La piazza è la cornice entro cui si rappresentano eventi raccontati dal sapore realistico di un lessico famigliare. Il lettore che ha parlato e ascoltato le parole di quel lessico ricostruisce realisticamente gli eventi, rivede le facce delle persone e gli restituisce il vero nome, e, raccontando, ha voglia di rappresentarlo veristicamente a coloro che quelle parole, per ragioni d’età, non hanno ascoltato.  

     Pietro, il confinato che in piazza saluta don Armando, dandogli il “lei” è reale e vero. In un prossimo post dirò il suo vero nome. Egli ha un ruolo importante in tutto lo svolgimento della storia di Quando i galli si davano voce, in parte reale e in parte inventato. Per ora mi limito a riferire una microstoria  raccontata nel romanzo, su cui si innesta una macrostoria di quell’opera buffa (ma, ahime! buffa e tragica) che fu il fascismo. In piazza, dunque, Pietro saluta don Armando dandogli il lei e don Armando, ironico e malizioso, gli dice. «Ma come, mi date del lei? Lo sapete che è stato abolito e che è di rigore il voi?».

     «Abolite il lei, usate il voi». In tutti gli uffici erano affissi grandi cartelli che raccomandavano e imponevano questo comando del duce, che pare gli fosse stato ispirato da un articoletto pubblicato sulla Domenica del Corriere. Chiunque fosse investito di autorità fascista, a partire dal capopalazzo, che era lo spione della fedeltà al regime in ogni condominio, redarguiva severamente, ammoniva chi insistesse a usare il lei. Fu la grande battaglia patriottica dell’imposizione del voi al posto dello spagnolesco lei.

     Nessun problema al sud, che il lei ignorava, ma ne creava nel centro-nord, perché, come disse Pietro al canonico, era tutta una questione di rispetto, e aggiunse: «E  poi con quel “voi” … hai sempre la sensazione di parlare  al plurale, come nei comizi e nelle adunate pubbliche». Don Benedetto Croce, da buon napoletano usava il voi ma, quando il duce impose di usarlo, passò al lei, lamentandosi: “Non potrò mai perdonare la costrizione di parlare al mio interlocutore come se fosse assente”.

     Con questo scambio di battute tra Pietro e don Armando si introduce una giornata – l’ultima domenica di quel mese di giugno – da opera buffa nel paese. Alle cinque del mattino Pietro passa per la piazza tra due carabinieri che lo accompagnavano in  caserma con altri sette confinati, quanti erano i confinati in quell’estate, tra i quali una donna, “la professoressa” come la chiamavano i compagni, e Ernesto, un tipografo, al confino per le denunce e proclami contro il fascismo, che stampava a migliaia  di copie a proprie spese. Triste storia quella di Ernesto, che racconterò più avanti.   

     Gli operai stavano allestendo il palco per la manifestazione, che si sarebbe celebrata in giornata, alle dieci, tra bandiere, fasci, labari, camicie nere e gerarchi e squilli di trombe, figli della lupa, balilla, avanguardisti e giovani italiani e italiane, pennacchi a cavallo. Il regolamento di pubblica sicurezza stabiliva che a tutti  i sovversivi inviati al confino si dovesse applicare il regolamento del carcere preventivo nelle ricorrenze e celebrazioni  dell’ era fascista, in particolare quella della marcia su Roma, il 28 di ottobre, trattenendoli in stato di fermo nella caserma o addirittura in carcere.

     Il portone della caserma si chiuse alle spalle dei sette confinati con un energico giro di  chiavi e chiavistelli. L’opera buffa, messa al sicuro dai sette pericolosi sovversivi, può avere inizio e la lascio raccontare dalla penna di Trufelli (pag. 53 – 63), concedendomi, tuttavia, una annotazione.  

     La manifestazione è chiusa dal federale, che si sgola al punto di dover interrompere la sua orazione per un disturbo faringeo. Gli osanna al duce e la messa in guardia sul “pericolo giudaico” sono i temi che sviluppa, senza mancare l’accenno al suicidio del pericoloso sovversivo giudeo e di stigmatizzate l’umana pietà manifestata per la sua morte. Ho un chiaro ricordo di quel federale, un siciliano del quale ricordo anche il nome. Alcuni anni dopo, Antonio Albanese, che in gioventù è stato un impegnato militante comunista, mi disse che, nella sede nazionale del suo partito, alle Botteghe Oscure, dove qualche volta era convocato, riconobbe tra gli uscieri l’antico federale del fascio di Matera. Nessun dubbio d’identità, perché si erano salutati e parlato.

