QUANDO I GALLI SI DAVANO VOCE__Credere Obbedire Combattere
A Tricarico, il bellicoso precetto mussoliniano
fu scritto da mano comunista
Certamente non pochi ancora ricordano a Tricarico uno dei precetti più bellicosi del “catechismo” fascista: l’imperativo categorico Credere Obbedire Combattere, teso ad esprimere un disprezzo assoluto per la democrazia rappresentativa, con le perfetta imitazione dell’autografo di Mussolini, scritto a caratteri cubitali sulla facciata del palazzo ducale, che delimita la piazza dalla Cappella di San Pancrazio al Corso.
Chi ha letto Carcere preventivo, racconto di Mario Trufelli che ho ricordato in un precedente post, sa che la scritta fu opera di un confinato, che si chiamava Pietro, alloggiato presso l’albergo Valinotti, gestito da don Michele Valinotti, nonno di Mario Trufelli. E’ una storia vera ed è autentico il nome dell’autore della scritta.
Essa ha resistito a lungo, troppo a lungo, alla caduta del fascismo. Vani sono risultati i molteplici tentativi di cancellarla: si passava sopra una mano di calce bianca, trasparente come un velo, che, alla prima pioggia, si scioglieva e il precetto mussoliniano riappariva nella sua sfacciata imponenza comica. Aveva subito la metamorfosi dei discorsi del duce. Eravamo affascinati ascoltandoli alla radio; eravamo commossi fino alle lacrime nel vedere il duce pronunciarli al Cinegiornale L.U.C.E. proiettato per obbligo in tutti i cinema d’Italia prima della proiezione del film. Come è stato che, poi, l’ex duce ci faceva sbellicare dalle risate, come se assistessimo alle più esilaranti scene del genio di Charlie Chaplin?
La storia è nuovamente raccontata in Quando i galli si davano voce ( pp. 55 – 56 e 70 – 74) con ricchezza di particolari, che, fatta salva l’essenza, divergono per significativi aspetti.
L’autore dell’opera è Pietro: semplicemente Pietro, senza il cognome, in Carcere preventivo,; Pietro Gori in Quando i galli si davano voce, decoratore marchigiano, che, al confino, si adattava a fare l’imbianchino per necessità e perché la carta di permanenza, che il podestà consegnava a ogni confinato, imponeva di dedicarsi a stabile occupazione. Ho ricostruito l’identità di Pietro grazie al libro di Leonardo Sacco «Provincia di confino». Si chiamava Pietro Spilotti, muratore udinese di 29 anni, comunista, che da confinato trascorrerà a Tricarico un breve periodo: dal 20 ottobre 1936 al 24 marzo 1937.
Trufelli, in Carcere preventivo, lo descrive come tipo piuttosto allegro, in cerca di case da imbianchire per ricavare qualche lira. I capi del fascio gli dettero l’incarico di comporre la scritta: Pietro l’accettò, perché non poteva rifiutarlo e gli faceva comodo il generoso compenso che gli era stato promesso. Quando morì la madre, Pietro rifiutò il permesso di recarsi al suo paese in Alta Italia per il funerale, non voleva tornare tra due “angeli custodi” a portare l’ultimo saluto alla madre. La mattina si alzò presto e andò a completare la scritta.
Secondo la nuova storia Pietro è obbligato a scrivere il precetto ducesco per punizione. Pietro fu costretto a ubbidire, imitando la firma del capo del governo, il nome «Mussolini», che «scivolò sotto il suo pennello con la velocità e la sicurezza di un falsario di professione». Nel suo orgoglio di artigiano-artista Pietro si consolava con una cantilena che lanciava a ogni passata di pennello: «Questi sono graffi al cuore che non si cancellano mai», diceva tra sé e sé.
La morte della madre di Pietro e il suo rifiuto di recarsi al suo paese per il funerale, per non presentarsi ammanettato tra due angeli custodi, non sono invenzione letteraria e sono raccontati anche in Quando i galli si davano voce. Qui però non c’è rapporto con la scritta del precetto mussoliniano, ma il valore letterario del fatto e l’emozione che esso suscita esigono l’inclusione di questa pagina nella scelta antologica.
Il fatto della scritta, in Quando i galli si davano voce, ha ancora un seguito, che non anticipo. Pietro è uno dei principali protagonisti e nel ruolo che lo scrittore gli costruisce si fondono le vite di due confinati: l’imbianchino-muratore udinese, di cui nulla più si è saputo, e il confinato-stagnaro fiorentino, a cui il fluire della storia assegnerà una radiosa rivincita. Di lui finora è mancata l’occasione di parlarne, che verrà più avanti.
