E.F. Farinacci aveva omesso la calendarizzazione del mondo civile, che parte dalla nascita di Cristo e fatto posto solo a quella fascista).

     Il ras di Cremona, nel perseguimento della propaganda antisemita, stabilì un solido sodalizio col sacerdote Tullio Calcagno, violento polemista accecato di fanatismo, sospeso a divinis dal vescovo di Cremona per i suoi articoli su Regime fascista, diretto dallo stesso Farinacci, e altri giornali. Calcagno si propose l’obiettivo, radicale e velleitario, per il quale fu scomunicato, di un’imponente riforma della Chiesa Cattolica che portasse alla creazione di una Chiesa autocefala, cioè indipendente da quella romana e con un primate italiano distinto dal papa: secondo lui, infatti, il sommo pontefice rivestiva un ruolo troppo universale per difendere adeguatamente gli interessi italiani. Anche Calcagno fu fucilato alla schiena dai partigiani.

Segue il testo del romanzo (pagg. 25 – 32)

 

«Vi dice qualcosa il nome Samuele Hanau, con l’acca davanti?

Don Giacinto lanciò la domanda appena mise piede nell’ufficietto dell’usciere giudiziario col preciso proposito  di suscitare la curiosità dei quattro canonici, fedeli come  lui, al consueto appuntamento serale. E quella era una sera assediata da domande alle quali tutti chiedevano risposte, compresi i preti, non proprio estranei alle vicende del paese.

Di fronte al silenzio dei suoi confratelli, don Giacinto allargò le braccia in un polemico segno di resa e disse, dimenticando anche le buone maniere:

«Mi accorgo che non avete capito nulla di tutto ciò che è  accaduro. L’uorno che purtroppo ha voluto concludere  così tragicamente la propria esistenza, che il Signore lo  perdoni, era … un ebreo».

Fece una pausa per sottolineare con le dita che la parola  andava messa tra virgolette, poi continuò:

«Per tutto il tempo che è stato qui non è mai entrato nelle nostre chiese, perché non credeva … »,

«In Gesù Cristo, che gli ebrei misero in croce» gli fece eco  don Armando con ironia, come a dire che quelle precisazioni erano scontate, superficiali, prive di criterio.

E don Giacinto, contrariato, ripetendo il gesto abituale  di quando non riusciva a portare a compimento un’idea,  non ebbe il tempo di replicare che fu anticipato da don  Oreste, il più pacifico tra i canonici della cattedrale.  Schioccava di continuo la lingua sotto il palato per sistemare la dentiera che di tanto in tanto, soprattutto durante la messa, gli faceva capolino tra le labbra:

«E noi proprio di questo discutevamo. Adesso non è più  un segreto per nessuno che quel confinato era un ebreo,  lo sanno tutti, l’ha saputo Caterina durante l’interrogatorio in caserma, l’ha saputo Anna, lo abbiamo appreso  noi, ormai lo sa tutto il paese».

E don Armando, lapidario:

«Quei signori venuti dalla capitale li ha mandati il prefetto Bocchini, il capo della polizia. Sono due alti dirigenti della polizia politica, avevano l’ordine di fare arre-  stare l’avvocato Hanau e trasferirlo nel carcere di Regina  Coeli. Sono arrivati con un giorno di ritardo. Il confinato, Samuele voglio dire, era stato sicuramente informato,  da chi e come lo stanno indagando, e ha voluto togliere  il disturbo seminando dubbi e sospetti».

Parole che lasciò cadere sulle facce stupite dei quattro  preti e dell’usciere giudiziario che per tutto il tempo in  cui si trascorrevano le serate, restava quasi sempre in silenzio, fumando la pipa e seduto sulla sesta sedia – non  più di tante ne poteva contenere lo spazio a disposizione.  Lo divideva dal resto della compagnia un tavolino ingombro di carte bollate con la smorfia, la cabala del lotto bene in evidenza per le frequenti consultazioni. Come ufficiale giudiziario (facente funzioni), «in nome della  legge» eseguiva sequestri, sfratti, protesti cambiari. Alle  sue spalle, sulla parete, il ritratto di Vittorio Emanuele III. Era nato lo stesso anno del Re d’Italia, il 1869, e si  compiaceva di assomigliare al sovrano, non per la statura, che lo superava di diversi centimetri, ma per la solennità del baffo di cui andava fiero. Aveva la buona abitudine di saper ascoltare, soprattutto don Armando che  aveva un talento particolare per mettere in difficoltà i suoi interlocutori.

