I RACCONTI DI ENRICO BUONO.jpgAlcuni anni dopo la pubblicazione,  grazie alla generosa amicizia di Angelo Aragiusto e Maurizio Spano, ho tra le mani «I racconti di Enrico Buono». Sei racconti (cinque più uno) raccolti in un volume intitolato «Echi e ricordi. I racconti di Enrico Buono», SMDR Edizioni, Calciano (MT), pagg. 187, € 10. In copertina «L’Estate», dipinto olio su tela  di Michele Picardi.

    Il volume ha una singolare struttura:

 Prefazione  «Memoria e Oblio. Un percorso antropologico» di Enzo Vinicio Alliegro, con bibliografia di riferimento di cinquantaquattro titoli (pp. 7 -51). Della Prefazione riporterò l’indice.  Alliegro è ricercatore di discipline demoetnoantropologiche presso il Dipartimento di Scienza sociali dell’Università Federico II di Napoli.

 Indice:

 I racconti di Enrico Buono, una memoria “intima” e “densa”

 Gli eroi del tempo

 Feste, celebrazioni e cultura della memoria

 Oltre l’oralità

 Strategie della memoria e dell’oblio

 Voci, gesti, volti

 Immagini

 Sogni, nomi, cibo

 Luoghi e stagioni

 Mnemòsine e Lete

 Dinamiche della memoria e dell’oblio

 I racconti di Buono: tra la gioia tranquilla del ricordo e la serena dimenticanza degli affanni.

 Postfazione «Enrico Buono: un viaggio nella memoria» di Gerardo Corrado (pp. 53 – 62). Conoscevo Gerardo Corrado come noto pittore, allievo dei pittori potentini Giocoli e Masi, e mi fa piacere scoprirlo anche critico letterario.  Il saggio di Gerardo Corrado, richiamando l’intervento di  Goffredo Fofi nei tre giorni di studio dedicati a Rocco Scotellaro nel lontano 7, 8 e 9 maggio 2004 (ahimè, da allora sono assente da Tricarico!), si chiede cosa resta di Buono dal punto di vista della realtà a cui i suoi racconti sono ispirati. Il mondo raccontato da Buono, secondo Gerardo Corrado, è “dato”, non pensabile né costruibile diversamente. «Per questo mondo e la sua condizione umana fatta di sofferenze, di miseria materiale e psicologica, non c’è remunerazione sulla terra ma soltanto in cielo».  

Introduzione di Enza Spano (pp. 63 – 67).

 I racconti di Enrico Buono (pp. 67 – 145):

 Femia e Cristina

 L’abito nuovo

 Estate

 Tempo d’inverno

 La scuola e il maestro

 Appendice «Un omaggio a Enrico Buono» – Il viaggio (pp. 147 – 180).

 «Il viaggio» è il sesto racconto, conservato a lungo dal figlio dello scrittore – Giulio, stesso nome del nonno -, mentre i precedenti cinque erano in possesso di don Benì Perrone, che li dette a Maurizio Spano, il quale, a sua volta li passò alla sorella Enza, che ha avuto il merito di pubblicarli, assicurandosi la collaborazione di Alliegro, Corrado e Picardi.

 Ai racconti sono allegate cinque fotografie di Enrico Buono: con la moglie Anna Rossetti, con la moglie e il figlioletto Giulio, in divisa da funzionario statale, come prescriveva l’ordinamento fascista.

 Chiude il volume la biografia di Enza Spano, con suo ritratto.

      Perché la divisa? L’ordinamento fascista degli impiegati civili dello stato del 1923 era modellato sull’organizzazione delle forze armate. I funzionari e impiegati erano divisi in tre gruppi (A, B e C), corrispondenti, rispettivamente, agli ufficiali, ai sottufficiali e agli uomini di truppa, ed erano ordinati gerarchicamente in base a 13 gradi, con gradi iniziali, rispettivamente, 13, 12 e 11. Dalla divisa indossata da Enrico Buono, che era un funzionario dell’amministrazione dell’interno, si evince che egli rivestiva il grado sesto, corrispondente a colonnello. I gradi del gruppo A terminavano di fatto al quarto grado, essendo i gradi superiori riservati a un ristretto numero di funzionari. I prefetti erano suddivisi in due gradi: prefetti di seconda classe  (grado quarto) e di prima classe (grado terzo). Buono si fermò all’ex grado quinto. I funzionari erano obbligati a indossare la divisa, insignita dei gradi, che rappresentava l’omologazione dell’amministrazione dello stato all’organizzazione militare e la rispettabile posizione sociale e il potere acquisto dai funzionari, che faceva il solletico alla vanità della maggioranza di essi. Il mio primo capo ufficio rimpiangeva quel tempo e osservava che, se avessimo portato la divisa, si sarebbe vista la differenza di grado tra lui e me. – La differenza di grado si vede dall’età -, cercavo di consolarlo, e lui, di rimando – Ma l’età gioca a tuo favore -. Un giorno, sventolando un telegramma, mi disse: – Complimenti. Sei stato promosso maggiore -. Inutile tentare di fargli capire che i gradi erano finiti quando io ero un ragazzino. A Tricarico indossavano con sussiego la divisa i funzionari dei due uffici finanziari: l’ufficio delle imposte dirette e l’ufficio del registro. 

     Enrico Buono chiuse la sua carriera con la qualifica, prevista dal nuovo ordinamento democratico, di vice prefetto vicario. Non raggiunse l’apice della carriera con la nomina a prefetto, con grande cruccio suo e, ancor più, del padre. Fu vittima, senza alcuna responsabilità personale, ma per una sorta di responsabilità oggettiva, come tantissimi suoi colleghi all’apice, nel 1943, nella carriera amministrativa delle prefetture, amministrazioni alle più dirette e strette dipendenze dal potere politico. La speranza che quella sorta di ostracismo, prima o poi, avrebbe avuto termine, non li abbandonava, aggravando il loro disagio psicologico. Io ricordo il cruccio del padre don Giulio Buono, che talvolta si è sfogato con me.

