Sala d’aspetto è del 1949 ed è la storia di un incidente capitato allo scrittore alla stazione di Ancona, dove gli accadde di essere scambiato per un borsaiolo e, quindi, di passare una notte in camera di sicurezza, fino a quando l’equivoco non si chiarì.

Non mi viene in mente il posto che Ancona occupa nella biografia di Rocco Scotellaro. Probabilmente è stata una tappa di passaggio, con sosta alla sala d’aspetto di quella stazione – ricostruita nel dopoguerra -, nei suoi viaggi per Macerata o per Parma. Escluderei che sia stato scambiato per borsaiolo. Se fosse accaduto, è improbabile che non l’avrei saputo. 

A mio parere – nettamente dissenziente dal giudizio di un noto studioso materano della letteratura lucana – Sala d’aspetto, con Fili di ragno, è uno dei migliori esercizi di scrittura espresso negli otto racconti di Scotellaro, che scorre limpido, piacevole a leggersi, è una prova ben riuscita di introspezione di una piccola umanità stanca e annoiata, in attesa nella sala d’aspetto di una stazione ferroviaria. Oltre sessant’anni fa.   

 Sala d’aspetto

 Venne un gattone grigio, ma pulito, nell’atrio lucido della  stazione nuova di Ancona, strisciò sotto l’ombrello d’uno col cappotto al quarto sportello, seguì una sua solita pista per i castelletti delle pubblicità, adorni di begonie e asparagina, sopra c’erano l’orologio che muoveva come mani le sue lance  ogni minuto e le viste delle città marchigiane, il castello di  Urbino, la Torre di Sinigallia, l’Arco e Macerata e Fabriano  e Ascoli.

L’agente l’accarezzò, così pure il controllore di entrata, lui indifferente curvò la schiena e se ne salì sui libri e giornali della rivendita, dove poteva essere di casa.

La signora contava gli spiccioli e sfogliando, con pari indifferenza, gli dette un’amorevole sventola per liberarsi.

Fu la tosse da uomo della signorina che voleva il suo romanzo a creare attenzioni reciproche tra noi che si aspettava  sugli scanni, spalla a spalla.

La signorina allora fu presso di me col suo giornale, lo  aprì nel punto giusto, si chinò a leggere. Parlavano solo il carabiniere, il controllore e l’agente sottovoce.

Sottovoce venivano i treni e ripartivano, per la mia partenza mancava un’ora e più. Tra me e la signorina, ne venne  un’altra. Erano diverse: la prima con i capelli ravviati molto sulle orecchie faceva tosse da uomo e leggeva, la seconda aveva pure il suo giornale in mano, non leggeva, irrigidiva spesso la punta del piede ogni volta che dovevano muoversi i suoi  nervi e i suoi pensieri.

Mi accorsi che la seconda guardava spesso la prima, subito dopo di me, quasi seguendo il cammino del mio sguardo perché quella mi era più presto entrata negli occhi: lei non si muoveva mai, ogni tanto tossiva, aveva spartito attorno al corpo il soprabito, una gamba sull’altra, nude, bianche.  Chiuse finalmente il giornale, quando si alzò non era più lei a vederla camminare, il nudo della faccia che si estendeva sopra le orecchie non era una cosa sola – come prima –  col nudo delle gambe.

In piedi aveva nascosta la faccia nel soprabito, che era  sceso lungo il corpo. Andò alla sputacchiera, vi stette che l’orologio si mosse con una mano, io aspettai che ritornasse  agli scanni, invece prese la via dell’uscita e le vidi la faccia  rossa e gonfia, non le era riuscito di sputare.

Intanto c’era più gente agli scanni e a uno a uno gli occhi degli sportelli si illuminavano e cominciavano le file.

Seguii sopra le spalle di una signora dai capelli a cocuzzolo l’andarsene della signorina che ancora si gonfiava per cacciare fuori dalla bocca, vidi che si appoggiò vacillante alla ruota  di una carrozzella, allora decisi di seguirla perché mi aveva preso. Si rifece subito, salì nell’autobus, la seguii, scendemmo  al teatro delle Muse nero e affumicato.

Si avvicinò al gruppo (c’erano dei gruppi nella piazza con  le mani in tasca, giacchettoni neri, giovani alti e uomini tagliati come tronchi, facchini, scaricatori); uno dei giovani puntò le mani sul gradino, al vederla si erse, le fu vicino, le mise una mano sulla schiena, si guardarono senza parola, lui la  tirò fuori dal gruppo, li vidi venire verso la pedana della fermata dev’io ero rimasto, poi lei, la sentii la prima volta parlare: che voce fina, non l’avrei indovinata dalla tosse!

