C’era già la luna quando la pattuglia dei confinati fu fatta uscire dalla caserma, Tutti e otto sciamarono nella piazza quando il maresciallo della milizia, dal palco dove la mattina aveva parlato il federale, annunciava lo spettacolo del «Carro di Tespi». (La milizia, milizia volontaria per la sicurezza nazionale = MVSN, era una forza armata del fascismo, l’esercito personale del duce). Il teatro in piazza, dunque, non faceva parte della manifestazione fascista e i confinati potettero respirare la libertà riavuta e l’atmosfera della piazza per un’ora oltre il tempo che il regolamento di pubblica sicurezza concedeva loro per il rientro obbligato nei propri alloggi, grazie a un permesso concesso per quella serata eccezionale.

Lo spettacolo è raccontato nelle pagine 63 – 66 del romanzo, alla cui lettura rimando, limitandomi a fare un’osservazione e a dare informazioni riguardo ai Carri di Tespi.   

 

Tespi o Tespide è il poeta ateniese  vissuto nel VI secolo a.C. considerato l’ “inventore” della tragedia greca, avendo creato alcuni elementi basilari (l’attore, la maschera, il prologo e il dialogo), peregrinando per l’Attica con la sua compagnia su un carro per dare rappresentazioni nei diversi borghi. Scrisse e rappresentò quattro tragedie, delle quali non ci è pervenuto neppure un frammento.

La figura mitica di Tespi è descritta da Orazio nella sua Ars poetica (vv. 275 – 277), che diffuse l’idea di un teatro di massa di forte impatto emotivo, capace di veicolare la cultura teatrale fino a fasce dimenticate di popolazione. (Ignotum tragicae genus invenisse Camenae / dicitur et plaustris vexisse poemata Thespis, / quae canerent agerentque peruncti faecibus ora. Traduzione: La tradizione afferma che fu Tespi a inventare ex novo il genere tragico, / allestendo sopra carri i suoi drammi,  / che uomini con la faccia sporca di mosto rappresentavano cantando).

Edoardo Boutet, napoletano d’origine francese, grande conoscitore e critico del teatro, per diffondere liberamente le proprie idee e svolgere senza limitazioni la propria opera di propaganda per un rinnovamento del teatro (è da sottolineare la notevole autonomia della critica del Boutet., che non esitò a condannare dalle colonne di giornali radicali gli infelici tentativi teatrali di Felice Cavallotti e Giovanni Bovio, e si dimise dal Don Chisciotte nel gennaio 1895 quando una sua stroncatura di Vipera di Ferdinando Martini fu censurata; solo un mese dopo accettò di rientrare in redazione) nel 1889 fondò il Carro di Tespi settimanale di critica teatrale, volto a «offrire un campo assolutamente libero agli autori, ai critici, agli artisti per le discussioni d’arte, qualunque sia la scuola e il metodo». Nel complesso il Carro di Tespi costituisce una notevole fonte per la storia del nostro teatro.

I Carri di Tespifurono altresì dei teatri mobili realizzati attraverso strutture lignee coperte di cui si servivano i comici del teatro nomade popolare italiano per il loro teatro di strada, a partire dal tardo Ottocento. Venivano montati “su piazza” e restavano allestiti per 40/50 giorni durante i quali le compagnie dei “guitti” girovaghi recitavano sera dopo sera un copione diverso, esaurendo integralmente il loro repertorio.

Il fascismo si servì di questo modello e dell’esperienza del teatro girovago costruendo un progetto di teatro itinerante all’aperto a partire dal 1929: quattro enormi strutture teatrali – tre per la prosa e una per la lirica – trasportate su autocarri che presero il nome anch’essi di Carri di Tespi. Emulando i “guitti” del teatro nomade popolare, viaggiavano per tutte le province italiane in lunghe tournée, capaci di coinvolgere centinaia di migliaia di spettatori. Il Carro di Tespi giungeva anche nelle località più sperdute, normalmente non coinvolte in eventi teatrali significativi.

Quella sera si esibì l’attore Nando Tamberlani col canto di Paola e Francesca (canto V dell’Inferno).

Nando Tamberlani  è stato un attore, scenografo e regista italiano. Nato in una famiglia di attori teatrali, debutta giovanissimo in alcuni spettacoli di Leopoldo Fregoli, per passare ad altre compagnie di prosa, tra cui quella di Ermete Zacconi, dove svolge anche l’attività di regista e scenografo.