Propongo ora la lettura dei due stralci annunciati::
(pagg. 55 – 56)
I! podestà capì che avrebbe dovuto cambiare discorso e si dedicò a Pietro, il confinato romagnolo che era in paese da due anni, noto per il suo modo alquanto singolare di parlare in rima baciata. Ossessiva la sua cantilena sull’affamato. Parlava sempre di fede, «la mia fede» diceva. E andava a mettere in croce un povero usciere municipale, sussurrandogli all’orecchio: «Quando bandiera rossa si cantava / pure tre volte al giorno si mangiava / adesso che si canta giovinezza / cadiamo a terra dalla debolezza. / Convinciti che l’Italia è un manicomio, andando di questo passo di fame si morrà». Quello, che faceva finta di non sentire, lo pregava di stare zitto e di andarsene.
«Tu vuoi mettermi nei guai».
E quando non ne potette più corse dal podestà che per punizione obbligò Pietro, decoratore di professione, a scrivere con la vernice nera una frase del duce sulla facciata del palazzo degli uffici che definiva un angolo privilegiato della piazza.
Il «noi tireremo diritto» già campeggiava sulla parete. In cima alla scala Pietro stava scrivendo, imitando la, la firma del capo del governo. Il nome «Mussolini» scivolò sotto il suo pennello con la velocità e la sicurezza di un falsario di professione. Sussulto di ammirazione del podestà e immediata reazione di Fedele Martino:
«Ma quell’uomo è un confinato politico, è un antifascista».
Di rimando il podestà:
«No, non è solo un antifascista. Quel romagnolo è un sovversivo. Voi lo vedete come un personaggio simpatico, è invece una persona insidiosa, è un rivoluzionario». Martino, ironico:
«E ti pare che proprio qui, in questo minuscolo e sperduto paese, un piccolo uomo potrebbe organizzare la rivoluzione?»
«Zio Fedele, ti prego, non fare sempre il professore in cattedra». Accennò un saluto fascista e si allontanò.
Pietro era sceso dalla scala, aveva compiuto l’opera d’arte, l’imitazione perfetta della firma del duce. …:
(pagg. 70 – 74)
Pietro faceva di mestiere il decoratore, ma con modesto rimborso spese si adattava anche a fare l’imbianchino. Era prescrizione per il confinato politico «darsi a stabile occupazione»; ciò rientrava nella carta di permanenza, una sorta di decalogo che il podestà consegnava a ognuno, una volta giunto a destinazione. Nel suo orgoglio di artigiano-artista Pietro si consolava con una cantilena che lanciava a ogni passata di pennello: «Questi sono graffi al cuore che non si cancellano mai».
Quella mattina, dopo il chiarimento con il priore, andò al lavoro. Era atteso dal padre di Ninì. Avrebbe dovuto rinfrescare con la calce ingresso e facciata della casa padronale. Luglio era entrato e Pietro volle affacciarsi sulla giornata di sole col proposito di non disturbare il prossimo con le sue sfottenti cantilene.
«Oggi sarò buono, caritatevole anche con me stesso, senza crucci e nervosismi» ripeté.
Il padrone di casa lo accolse invece con un sorriso che faceva fatica a sopravvivere sulle labbra.
«Signor Pisani, qualche problema?»
«Veramente, poco fa è venuto a cercarti un carabiniere. Mi ha detto che il maresciallo ti vuole parlare con urgenza. Perciò lascia tutto e va’ subito in caserma».
Abituato com’era alle convocazioni, agli avvertimenti spesso cifrati del maresciallo che gli censurava scrupoloso la corrispondenza, Pietro non notò il velo di tristezza sul volto di Carmine Pisani:
«Il maresciallo è una brava persona, ci apprezza quando ci vede impegnati, me e i miei compagni, in qualche lavoretto per arrotondare il soldo. In caserma andrò più tardi. Il maresciallo capirà».
Cominciò a salire sulla scala col secchio della calce dalla quale per un brusco movimento gli caddero schizzi bianchi sulla fronte. Il padrone di casa lo pregò di soprassedere.
«Pietro, insisto, il comandante deve darti una comunicazione molto importante e molto personale. Ti prego, scendi da quella scala e corri subito in caserma. Così come stai».
