Fili di ragno, degli otto racconti di Rocco  di Rocco Scotellaro pubblicati nel volume Quando uno si distrae al bivio, è forse il racconto meglio riuscito. E’ datato giugno 1948: Rocco Scotellaro ha 25 anni e da qualche settimana si è conclusa anticipatamente la prima esperienza di sindaco; a novembre ci saranno nuove elezioni, che lo confermeranno nella carica.

     Il racconto ha la forma di una lunga lettera a Tilde,una ragazza straniera conosciuta durante un convegno in Svizzera e capitata poi a Tricarico, per condurre una indagine sociale sui bambini e sulle scuole della Lucania. Qui, fra lei e il poeta, si crea una amicizia, che è anche amore.

     Tilde è tornata in Svizzera e il rapporto tra i due si è spezzato. Il poeta non conosce l’indirizzo della ragazza, bella, con la faccia bianca e lentigginosa, e lei ora sta “oltre la frontiera”; e le frontiere il poeta non le ha mai viste, sa quelle dei suoi paraggi, le sa a memoria e ne sente l’aria quando esce o rientra per qualche viaggio. Uno di questi viaggi l’ha spesso per trovarla, ma la sua ricerca avventurosa fu vana.

     Allora le scrive una lunga lettera e le racconta la visita a Tricarico, e il suo soggiorno e il suo lavoro, e il tempo trascorso assieme, e i rapporti con la madre, le sorelle e i nipoti, e gli amici, e le gite, e la gelosia che lo prende e il tempo in cui sono stati assieme, e le passeggiate per le strade e i dintorni di Tricarico, e l’amore che nasceva: pagine di struggente fascino. E l’addio.

     Il poeta ebbe le sue ultime cartoline, bei panorami, belle rocce e  steccati e mucche della Svizzera. Ma dove gli rispondeva, non avendo il suo indirizzo? Lei s’era persa. Perché e a chi scriveva la lettera?

     Speranza che non t’abbandona è la chiusura della lettera-racconto: «Ah, certo: i ragni mettono i fili in faccia al primo passante della strada e chissà che tu non muova la mano alla fronte, un giorno, dicendo; – Questo è lui, è vivo, è rimasto al suo buco».

 

Fili di ragno

 

Mia carissima Tilde, dopo la vana attesa di mie notizie ti sarai messa con un altro, era nel tuo diritto ma io sono ampiamente scusato per i fatti che ti scriverò. Non conosco il tuo indirizzo, tu stai oltre la frontiera, le frontiere io non le ho mai viste, so quelle dei miei paraggi a memoria e ne  sento l’aria quando esco e rientro per qualche viaggio. Uno di questi viaggi l’ho speso per trovarti dopo la tua ultima lettera, alla quale non ti ho dato più risposta. Ti cercai a Roma dove stavi prima, a telefono la tua amica (c’era un maledetto baccano ai telefoni di piazza S. Silvestro) mi fece capire appena alcune parole. «Maison des etudiantes» capii; della via, del numero niente: ci fu uno di quei tuoni nell’apparecchio; e il nome sentii, chissà quale, d’una di queste cittadine della Svizzera che vado carezzando qui vicino sulla carta.  Staccò subito la tua amica, ritelefonai, non rispose. Dovette partire anche lei. Tutto mi seppero dire, al portone, fuorché i suoi indirizzi che logicamente si portava in un angoletto dell’agenda e c’era anche il tuo. E me ne accorsi che doveva partire dal tempo che mi fece aspettare dopo l’annuncio del mio nome a lei da parte di una voce maschile: io stetti all’apparecchio e sentivo ciabatte nei corridoi, carte smosse, porte sbattute, e di nuovo ciabatte, tu sai come si sentono queste cose. L’effetto che mi fece Roma senza di te. Lo dissi a Carlo il nostro amico. Lui, bravo ciabattino e buon paesano, proprio ci tenne, per qualche sera, a guarirmi e mi portò da Marino, alla stazione, sul Pincio, a casa di Cristo, voleva  farmi sperare, tu lo sai come è sempre contento. Dovetti salutarmi anche da lui perché non avevo più soldi e poté credere che fossi guarito col vino asciutto, ci mettemmo a cantare le aspre nenie di qui e sfottemmo all’uso nostro le persone. La sbornia mi passò già nel treno, tuttavia (chi può sapere cosa avevo combinato con una donna a fianco?) quando fui lucido tu ancora non c’eri, c’era quest’altra donna: me la spassai al finestrino, ero felice di lei, delle bravure con Carlo che se ne venivano a una a una e mi facevano ridere da solo. Non so certe donne come la pensano, rideva anche lei, disse che ero bello. A me, se dicono questo, mi mettono le chiavi in tasca, ero capace di aprire tutte le porte, di correre più del treno. A quegli sciocchi di commercianti e gagà fumava il naso di vedermi così coccolato. Mi guardarono una volta abbracciato a lei, ancora una volta, potevano dire schifezza, si voltarono come preti a contarsi le dita. Più furbi poi dovettero assistere al nostro teatro fissando il finestrino illuminato, di là ci controllavano bene, là ci specchiavamo io e la mia donna. Che le combinai? Avevo un biglietto da visita di un mio collega, una pera, non lo conosci, che si fa chiamare dei Principi di Aragona, gli detti quell’indirizzo per mio, figurati  la mia donna. A Napoli voleva scendere a salutare certi suoi parenti al Vomero, che l’accompagnassi. Mi fu facile negare per il controllore, che bucando le chiese ossequioso « Salerno? ». E allora a Salerno se volevo; già, ma mi aspettava il fattore del feudo della mia stazione e di là – in macchina _ dovevo ripartire per l’altro mio feudo di quella pera del mio amico. Insomma, scusami, a Salerno nel finestrino opposto mi vidi perso. Lei scese gettandomi pugni e baci, le avevo dato appuntamento a qualche giorno. Pensavo se ne fosse andata al diavolo finalmente; quando chiesi una gazzosa con le ultime lire e il treno si mosse, la sua figura precipitò sdegnosa verso il sottopassaggio nera, ti giuro, chissà che bestemmie! Era un’insegnante, mi aveva, prima di sapermi principe, qualificato bello. Allora ti dico mi vidi perso. Tu, Tilde, correvi sulle tue strade, io cominciavo a sentire le mie frontiere nel fumo della prima galleria.