Il canonico amava le discussioni e le accendeva con la sua  vis polemica. Lo soccorreva anche la voce, dal timbro che  non lasciava dubbi sulle sue capacità oratorie. E se qualcuno gli chiedeva perché si fosse fatto prete, rispondeva  persuasivo:

«Perché credo in Dio».

Era un prete che si muoveva fuori dalle righe, malgrado i tempi. A Ninì, che lo accompagnava nelle chiesette di campagna e più frequentemente al cimitero per servirgli  la messa, parlava spesso dei suoi amici lontani: si fidava del ragazzo e gli faceva delle confidenze. Una mattina gli mostrò e gli lesse una lettera, ricevuta, chissà come dalla  Francia, da un famoso personaggio politico italiano in  esilio. E ci volle un grande sforzo di memoria da parte del ragazzo per ricordare, molto tempo dopo, che quella persona si chiamava Francesco Saverio Nitti e ne parlò sol-  tanto con qualche compagno assolutamente disinteressato all’argomento.

Don Armando non faceva misteri della sua autonomia di opinione. Era nota la sua franchezza nel disapprovare raduni manifestazioni patriottiche inni di regime. Le autorità locali fingevano di non sentire, di non sapere. Era un prete colto, rispettato, maestro di latino e greco. Erano stati suoi allievi, durante le vacanze estive, quasi tutti i dirigenti della sezione del fascio, non ultimo il segretario politico locale, un reduce della guerra di Spagna dalla  quale era tornato con quattro dita in meno nella mano destra, ma lui con orgoglio durante le adunate del sabato fascista dava dimostrazione di bravura ai figli della lupa e ai balilla scrivendo con la mano sinistra sui loro quaderni di scuola «Noi tireremo diritto Benito Mussolini».  Puntuale scoppiava l’applauso. Applaudiva anche il figlio della lupa che batteva la mano destra sul tamburo di un balilla: il maestro gli aveva legato la sinistra dietro la  schiena poiché aveva la tendenza a essere mancino.  Quella stessa sera, nell’angusto ufficio della piazza, dove  si trovava a suo agio per poter fumare un sigaro in compagnia, di fronte al silenzio stupefatto dei suoi amici canonici, don Armando si sentì in dovere di precisare:  «Non bisogna dimenticare che è in atto in Italia una campagna contro gli ebrei e che da un anno sono in vigore le leggi razziali».

Don Giacinto, che girava di continuo lo sguardo e pareva aspettasse il passaggio dei pipistrelli fuori dalla porta a vetri per poterli idealmente scacciare come pensieri molesti, tentò una sua interpretazione:

«Gli ebrei hanno tentato di formare un movimento politico. Senza contare la loro alleanza con i massoni, con i  socialisti, ma soprattutto con altri partiti anticristiani».  Don Armando atteggiò le labbra a malumore.  «Anticristiani, dici? Ma lo sai che solo cenrocinquant’anni fa sono stati distrutti i ghetti e che la persecuzione nei loro confronti ha sempre avuto carattere esclusivamente  religioso? Ora è in atto una politica razziale che ha deciso di escludere dalla convivenza civile, dal mondo del lavoro, dalle professioni la comunità ebraica in Italia. Si  parla di difesa della razza ariana, la nostra naturalmente.  Il segretario del partito Starace ha dichiarato che la razza  italiana appartiene al nobile gruppo degli indio-europei.  Che scoperta! Per il confinato speciale Samuele Hanau,  che per quanro ho potuto sapere era considerato un pericoloso sovversivo, per giunta ebreo, devo presumere che  era stata decisa una punizione esemplare, se è vero che il  suo caso ha scomodato i grandi inquisitori romani. Ma sappiamo com’è finita».

Nel suo angolo, dove si metteva al riparo dagli sbuffi della pipa dell’usciere giudiziario, don Oreste si coprì gli occhi con le mani, che fece scivolare lentamente sul viso, e  dopo un rapido schiocco della lingua prese a parlare:

«La chiesa cattolica nella propria liturgia ha pregato e invocato per la conversione degli ebrei, ma di quegli ebrei  che nel tragico racconto di San Matteo avevano invocato  Sanguis eius super nos et super filios nostros e si prendevano tutta la responsabilità per la condanna a: morte di Gesù Cristo. Ma ditemi un po’, quando mai ci siamo occupati del problema degli ebrei, noi, parlo di noi che viviamo da sempre in questo paese? Se non ci fosse stato il suicidio dell’Hanau avremmo mai parlato di questa politica razziale?».

