La festa, secondo dei racconti di Rocco Scotelaro pubblicati in Uno si distrae al bivio (Basilicata Editrice, Matera, 1974) è, forse, l’unica pagina di carattere letterario sul Santuario di Santa Maria delle Fonti di Tricarico.

Al pellegrinaggio alla Madonna di Fonti erano dedicate le domeniche del mese di maggio, cui affluivano numerosi pellegrini da vari paesi: da Potenza ad Albano e Trivigno, da Tolve a San Chirico Nuovo, da San Mauro Forte a, ovviamente, Tricarico. Il primo pellegrinaggio, la prima domenica di maggio, era il più partecipato, a quei tempi a piedi o con i traini, più tardi arrivarono le biciclette, l’aspetto profano della festa, fatta di grandi mangiate e bevute, che talvolta degeneravano in risse, e balli, seguiva e prevaleva sull’aspetto devozionale, come racconta Scotellaro.

La catena delle 13 colonne, che i pellegrinanti a piedi, scalzati dice Scotellaro, cantano dividendole in tredicine in onore di Sant’Antonio, sono i chilometri che mancano al santuario.

Nicola, il daziere con la coppola con la visiera e la scritta indicante le imposte di consumo, è il fratello di Rocco: si tratta, quindi, di una immagine della fine degli Anni Trenta presente nella mente di Rocco.

Sul santuario di Fonti va segnalato, per tutti, il pregevole approfondito studio di Carmela Biscaglia «Il santuario di Santa Maria di Fonti. Fasi storiche e costruttive», in «Basilicata Regione Notizie», XXVII (2002), pp. 47 . 64.

  

 

La festa

 

La prima festa capita di maggio, con le ginestre e le fave  piene. Il buon tempo fu a spingere la moglie del Duca Sanseverino che trovò bello il posto dove i pastori, entrati tra le  quercie una volta e due per legnare, avevano fatto largo ed  era nato il piano. Ed era stato istradato anche uno zampillo  fino alle pietre dove si sedevano di solito a far merenda.

Oggi si prende una delle cinque balilla per arrivare al  bosco la giornata della festa.

Pochi anni fa – invece – venivano in una stessa macchina soltanto il primo cittadino e i preti e bastavano tre viaggi a Ferdinando con la sua Lancia a sei posti per portare a Fonti tutti i professionisti e i proprietari.

Gli altri andavano a piedi o nei traini o con le bestie, generalmente scalzati per devozione alla Madonna, «che in Fonti sta».

Da quindici anni a questa parte, dalle mezze guerre alla guerra, alla fine prima le biciclette e poi le moto, infine le  balilla e i pullmann hanno ridotto .il numero degli scalzati. Se le cose andavano bene o male, se gli uomini non scrivevano o tornavano, bisognava correre alla nicchietta a deporre fotografie e cornicelli, ogni tanto capelli, o scarpette di bambini o la veste bianca della sposa che morì nell’allegria, tutta roba di prima. E perciò i dieci chilometri sono coperti di gente, come prima e più di prima, dal paese al bosco. Sui traini traballanti si canta la vecchia storia del pittore pugliese, cui annottò nel bosco pieno di lupi e la Madonna glì chiese: «Bel  pittatore che vai pittando – perché non me la pitti la cappella? » Diventò cieco perché aveva risposto alla voce pretendendo duecento ducati di compenso, ma poi capì e mise i colori alla cieca su una pietra.

L’alba viene per istrada a chi si avvia con i vecchi mezzi,  cantando la storia del pittatore.

Dal venerdì sono arrivati i venditori ambulanti che fanno trovare il piano imbandito di tavole e carrozzini con i giocattoli, le arachidi e le prugne secche. Anche sezioni di bar e di cantine ci sono .

. Da San Chirico hanno tuttora il coraggio di portare un  paio di barili di vino, li piazzano sull’erba con i litri e i quarti  di latta, certo che vendono, ma non vale la pena del trasporto  e le spese di dazio, vendono a qualche pazzo isolato, perché  tutti gli altri arrivano forniti di maccheroni e carne e vino  e dopo la visita alla chiesetta, finita la messa, le fedeli gridano  i loro canti e vanno a far colazione vicino al pulpito e nella  sagrestia.

« Ointanì, Ointanà » così cantano e le funi dell’altalena  si stirano.