Adesso mi trovo dentro i miei confini, li conosci, e qui per sentirti vicina devo rifarmi al giorno in cui tu li violasti.

Ero, uno dei soliti giorni, apparso nel sole di mille candele della mia piazza.

Era una domenica mattina, tutti i miei paesani fanno la loro apparizione nel sole della piazza. Io passavo rasente, i gruppi che si erano già fermati e che piantonavano la nostra bella piazza sotto il sole. Non si sa mai dove andare da noi, la domenica mattina. Io mi vergognavo, passando, di non avere nemmeno un gruppo che mi facesse bisogno per una qualsiasi delle mie discussioni. Mi sedetti ad un angolo del caffè,  non sapevo spiegarmi perché mi ero fatto elegante e perché  quell’eleganza era così inutile. Misero i dischi nel caffè, i gruppi non ne furono sorpresi, rimasero sugli stessi ciottoli a confabulare e si vedevano solo i mantelli qualche volta muoversi. Io sentivo le chiamate delle squadre che giocavano il tressette, sentivo la musica, mi misi una gamba sull’altra. Te li ho raccontati poi questi confini su una seggiola al lato del caffè.  L’orologio scandì i quarti di ora, venne il turno dell’ultima canzone napoletana, il brusio dentro il caffè venne aumentando, i gruppetti fecero la folla e io mi sentii sempre più  confinato sulla mia seggiola. Allora venisti tu. Ti vidi in una macchina lucida, di profilo. Erano i tuoi capelli, era la tua carne bianca e lentigginosa. Corsi come fanno i facchini quando arrivano le corriere, ci salutammo e non eravamo che semplici amici di qualche settimana prima, eppure ci sentivamo già innamorati. Ti meravigliò la mia corsa e la mia ansia nel darti la mano, io mi meravigliavo della tua venuta che era un’apparizione. Conosciuta in un convegno, in Svizzera poi, che volevi da queste parti? Ti avevo chiamato dalla mia seggiola. Ti feci scendere, menò il vento tra la folla la tua lunga veste a campana, tutti mi videro allora, nel caffè ci fecero  largo, l’omone dietro il banco ti versò gli occhi addosso. Ce ne andammo a casa, mia madre lavava e ti fece un segno di saluto col capo e si mise da allora a correre su e giù, lieta di poterti servire.