 

Alle nove i rumori quotidiani già rimbalzavano nella  piazza. Una ventina di giovani a cavallo faceva da sipario  al palco che grondava di gagliardetti labari e bandiere tenuti bene in vista da una rappresentanza di balilla in divisa nera con coccarda tricolore. Quattro o cinque avanguardisti col fez ostentavano cinturone e pugnale e una  diecina di mutilati di guerra posavano con elmetto e gonfalone. Anticipati dalle insegne del littorio, ragazze in camicia bianca e gonna nera, figli della lupa avvertivano un confuso presagio di festa. La centuria degli avanguardisti  in divisa verde assolveva orgogliosa il ruolo di difensore  dell’ ordine. La banda suonava inni del regime e canzoni  popolari in un rimando di ordini gridati e di suoni. In  piazza entrava il federale con le frange di seta nera che  danzavano sul berretto, tra cinturoni pugnali mostrine e  medaglieri dei sottoposti che lo scortavano sul palco.

La folla era quella delle grandi occasioni, ma divisa in  gruppi. Dal palco il segretario del fascio analizzava dal fervore degli applausi le diversità dei comportamenti. Nei  giorni precedenti la grande adunata, che non presentava  nel calendario del regime particolari eventi da celebrare,  egli si era mobilitato in prima persona per coinvolgere  tutti i ceti sociali del paese. Aveva anche invitato il padre  di Ninì che stava ingaggiando una squadra di mietitori  giunti come tutti gli anni, con falce a tracolla e bicicletta, da paesi vicini e lontani.

E quello, un piccolo proprietario di terra che produceva  grano e olio, gli aveva risposto sentenzioso:

«Segretario, giugno, la falce in pugno».

I giovani a cavallo si offrivano agli sguardi del pubblico,  mentre il podestà, autentico esemplare da parata, tuonava dal palco sui fasti del fascismo, dalla marcia su Roma fino alla vittoria della guerra d’Etiopia «con cinquanta  nazioni che hanno già riconosciuto l’Impero». Un incipit  appassionato interrotto dagli applausi e dal sollecito intervento del segretario che a mano tesa urlò un saluto al duce.

Fedele Martino assisteva alla scena dal balcone di casa  sua; gli era a fianco don Armando al quale disse, ma non in latino, tanto nessuno avrebbe potuto sentirlo:

«Chi tiene sempre il braccio per aria è un disperato».

Tre squilli lanciati dal rrombettista della milizia annunciarono il discorso del federale. Un discorso traboccante  di «fedeltà a un regime dai destini radiosi», soprattutto  dopo il successo dell’intervento in Spagna che «anche la  stampa cattolica ha propagandato con grande fervore in  termini di crociata ideologica che ha ridato al fascismo la fiducia della maggior parte degli italiani».

La testa per aria e il mento marcato, scosse dei fogli che aveva tra le mani e riprese:

«Camerati, dovete riconoscere che se il tempo ci ha imbiancato le tempie, ci ha conservato intatte la fede e la giovinezza spirituale. Quando si segue Mussolini e la sua  dottrina con intelligenza e devozione, non si ha il tempo  di fermarsi a invecchiare. Anch’io oggi, come tanti italiani, e tanti storici illuminati e grandi dirigenti del fascio, voglio parlarvi di un argomento che appassiona l’Italia, e  appassiona, anzi preoccupa molti popoli nel mondo: voglio parlarvi del pericolo giudaico e della necessità di liberare il nostro paese dagli ebrei che sono riusciti con  manovra diabolica a stendere ovunque i loro tentacoli». 

«Ci siamo» disse don Armando. Fedele Martino gli offrì  solidarietà con lo sguardo.

Il federale voltò gli occhi in direzione di una voce isolata  che aveva gridato qualcosa dalla piazza.