C’è la gente di almeno dieci paesi, i compari si salutano, si mettono insieme, si vedranno l’anno venturo, ma gli altri  che non si conoscono si guardano con curiosità e gelosia; se  portano il mulo o la fisarmonica, se li confrontano e può  scoppiare per niente una lite, specie tra i giovani.

 

Nicola, daziere giovane, è stato mandato da Tricarico a fare il servizio. Ha preso la bicicletta, porta la coppola con  la pezza, da dove spiccano le maiuscole ricamate in oro delle  Imposte e Consumo. Egli se la sente in cielo la coppola, sta tutto dentro alla bandoliera che lo cinge. Guarda dalla sua aria alta e mossa le donne a piedi e i cavalieri sui muli e spinge lo sguardo dal suo seggiolino al parabrezza delle macchine per scoprire: nessuno può portare più di due litri di vino a persona, deve essere per proprio consumo, se no si contravviene e sono pronti il blocchetto e la matita. Nicola vuole fare un buon lavoro, non si salverebbe neanche la Madonna in persona.

E gira e capita dai venditori e da quelli di San Chirico, che devono mostrare il permesso perché il bosco è agro di sua competenza. Gli piace sentirsi sulla bocca il lungo bacio dei venditori che gli fanno complimenti ed inviti alla merce, perché ora egli è passato a controllare tutti i posteggi.

A mezzogiorno sparano i fuochi, è la vera festa, le bestie si impauriscono, le tende delle baracche si piegano, il vocìo  dei paesi si perde negli scoppi, allora Nicola si accorge che deve cercarsi la compagnia perché coppola e bandoliera lo  hanno abbandonato.

Ma ecco che si rincorrono, sotto le quercie, verso la fontana una diecina di giovani, spiccano le loro giubbe di velluto  e le camicie celesti, la lite è scoppiata, un bruno di Tolve  è stato accoltellato al braccio da un sammaurese proprio quando sparavano i fuochi. «Addivozione dei Sammauresi »  è scritto sulle panche della chiesa, fatte fare da loro che si  sentono i meno forestieri dell’ambiente. Quelli di San Mauro fanno trenta chilometri di scorciatoie per venire fin qui. Portano il distintivo del partito comunista e lasciano cantare per tutti la loro paesana, una vecchia che arriva a Fonti, vestita di nero, va in sagrestia, si spoglia per mettersi in bianco, in solennità come un prete, e comincia a cantare la catena alla Madonna. «Alla una colonna – quant’è bella la Madonna – Tu sei la Madre – Tu sei la Regina ».

Alle due, alle tre, alle undici colonne, canterà fino alla 13 la sua interminata catena che riprende poi da uno.

Il tolvese si è trovato isolato, altrimenti succedeva una carneficina, corrono dai gruppi, dalle coperte sull’erba dove  sono pronti i piatti.

– Non c’è festa senza incidenti, – ha detto il capo guardia, – sono forestieri, è stato per una ragazza.

E’ tornata la pace, nel piano i potentini ballano con la fisarmonica, le loro donne cittadine portano le vesti di lusso. I paesani dapprima si avvicinano, ma notando i balli di un’altra maniera e sempre le stesse coppie e certe mosse, si devono allontanare. Allora vogliono ballare anche i paesani, basta con l’altalena: chitarra e mandolino, fisarmonica pastorale, polka e tarantella, mazurka. Gli albanesi, i campomaggioresi, Grassano, Anzi, tutti meno i potentini, i preti e le autorità e Nicola, che è ripartito senza bandoliera e la coppola sotto il braccio  perché sudava, e il fazzoletto pieno di nocelline per la  mamma.

« Tricarico e San Chirico – è un sol paese – fateli ballare – sti tricaricesi ».

Difficile, ma si sono trovati dalla stessa parte, partiranno gli ultimi, indietreggiando dal muro dov’è pittata la Madonna: « Noi mo ce ne andiamo – ci vediamo l’anno che viene –  e se non ci vediamo più – Madonna aiutaci tu ». Riprende il cammino, molti non arrivano al paese, si fermano alle terre a lavorare. I salariati del posto rialzano le verche, menano i buoi al bosco, al loro casone i fontaiuoli accendono il lume e lo straziuso, che tiene un po’ di animali: pecore, capre, porci  e due bovini, abita accanto a loro in un pagliaro con la famiglia, rimette al suo cane il collare di ferro contro il lupo.

 

(Maggio 1951)

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