Ci fu un lungo silenzio, ne approfittò don Armando che tirò fuori dalla tasca della tonaca un opuscoletro, una dispensa di colore azzurro sbiadito. Senza fornire spiegazioni cominciò a leggere:

«Da oltre cinque lustri io denunciavo il pericolo giudaico e la necessità di liberare i gangli delicati del nostro paese dagli ebrei che erano riusciti con manovra diabolica a  stendere dovunque i loro tentacoli. E non ci si venga a dire che la politica antisemita seguita oggi dall’Italia fascista ci è stata suggerita o l’abbiamo presa a prestito dalla  Germania. Bisogna essere in malafede per affermare questo. La stampa nazionale in questi ultimi tempi ha pubblicato brani di discorsi e di scritti del ’23 e del ’25 e degli anni seguenti, con i quali il Duce affermava di difendere la nostra razza».

Don Armando smise di leggere per verificare le reazioni dei suoi interlocutori. Con un deciso gesto della mano gli  fece cenno di continuare don Alfonso che fino a quel  momento era rimasto compunto ad ascoltare. Don Armando riprese la lettura:

«In Italia furono gli ebrei che vollero l’assedio economico durante l’impresa etiopica e agirono sui governi delle varie nazioni perché l’Italia fosse domata con le armi».  Volando con lo sguardo tra le poche pagine della dispensa e leggendo qua e là frasi che in precedenza aveva evidenziato continuò:

«Si disse più volte dagli stessi giudei che essi rappresentavano una razza diversa dalla nostra, inconfondibile e  inassimilabile, e che essi non riconoscevano nessun principio con la campagna a favore del sionismo. Ma noi, per  gli ebrei, eravamo dei Goim, degli spregevoli esseri zoologici. La conquista dell’Impero ci ha imposto di affrontare subito il problema dell’integrità della nostra razza. E  giacché la questione doveva essere affrontata, la soluzione non poteva essere che totalitaria. E abbiamo accettato  in pieno la tesi degli ebrei, che noi siamo diversi da loro  e che “come l’olio non si mescola con l’acq ua”, cosl Israele non si mescola con gli altri popoli».

Don Armando smise di leggere e attese.

«Ma chi ha detto, chi ha scritto, chi ha pensato tutto questo?» esclamò don Alfonso rivolto al confratello che rigirava tra le mani l’opuscolo.

Don Giacinto intanto fumava il sigaro con l’aria di chi guarda e pensa lontano.

<< E’ Roberto Farinacci l’autore del discorso del quale vi ho letto degli stralci. Ha pure un titolo particolare: La  chiesa e gli ebrei. Il discorso lo ha tenuto all’Istituto fascista di Milano il sette novembre dell’anno scorso, in coincidenza con la promulgazione delle leggi razziali. Farinacci fa molti passi indietro per legittimare l’antiebraismo del regime fascista, ricorda e commenta le vecchie disposizioni dei concili e dei pontefici contro gli  ebrei, fin dai primi secoli del cristianesimo. Si sofferma  sulle invettive di Papa Innocenzo III che nel 1215 ordinò, leggo testualmente, che «gli ebrei di ambo i sessi  in ogni provincia ed in ogni tempo dovevano distinguersi dal resto del popolo anche per la qualità dell’abito. E proibì ai cristiani ogni rapporto commerciale con  gli ebrei e persino la conversazione con gli ebrei anche su banali argomenti».

Era veramente troppo anche per don Giacinto che cominciò a nutrire dubbi sull’autenticità del discorso del  gerarca, uno degli uomini più rappresentativi del regime.  «Ma che c’entra la Chiesa con questa esclusione degli  ebrei dalla vita civile, se è soprattutto la Chiesa che viene  attaccata oggi perché non ha accettato questa campagna di odio?»

E don Armando:

«Quel passato fa comodo oggi a chi perseguita gli ebrei, soprattutto in Germania. Ti leggo un altro passaggio del discorso di Farinacci a Milano»:

«Noi cattolici fascisti consideriamo il problema ebraico  un problema strettamente politico e non religioso, e in  materia politica ognuno ha e difende le sue idee. Ma diciamo, a conforto dell’anima nostra che se, come cattolici, siamo diventati antiserniti, lo dobbiamo agli insegnamenti che ci furono dati dalla Chiesa durante venti secoli».

«Follial- esclamò don Giacinto e, togliendosi gli occhiali,  trasmise l’affanno della miopia a tutta la sua persona. Rimessi gli occhiali, orientò lo sguardo su don Armando e  sibilò:

«Inopportuno!».

 

Tagged with:
 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.