      Le foto non hanno ravvivato nella mia memoria il ricordo della fisionomia di Enrico Buono. La mia conoscenza di lui è stata vaga e relativa: l’avrò visto e ci avrò brevemente parlato non più di tre o quattro volte. Non ho conosciuto la moglie. Nelle fotografie ho visto uno sconosciuto.

      Devo dire che Enrico Buono sarebbe stato uno dei tanti tricaricesi (come del resto ora sono io), che hanno lasciato il paese e di essi si è perso il ricordo: salvo, qualche volta, chiedersi impensatamente: – Che fine avrà fatto? Te lo ricordi? -. Ti viene voglia di cercarlo, di trasformarti in segugio, per apprendere, tristemente e immancabilmente, che colui che cerchi è morto e renderti conto che anche la tua vita è agli sgoccioli. Mi è capitato con alcuni compagni di liceo o di università. Quando li trovavo, era per apprendere che erano morti. Non ne ho più cercati, ho deciso di lasciarli vivere.

      Enrico Buono non l’ho più rivisto, credo, dagli anni Cinquanta, ma di lui ho molto sentito parlare e ho molto parlato, per alcuni anni, quando andai via da Tricarico, a Modena e qui a Ferrara.

      Modena è stata la mia prima sede di servizio. Mi fu assegnato, tra altri di minore importanza, il compito di istruire le pratiche per il controllo dell’amministrazione degli ospedali di quella provincia e, quindi, anche del policlinico di Modena, la cui gestione, per una crisi dell’amministrazione, fino a poco tempo prima che io prendessi servizio, era stata affidata a un commissario straordinario di nomina ministeriale, che fu, per l’appunto, Enrico Buono. 

      La crisi dell’amministrazione del policlinico aveva avuto uno strascico di contenziosi al consiglio di stato ed ebbi la sorpresa di apprendere che il patrocinatore di una delle parti (le cause erano ancora in corso) era l’avv. Domenico Schiavone, che allora era senatore eletto nel collegio di Tricarico. Schiavone era un avvocato amministrativista di fama, aveva un modesto eloquio, ma le sue comparse e memorie, redatte con logica geometrica, mostravano profonda cultura giuridica ed aggiornatissima competenza nel campo del diritto amministrativo.

      Il direttore e il vice direttore amministrativo del policlinico, coi quali,  per ragioni di ufficio, avevo frequenti rapporti,  avevano un ottimo ricordo di Buono e mi dichiaravano la loro ammirazione e riconoscenza per il suo lavoro, svolto in condizioni non agevoli. Modena era un città a forte maggioranza comunista e, sebbene il consiglio di amministrazione del policlinico non fosse emanazione degli enti locali in mano comunista, la gestione commissariale dai comunisti era guardata di malocchio per principio ideologico e ragione politica. I commissari non erano tollerati in terra comunista. Ebbi testimonianze che Buono seppe abilmente barcamenarsi e si rivelò valente funzionario e intelligente diplomatico e politico.

      Trasferitomi dopo alcuni anni a Ferrara, qui conobbi un funzionario di prefettura che aveva avuto Buono come suo primo capo ufficio. Era ancora letteralmente incantato della signorilità e cultura di Buono, che considerava il suo Maestro, che gli aveva insegnato tutto della tecnica e della strategia del mestiere.

      Buono approfittava di ogni pausa per parlargli di Tricarico e questo mio amico approfittava di ogni occasione per parlarmi di Buono, di cui aveva nostalgia. Conosceva fatti e personaggi di Tricarico del primo quarto del secolo scorso, e me ne parlava con la competenza di un tricaricese. Mi parlò di Femia, mi parlò del maestro delle elementari di Buono, mi parlò della scuola a Santa Chiara: che ritrovo nei racconti. E mi parlò di altri fatti, che nei racconti non ritrovo, segno, forse, che quelli pubblicati non siano tutti gli scritti di Buono.

 Fu questo amico ferrarese a informarmi, commosso, della morte di Enrico Buono. La sua vita non era stata lunga. Non hanno avuto vita lunga i due figli del longevo don Giulio Buono: Maria e Enrico.

      Enza Spano informa nella sua Introduzione che i racconti di Enrico Buono furono fatti conoscere da don Benì Perrone, quale relatore in una lezione tenuta, a marzo del 2002, al Corso di letteratura locale della sezione di Tricarico dell’Università delle tre età,  e riporta le parole, che mi permetto di ripetere, con cui don Benì introdusse la lezione: «Qualche anno fa sono venuto in possesso di alcuni lavori di Enrico Buono rimasti inediti, che ho custodito gelosamente e affettuosamente. Devo subito dire che la mia conoscenza di lui è stata molto relativa e ne conservo una vaga e sfocata immagine. Mi viene fatto però di associare a lui immediatamente la fisionomia ed il ricordo del padre che mio maestro in V elementare: Don Giulio Buono: un galantuomo d’altri termini, irripetibile per la sua serietà professionale la capacità e l’impegno educativo». Mi associo alla presentazione di dono Giulio: le sue doti ne facevano un’autorità morale di Tricarico.

 Sono indeciso se riassumere i sei racconti in un prossimo post, o in più post, nel pieno rispetto del copyright, perché considero regola d’oro la lettura dei testi originari. Consiglio, quindi, di leggere il libro, sicuro che chi seguirà il mio consiglio non se ne pentirà.

 

 

 

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