Disse accennando a me: «quest’uomo mi segue». Mi  aspettavo dal giovane una guardata di sdegno, che era già  naturale alla sua faccia, invece addirittura mutò il volto in  un sorriso: «Vuole qualcosa dalla signorina?» mi chiese. Come parlò, avrei potuto anche dire la verità, forse lui me l’avrebbe ceduta, ma forse si sarebbe l’abbuiato. A questo  pensiero mi vidi perso, ebbi la forza di rispondere:

– Cosa potrei volere? Chi le ha chiesto niente? –

Andiamo, fece il giovane, e lei: – Eppure – disse –  mi pareva.

Si allontanarono. L’uomo di un gruppo parlava rivolto  al mare e gli altri ascoltavano con gli occhi a terra. Quando  ripresi l’autobus di ritorno, la signorina e il giovane erano  dietro la vetrina di un bar a vedermi.

Attaccai i miei occhi alla lastra dell’autobus, la voce di  quella donna mi risuonava dolce. Se avessi risposto che la volevo, se fossi riuscito a parlarle nell’andata prima di scendere mentre ella mi fissava voltandosi! L’autobus era pieno ora, si scendeva tutti al piazzale della stazione, dovetti muovere le gambe. Perché dovevo affrettarmi a prendere il biglietto, provai a tutti gli sportelli, urtando le persone in fila. Cacciavo i soldi giusti in mano, poi mi pareva di perderli, Li rimettevo in tasca; ogni tanto tastavo il petto a sentire se c’erano.

Il controllore era al suo posto, rideva verso la rivendita, io capii, per il gatto.

Quando fui sui binari e mi parve dal sottopassaggio uscire all’aria delle campagne col treno in corsa, fui toccato alla  spalla da una mano che mi girò indietro: due carabinieri mi  fissavano.

– E’ lui! – disse, venendomi sotto l’altra signorina che mi era stata al fianco nell’atrio.

Ecco i miei documenti, che volete? – dissi ai carabinieri.

Non occorre – risposero.

E’ lui lo schifoso! continuava la ragazza.

Mi urtò al braccio. Si addensarono su me tanti volti e il treno arrivava.

– Devo partire, ecco i documenti — ripetei.

Tutta una lunga processione di gente era dietro di me, ragazze saltavano in coda per vedermi.

– Ma? – chiesi per la strada.

– Vergogna! – gridava la ragazza e correva avanti i carabinieri per parlarmi sulla faccia.

Il carabiniere le fermò una mano: – Vedremo in caserma – disse.

Mi cadde il velo agli occhi per il biglietto, la mamma  al paese, la sorella che mi aspettava a Forlì, forse già stringeva  i cappotti ai piccoli, li caricava puliti sulle biciclette e si  avviava per l’ora dell’arrivo.

Quando si aprì lo spioncino al portone del1a caserma sussultai, era la faccia di Gullì, il carabiniere mio paesano.

– Gullì, – vedi se è giusto! – gli dissi ridendo.

Lui disse, richiudendo dopo la signorina:

– Vai sempre girando! – ma non mi guardò più in faccia e rimase alla porta.

Tirarono altri carabinieri una panca, lì stetti a sedere.

Guardavo la stanza, i disegni dei moschetti, le frasi stampate  sui muri. Un militare passava nel corridoio con lo spazzolino e l’asciugamani, disse:

– Gullì, hai visita dei tuoi? – Sentii Gu1lì dire no a  suo modo, con delle sillabe borbottate. Nella stanza dov’ero si dettero il cambio, nessuno che mi avesse detta una parola, il tempo passava ai balconi.

Chiesi di poter accendere una sigaretta, non mi risposero  né sì né no; dopo, mentre la cercavo nelle tasche, il più alto  coi baffetti parlò:

– E se ti chiama il Maresciallo? Potresti aspettare.

Non fumai, e fu giusto, ché subito i tacchi della signorina  suonarono nel corridoio. Venne Gullì sulla nostra porta, si  menò il pollice alla spalla per chiamare il più alto coi baffetti,  e questi, alzandosi, gli rispose con un giro d’occhi sul mio  capo, ma Gullì disse:

– No, vieni, chi lo sa?

Il biondo, rimanemmo io e lui soli, estrasse la scatola di cerini, flemmatico, sfilò un pezzo di matita e si mise a  far segni, piegava a un lato la sua bella testa di santo, io  capii: aveva temuto che gli dessi parola. Fece punti e croci  e cerchi agli spigoli, sulle faccie esterne della scatola, sul tavolo ricalcò l’orecchietta e la suddivideva con punti e l’allungava.

Allora mi volsi ai rumori delle macchine sulla strada, appena udivo anche le voci della gente. Mi feci cadere la forfora dai capelli, mi morsicavo i polpastrelli delle dita. Ci tenevo a non respirare forte, ma non riuscivo. Erano sospiri, certuni così profondi, mi accorgevo che per ognuno il biondo si fermava più sui suoi scarabocchi.