Con lei – si può dire – compisti il primo miracolo. Io non sono stato mai dolce di sale con lei, mai le ho dato dei  punti di lode per i suoi miseri servigi, ho sempre liticato per i colletti a punte, per le calzette doppie di cotone, per le mutande larghe, per tutte le cose vecchie che sa fare. Con te divenne una serva a modo e ti contentò, non è vero? Lei fa sempre così quando ‘si vede sostituita da me, quando si sente isolata; la prende il broncio della scolara mandata per un rimprovero all’ultimo banco. Dall’ultimo banco mia madre sempre mi ha voluto più bene, ha fatto di tutto per rientrare nel cerchio del mio affetto. Si accorse subito dell’importanza che ti conferivo. Ti portai nella mia stanzetta dove ci fu tanto  facile entrare nell’aria che ci conveniva. Guardasti dal balcone la rotabile che taglia la cima della montagna, da dove venisti con la tua macchina lucida. Toccasti il guanciale del mio letto dove ti saresti coricata le notti di soggiorno nel mio paese. Era così tenace il mio silenzio, così prepotente ciò che in silenzio ti chiedevo che insieme decidemmo di uscire all’aria aperta delle strade; era venuta proprio allora mia madre a bussare piano alla porticina se volevamo qualcosa. L’inchiesta che dovevi fare sui nostri bambini, sulle nostre scuole, ci portò via pochissimo tempo. Ricordo come ti rispondevano gli interpellati fissandoti la faccia bianca e lentigginosa, meravigliandosi della tua bellezza e che il tuo corpo lungo era impiegato in quelle minute faccende. Molti giovani mi chiedevano con gli occhi di presentarti loro, volevano il piacere di arrivare a un passo da te, di toccare la tua mano e in me cresceva l’orgoglio di essere balzato su dalla mia seggiola, di aver avuto in dono te, piovutami d’improvviso nella piazza. A tavola le mie sorelle, i miei nipotini ti tenevano a mente. Scesero a toccare il c1ackson della macchina, vi si sdraiarono dentro come in salotto. Volesti accontentare la loro curiosità e organizzammo la gita nel bosco, lasciandoci sola a casa la serva mia madre.  L’autista era così elegante e compito che ci pareva un padreterno che ti possedeva al lato lungo tutti i viaggi. Inzeppammo la macchina dei bambini, pareva una giostra volante, fazzoletti, scialli, l’abito bleu dell’autista, i paesani e le donne erano  tutti sulle porte, accorsi a vederci. Stretti, mi passasti il braccio sulla spalla, affabile. Il tuo seno lo sentii al mio fianco come un tenero pugno. Lo dovevi sapere che io non ti avrei mai parlato, che il mio amore per te l’avevo detto nel silenzio della stanzetta. Io facevo come mia madre e tu avresti dovuto toccarmi per prima. Nel bosco i vaccari sentirono l’aria di festa che portavamo, le guardie comunali si misero più volte sull’attenti. Qui era la piantata degli olmi, là degli aceri, più  in là il fosso delle nocelle. E poi il Santuario alla Madonna Nera e, dentro, le nocche di capelli mezzo inceneriti delle giovani spose che avevano fatto il voto. Si disse «Andiamo alla Fontana della Cirasa». Ti vidi rimbambita in tutto quel verde, tra le quercie e il cielo in esse, come una vacca addormentata. Le guardie comunali misero il fuoco sotto l’olmo alla Fontana della Cirasa, arrostirono la carne, il vaccaro sfilacciò le treccie, io passavo il bariletto di vino e bevevamo, a turno a garganella. Ti fecero i brindisi, allargavano le braccia, i vaccari, ti cantarono «Alta colonna mia, alta colonna».  Allora cessò lo sciacquio alla Fontana della Cirasa, stavano tutti zitti, l’armonica di una guardia si prese il possesso del bosco. Mia carissima Tilde, era tutto per te, sono sicuro che i vaccari e le guardie ti sognarono la notte, quando il lupo  s’accosta e chiama alla Fontana della Cirasa. Adesso avevo  bisogno di parlarti perché mi prendeva la gelosia per l’amore che tutti ti protestavano, adesso ti volevo sola. Rientrati, subii a malincuore l’invito dei giovani a una festa di ballo. Facevano a gara per averti, qualcuno in disparte, senza il mio permesso, ti parlava. Feci come mia madre, non ballai una volta con te. Usciti, era già tardi, ma tutti e due sapevamo che questa era l’ora  decisiva.

Maledetto me, sono un bambino vizioso. Da te, nelle città, ovunque forse e non qui, i giovani con le loro donne si legano le mani, vanno rompendo l’aria e saltano. Saltavi anche tu e i capelli si gonfiavano. Significava che era venuto il momento nostro. Per te pareva naturale stringerci le braccia già sulle strade. Io mi ricordai della mamma dalla finestra ancora accesa dopo la mezzanotte, sapevo che stava dormendo sulla spalliera della sedia intaccandosi la fronte per aspettarci. Volli chiamare da sotto: – Ma … a! – Lei si schiarì la voce:  -Eh? -fece.

– Vengo più tardi – dissi.

– E quella? – domandò

– E’ con me, veniamo più tardi, va a dormire.

Le strade con la lampadina pubblica in fondo tenevano a destra e a sinistra le porte chiuse.

– Ti porto a vedere il paese come si vede di notte dalla  passeggiata.