Nei primi anni Trenta Nando Tamberlani viene scritturato per realizzare le scenografie degli spettacoli di Ettore Petrolini, nel 1937 debutta nel cinema, come caratterista nella pellicola Felicita Colombo per la regia di Mario Mattoli. Sarà l’inizio di una lunga serie di circa settanta film sino al 1965. Morirà nel 1967.

Nel dopoguerra realizza anche alcuni documentari di tematica religiosa.

Ricordo che sul finire della seconda guerra mondiale o a guerra appena finita, venne a Potenza con una compagnia teatrale per rappresentare un’opera al cinema-teatro Stabile. Io non avevo i soldi per andare a teatro, ma lo vedevo passeggiare per via Pretoria.  

Torno allo spettacolo in piazza della sera di quell’ultima domenica del 1939. Il grande attore declama il canto di Paolo e Francesca, iniziando dal verso 73 ( ‘I cominciai: «Poeta, volentieri»), quando Dante manifesta a Virgilio il desiderio di parlare a «quei due che ‘nsieme vanno», non sapendo chi sono “quei due”. Quando Tamberlani giunge a declamare il verso 84 «vegnon per l’aere, dal voler portate» – ossia, quando i due si avvicinano a Virgilio e a Dante e la donna narrerà il loro dramma d’ampre e di morte -, inflessibili, i battiti dell’orologio segnano la scadenza della libertà dei confinati, che devono immediatamente rientrare nei propri alloggi. I rintocchi dell’orologio,  interrompendo la lettura della narrazione di Francesca, soffocano la libertà e uccidono la poesia. Dante, dando la parola a Francesca, segue un procedimento derivato dalle Eroidi ovidiane, in cui sono le eroine a narrare i loro famosi amori, e sarà, più tardi applicato da Boccaccio nella sua Fiammetta. Ma i presenti quella sera in piazza non ascolteranno il sublime racconto di Francesca, fino al verso 102, ultimo verso della prima delle tre più famose terzine del canto «Amor, ch’al cor gentile ratto s’apprende», «Amor, ch’a nullo amato amar perdona»; «Amor condusse noi ad una morte». Leggeranno la conclusione del racconto di Francesca, gli ultimi cinque versi: tutta la seconda terzina e i primi due versi della terza terzina, coi quali termina il racconto di Francesca.

Passeranno due mesi da quella sera: il 1° settembre le truppe del Reich invaderanno la Polonia e il duce dichiarerà una effimera non cobelligeranza, allo spirare della quale l’Italia entrerà nel secondo conflitto mondiale.

.

(Riporto ora il testo di Quando i galli si davano voce da pag. 63 a pag. 66)

 

C’era già la luna quando la pattuglia dei confinati uscì dalla caserma. Il maresciallo li aveva rimessi in libertà nel rispetto del regolamento dopo la giornata vissuta fra carcere preventivo e casa famiglia, con la solita raccomandazione di essere prudenti. Sciamarono tutti e otto nella  piazza.

Dal palco, da dove la mattina aveva parlato il federale, un maresciallo della milizia in divisa con fez in testa e gradi annunciava lo spettacolo del «Carro di Tespi», il teatro in  piazza, una iniziativa del Ministero della cultura «per far giungere nei più lontani paesi della nostra nazione le opere di grandi autori italiani con la voce di grandi attori».  Fece sfoggio di cultura.

«Vi chiederete perché “Carro di Tespi”. Questo nome, Tespi, ha origini nella Grecia, era quello di un famoso artista che nell’antichità con una sua compagnia girovaga dava rappresentazioni di opere drammatiche nelle piazze».

Da una serie di altoparlanti, che diffondevano voci suoni e inni, venne annunziato l’inizio dello spettacolo a scena  aperta. II palco rifulse per un fascio di luce che illuminò, e quasi ingigantì, la figura di un attore che si era sistemato al centro, in piedi, di fronte a un imponente microfono a quattro stelle. II palazzo degli uffici e le case tutt’intorno offrivano una scena quasi irreale.

«Buona sera, sono Nando Tamberlani- si presentò con  voce profonda l’artista. Indossava un mantello blu con  decorazioni in oro e cappello piumato, alla Dartagnan.  Cominciò a parlare dopo un caloroso applauso della gente al quale si associò Ernesto, il tipografo, che rimase stupito:

«Ma guarda un po’, Nando Tamberlani uno dei più bravi e famosi artisti del teatro italiano. L’ho sentito recitare  nell’ Ifigenia in Aulide di Euripide».