«Sento che c’è qualcuno tra voi che mi chiede che cosa  penso della questione ebraica. Volete un discorso o soltanto una frase, una battuta? Un discorso ci porterebbe  lontano, addirittura ai tempi di Gesù Cristo quando i giudei mettevano a morte i profeti e crocifiggevano il figlio di Dio. Vi leggerò invece quel che pensava Mussolini già nel 1919 quando scriveva sul «Popolo d’Italia»: “In  Russia vi è l’ottanta per cento dei dirigenti del soviet che sono ebrei. Il bolscevismo non sarebbe, per avventura, la vendetta dell’ebraismo contro il cristianesimo? Sappiatelo, la finanza mondiale è in mano agli ebrei, possiedono  le casseforti dei popoli e si preparano a dirigere la loro politica, e la nostra”».

Il federale diede un’ occhiata alle persone in piedi accanto a lui sul palco. Le espressioni sul suo viso mutarono rapidamente. Una buona metà della piazza si sentì per un  momento isolata tra le quinte dei palazzi, mentre in lontananza le campane della cattedrale annunciavano mezzogiorno.

«Idealmente, questa delle campane è la voce di Dio che  mi viene in soccorso per poter affrontare un argomento  che mi sta a cuore. Vi dirò subito che non ho difficoltà a respingere il giudizio che qualcuno ha messo in giro sul vostro paese che non sarebbe amico del duce e del fascismo che hanno segnato svolte decisive nella storia d’Italia, non ultima la campagna per la difesa della razza. Noi  nel mondo godiamo di consensi autorevoli che ci incoraggiano a propagandare le nostre opinioni e la nostra fede nel fascismo e nella sua dottrina. È perciò netta la nostra separazione dagli ebrei, e non volevamo umiliare  questo vostro paese inviando al confino, proprio qui, un  ebreo, per giunta pericoloso rivoluzionario: ma eravamo  certi – e lo siamo tuttora – della fedeltà di questo popolo, anche se qualcosa pare sia cambiata negli ultimi tempi. Qualcuno non ha raccolto il messaggio del duce sul  pericolo giudaico e si è fatto coinvolgere da quella umana pietà che proprio gli ebrei non meritano, come dimostra ciò che è accaduto qui, dove un giudeo si è fatto giustizia da solo. Ho detto umana pietà, e non intendevo dare interpretazioni di carattere politico a un sentimento  pur tanto nobile, in senso cristiano, naturalmente».

Un improvviso disturbo alla laringe lo costrinse a interrompere il discorso. Riuscì appena a lanciare, stizzito, un  rauco saluto al duce che fu ripetuto dal segretario del fascio, il quale concluse l’adunata tra squilli di tromba e  l’allegro vocio dei più giovani.

Ninì, rimasto fino a quel momento osservatore distaccato della cerimonia, si fece largo tra cavalli e cavalieri super agitati, andò deciso verso la pensione di Caterina:  con gesto rabbioso strappò dal portoncino il foglio di carta col cappio e lo ridusse in mille pezzi. In quel momento alle sue spalle apparve Caterina.

«Dev’ essere stata una bella scena per chi passava davanti a questa porta» disse la donna.

«Vorrei proprio sapere chi è scomodato fino a questo  punto. Ma non penso che sia stato uno del nostro paese, non me la sento di avere sospetti».

«Pensi che si sia trattato di una ragazzata?» disse uno degli amici che l’aveva avvicinata per darle sollievo.

«Penso che chi l’ha fatto non ha sentimenti. Io non ho visto nulla, mi è stato raccontato. Dopo tanti anni per qualche giorno ho chiuso la pensione. Non è venuto più  nessuno da quando è successo quel che è successo. La settimana passata è arrivato solo un forestiero, dall’aspetto una brava persona. Quando si è dichiarato gli ho chiesto, così, per tutelarrni, se era un ebreo. Mi ha guardato con  una certa meraviglia, non ha detto né sì né no, e se n’è  andato quasi offeso. Io sono rimasta senza parole».

E l’altro:

«Perché gli hai chiesto se era ebreo?”

«Ma te l’ho detto, per tutelarrni dopo tutto quel che ho passato. Dopo la morte di Samuele i carabinieri non mi hanno più lasciata in pace, sono venuti tutte le sere a  controllare il registro degli arrivi. Si sono fatti sospettosi».

La donna zittì. Passavano gli ultimi gagliardetti con le camicie nere che facevano finta di non vedere.

 

 

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