Fino alle ultime case ti facevo da segretario e ti scartavo  la strada. La nostra passeggiata qui lungo la rotabile ha le sue tappe definite. Incomincia dall’ultima casa dopo la quale ci sono in fila le robinie. Fa tutta un’ampia curva la rotabile  per mettersi parallela al paese che si schiera così davanti a noi scoprendo man mano i suoi grappoli di luce. Per vederci in faccia viene a noi lo scialbo candore del brecciame. Le robinie fanno ombra e di più ne fanno i pini della città dei  morti, che è proprio sopra la curva. Questo faceva per noi: l’ombra dei pini, le luci del paese schierate, lo scialbo candore della nostra rotabile. Così nelle notti io e qualche mio amico veniamo da queste parti a sognare il paese disabitato, a contarci le nostre vicende, a far proposito di partenza.

Così io con te, lungo la passeggiata, parlai che il paese mi piaceva senza i suoi abitanti, che speravo di andarmene. Ti piacque la mia melanconia che era quella stessa del paesaggio tutto nero, una tavola nera e sempre lontane le luci  degli altri paesi. Perciò forse, sciogliendo con un moto del busto i capelli all’aria, mi prendesti il braccio, io mi ebbi di nuovo la grazia del tuo seno, un tenero pugno. Eravamo oramai sulla via giusta per volerci bene. E volli che ritornassimo per la scorciatoia a zig zag che scende nella valle per risalire al paese. Si passa per un convento e c’è avanti il viale aperto dove le monache vanno a passeggiare. Risalimmo al paese, sentivamo la nostra carne vicino, andammo al punto alto a sederci sopra l’erba ai piedi della torre Normanna. Potevano essere le due, le tre di notte, il cuculo riempiva gli androni vuoti della torre. Saremmo rimasti a dormire su quell’erba, ormai si era troppo addentro l’un per l’altro.

A casa entrammo da ladri, c’erano i letti di mia madre, delle mie sorelle, dei miei nipotini, io ti condussi nella mia stanzetta dove fui lesto a baciarti con il terrore di vederti  sotto la luce.

Ero anche terrorizzato la prima volta che ti scrissi, ma tu sei stata sempre così brava, è un vero problema togliermi  di dosso la timidezza di pecora che mi ha dato mia madre.

Mi portasti poi a Potenza, si arrivò di notte, le orchestre suonavano i pezzi al Patrono della città, in albergo si voleva stare  insieme, ma il guardiano notturno, ti ricordi? mi scacciò con  un’ occhiata.

L’indomani sera era l’ultima ombra che io potevo vivere con te perché dovevi ripartire. Nella villa comunale ci sdraiammo le ultime ore, anche tu ti sentisti male, ma me lo hai scritto, è più male per chi resta. Mi vidi le orchestre disfatte, rividi la villa comunale, rientrai nelle mie frontiere, rividi mia madre e le monache e la Torre Normanna che la notte si rianimava al canto del cuculo.

Per darti una parte di me quando te ne andavi, a Roma ti indirizzai da Carlo; chi altro che lui, aggiustascarpe, può  essere mio amico che sta a Roma? Egli ti riparlò di me e del paese, mi scrisse meravigliato che io fossi stato capace di te e della tua amicizia, aggiunse alcune maliziose domande, se ti sapevo, se ti avessi toccata.

Scrivesti, mi portavo le lettere in tasca, ne portavo una  finché si sgualciva in attesa dell’altra. Andavo la sera alla posta a mettermi in fila ed aspettavo la tua lettera come un  piatto caldo. Me la mettevo in tasca e con quella ti parlavo, ero sicuro sempre di averti già risposto. «E’ lungo il tuo silenzio» mi scrivevi.

Quando si mette la penna sulla carta, le parole qualche volta dicono di più, qualche volta dicono di meno. All’ultima lettera annunciavi il tuo irrimediabile saluto, dovevi andartene nella tua Svizzera, il lavoro era finito, come risponderti più?

Bisognava raggiungerti, tenerti con me una volta per sempre: mi preoccupai di avere i soldi, di farti la sorpresa; ma i soldi sono i miei nemici dichiarati perché vogliono essere rispettati, io al contrario li getto sui tavoli e non mi pare  mai presto di metterli tutti fuori. Così non ti trovai a Roma. Mi ebbi le tue ultime cartoline, bei panorami, belle rocce e  steccati e mucche della Svizzera. Dove ti rispondevo? Che addio posso ora darti? Mica torni più qui. Perché e a chi scrivo questa lettera?

Ah, certo: i ragni mettono i fili in faccia al primo passante della strada e chissà che tu non muova la mano alla fronte, un giorno, dicendo; – Questo è lui, è vivo, è rimasto al suo buco.

 

(giugno 1948)

 

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