«Con la tuta e con la calce sulla faccia?» «E perché no? Stai lavorando e lui capirà».
Dieci minuti dopo Pietro bussava al portone della caserma. I rumori di chiavi e chiavistelli erano sempre un cattivo ricordo per il decoratore romagnolo che aveva conosciuto il carcere. Il piantone lo accolse con insolita cortesia:
«Buongiorno, signor Gori, il maresciallo vi aspetta nel suo ufficio, il mio collega vi accompagnerà … Al secondo piano, porta a destra».
Pietro cominciò a salire le scale senza pensare a nulla. La frequentazione della caserma era divenuta un rito anche per i tanti imprigionamenti che non duravano più di un giorno: per le adunate politiche o per l’arrivo di qualche capintesta, Davanti alla porta dell’ufficio lo attendeva il maresciallo che gli andò incontro.
«Comandante, non mi dica che mi è stata concessa la libertà di andarmene finalmente a casa !».
Il graduato eluse la domanda, gli pose una mano sulla spalla, notò gli schizzi di calce sulla fronte e chiese sorridendo:
«Ma così conciato da dove venite?».
«Dalla penombra, comandante, per non dire proprio dal buio dove vivo già da qualche anno, e non certo per mia volontà. Per fortuna c’è tanta brava gente che mi chiama. In questo paese il bianco è dovunque: dentro le case, le chiese, sui muri delle strade. È un colore che consola, è la luce, maresciallo; il nero è lutto e tragedia, purtroppo ce n’è ancora tanto in giro».
«Sempre allusivo e spiritoso il nostro Gori che qui è ormai di casa».
«Di casa fino a un certo punto, se casa è la piccola cella di un convento. Quella vera dove sono nato è in Romagna, lì sta la mia famiglia. Ma va bene così. Siamo anzi grati a chi ce lo ha consentito».
Il maresciallo non raccolse la provocazione. Prese dalla scrivania un telegramma dall’inconfondibile colore giallo zafferano e glielo mostrò:
«Vi è stato accordato un permesso speciale di sette giorni; mi addolora dirvelo, ma ieri è morta vostra madre. Se intendete partire, dalla stazione fra meno di tre ore passa un treno che vi porterà a casa domani mattina. Naturalmente accompagnato».
Con tremito sulle labbra e pallido in viso:
«Povera mamma, ha finito di soffrire anche per me. Grazie comunque, maresciallo, ma io non voglio andare a casa tra gli angeli custodi. Mio padre, mio fratello e i miei parenti capiranno».
Pochi minuti dopo uscì dalla caserma. L’inattesa provvidenziale apparizione dei compagni di cella e di persone amiche gli diedero conforto e ritrovò la fiducia che momentaneamente l’aveva abbandonato. Tra una stretta di mano e un abbraccio chiese soltanto chi li avesse informati.
«Una confidenza del carabiniere che è venuto a cercarti a casa mia. E Ninì ha gettato il bando, fino al convento» rispose il padre del ragazzo.
Furtivamente si asciugò gli occhi e bevve il caffè nel locale della piazza dove sulla vecchia insegna era stata radiata la parola bar sgradita al regime. Ci fu qualche commento e la professoressa non perse l’occasione per fare ironia:
«Non a caso il caffè arriva dall’Abissinia, terra dell’Impero».
Ninì che era mancato per qualche tempo tornò trafelato srotolando una cravatta nera:
«La manda mia madre, è quasi nuova». Pietro la prese e si lasciò sfuggire:
«Ma ho la tuta, non ho la camicia». Una voce alle sue spalle:
«Vorrà dire che la tuta te la togli e domani mattina sulla camicia metterai la cravatta nera per assistere alla messa in suffragio di tua madre».
Padre Aurelio apparve d’improvviso nell’atto di tendergli fraternamente le braccia:
«Come si chiamava tua madre?»
«Aveva un bel nome, Padre, si chiamava Angelica».
«Angelica è un nome che fa pensare agli angeli, al paradiso» ripeté il frate.
«È proprio come lei dice, il nome corrispondeva in tutto al suo carattere. lo ho preso da mio padre l’indole ostinata, irrequieta, forse sono rimasto il diavoletto di quando ero bambino».
«Pietro, consolati, i diavoli sono altri e stanno altrove; intanto potete venire a pranzo nel refettorio tu e i tuoi colleghi».
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