Luigi, il discolo antifascista dell’università, commentò:  «Ed è finito su quel palco da quattro soldi?»

Sbirciò i compagni per studiarne le reazioni che per prudenza non ci furono. La risposta gli giunse invece proprio dal palco, dall’attore:

«Il teatro in piazza, dunque, per poter arrivare a tanta gente che per tutta una serie di motivi, che non sto qui ad evidenziare, vive lontana, in ogni senso, dalle città e  dai tanti centri dove il teatro, l’arte in genere animano la vita culturale … e civile».

Una voce dalla folla:

«Perché, noi siamo forse incivili?»

Aveva parlato il dirigente della milizia, seduto davanti al palco, quello col fez in testa e i gradi.

L’attore fece finta di nulla. Appoggiato alla spalliera di una sedia come su una balaustra, pronunciò un grande  discorso sull’amore, in forma declamatoria e solenne.  Una voce femminile fuori campo squittì:

«Il maestro Nando Tamberlani ci reciterà dal quinto canto dell’ Inferno della Divina Commedia di Dante, i versi  del dramma d’amore e morte che coinvolse Paolo e Francesca».

L’attore fermò per un attimo la scena, dalla piazza ottenne un silenzio assoluto. Si avvicinò al microfono e spiegò che avrebbe recitato «i versi del delirio amoroso e del castigo dei due amanti». Cominciò con un tono che già  esprimeva dolore e compassione: «Poeta, volentieri / Parlerei a quei due che ‘nsieme vanno, / E paion sì al vento  leggieri» / Ed egli a me: «Vedrai quando saranno / Più  presso a noi; e tu allor li priega / Per quell’amor che i mena, ed ei verranno». / Sì tosto come il vento a noi li piega / mossi la voce: «O anime affannate, / venite a noi parlar, s’altri non niega!» / Quali colombe dal disio chiamate,  / con l’ali alzate e ferme al dolce nido / vegnon per l’ aere dal voler portate;.

L’orologio della piazza inflessibile, quasi crudele cominciò a battere le dieci, la fine dell’ora di permesso autorizzato per quella sera ai confinati. Pietro, che era in un certo senso il capogruppo, si consultò:

«Sono passate le dieci e il convento ha già chiuso il portone. Padre Aurelio sarà di sicuro in preoccupazione».  «Qualcuno ci aprirà, questa è una serata eccezionale».  Aveva parlato il falegname di Treviso, il più riservato, anche il più tollerante. L’attore con calda intonazione della voce, tra dolore e dramma degli amanti, teneva in sospensione il pubblico della piazza.

«Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / Mi prese del costui piacer sì forte, / Che come vedi ancor non m’abbandona / Amore condusse noi ad una morte: / Caina attende chi a vita ci spense».

A questo punto Nando Tamberlani si fermò, la luce del  faro gli stava addosso come un vestito luminescente. Si tolse le lenti e negli occhi si intravidero riflessi di commozione.

La piazza esultò, l’attore salutò sventolando più volte il cappello piumato, uscì dalla scena. Fedele Martino, che seguiva lo spettacolo dalla solita postazione, fece notare a  don Armando:

«Qualcuno ha tagliato la scena all’attore. Noi sappiamo che la vicenda di Paolo e Francesca non fìnisce così. Ricordi?: «Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancellotto come amor lo strinse; / Soli eravamo e senza alcun sospetto». E qui Dante entra nel sublime: «Quando  leggemmo il disiato riso / Esser baciato da cotanto amante, / Questi che mai da me non fìa diviso, / la bocca mi  baciò tutto tremante». Così fìno all’endecasillabo più noto e più recitato: «galeotto fu il libro e chi lo scrisse»».

E don Armando, da immaginario suggeritore teatrale, gli sussurrò gli ultimi versi: «Io venni men così com’io morisse; / E caddi come corpo morto cade».

Si compiacquero a vicenda della corretta conoscenza dei testi e della buona memoria.

La piazza era diventata di colore azzurrognolo, la luna  piena aveva buon giuoco della luce artificiale concentrata sul palco vuoto, che dopo pochissimi minuti tornò ad  affollarsi di attori musici e comparse: entravano al suono di fìsarmoniche chitarre e mandolini per eseguire un repertorio classico di motivi popolari e canzoni napoletane.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.