Lo stesso scrosciare del mare di Ancona era, in quel silenzio, accanto alle mie orecchie.

Solo alle cinque, vidi l’ora al braccio dell’altro dopo che  fu ritornato e mi parve una certa grazia avuta da lui, tutti e due si alzarono, si stirarono le giubbe sul ventre, fui introdotto nell’ufficio del sig. maresciallo.

Notai come mi guardò in prima, senza dir parola, senza  rispondere al mio saluto con inchino: mi osservò tutto, forse  non gli sfuggì certo moto dei muscoli alle mie gambe, restrinse  gli occhi a fissarmi, io n’ero tutto investito, mi abbottonai  la giacca, per presentarmi meglio, egli andava spiando in me, cercando un buco, uno spiraglio che gli permettesse di decidere, sull’istante, della mia sorte. Fui il primo a parlare mentre egli continuava a ispezionarmi, avevo tanto bisogno di parlare da quando mi ero licenziato dagli amici:

– Maresciallo mi sono fermato presso amici, proseguo per Forlì da mia sorella, ecco la mia carta.

Rise. Aveva già deciso di me?

– E perché, con questo, non si può sfilare la borsetta  di una signorina e trenta biglietti da mille, eh? Una ragione  di più, voleva farne dono alla sorella o alla fidanzata …

L’interruppi e lui alzava la voce, mi lasciò dire:  – No, mai più, cosa dice?

Gli raccontai per filo e per segno da dove venivo. Non riusciva a leggere bene il mio paese sulla carta, gli dissi:

– Domandi a Gullì.

Non ne fu sorpreso, doveva già saperlo, rise:

– Bella sorpresa per lui!

Ripresi il racconto dei miei passi nella città, la stazione, il gatto, la signorina, l’altra:

– C’era un’altra, tossiva come una dannata, le stava a  fianco.

Mi fermai.

– Vediamo il tuo portafogli – disse.

Non lo feci muovere, mi alzai, rivoltavo tutte le tasche,  gli misi carte e giornali e sigarette e un po’ di moneta sul tavolo e mi davo coraggio, mi pareva uno scherzo.

– Dunque innocente, eh? Nome, cognome e tutto.

Gli apersi la carta, alzò la voce:  – No, dillo tu.

Perché sbagliai l’anno di nascita? 1943, fece risate di  bambino il maresciallo.

Si mise alla macchina. «A domanda risponde. Nego. Sono innocente»: Quando firmai lessi: «in oggetto generalizzato», ero io.

A una porta chiusa alle mie spalle fecero rumore. Il maresciallo si volse e anch’io, era alla parte bassa della porta, pensai a un cane che raschiava per entrare. Il maresciallo  si levò, poteva avere una quarantina di anni, appena un po’ di pancia portava avanti con quell’età e con quel grado, di  statura media, il petto in fuori. Addirittura corse verso la  porta e s’inchinò, prese tra le braccia una bambina, la sua, nervosissima che non stette un momento ferma.

– Portatelo in camera di sicurezza – ordinò all’appuntato rimasto come una statua al suo tavolo, io rimirai la bimba che si arrabbiava sulla tastiera della macchina e lui fu  pronto a dire:

– Dategli, se vuole, da mangiare.

Gullì non si vide. Era smontato e fuori libero.

Mi dissero: – Slacciati le scarpe, dacci la cinghia e la cravatta. Vuota le tasche.

Non ho saputo mai dire in quel momento che cosa mi sentivo. Dovevo sorridere con una faccia che non era più la  mia, l’uomo certe volte è un nonnulla nelle mani degli altri. Ritornai a me dentro la cameretta di sicurezza, mi tastai le ginocchia. Non volli mangiare. Un altro era già fuori sapendoci fare, pensai. lo mi mettevo nelle mani della sorte e badavo  di non infastidire Gullì, sperando che si fosse mosso da solo  alla pietà.

L’indomani rividi la luce, alla guardina prima, al portone, nell’atrio lucido della stazione, ero libero, non mette conto  riferire i pensieri della notte una volta che il piede cammina lesto sulla strada. La città era sveglia completamente. Erano  vive le rotaie, che pure tengono sempre il buio luccicante delle notti. Sulle rotaie il treno era pronto. Con la partenza ogni  cosa si disponeva sul proprio binario. Il fischio del treno suonava nelle orecchie di mia sorella che ancora una volta preparava i bambini e spiava da un angolo alla stazione. Gullì depositava in camera di sicurezza la signorina dalla tosse da uomo  prelevata nei pressi del teatro delle Muse, l’altra riaveva la borsetta, non il denaro, e il mio indirizzo per le scuse e gli  auguri cordiali.

Devo mettere capo a far bene, mi ha scritto Gullì, al che  io voglio rispondere che non è buon affare propormi il fidanzamento con la giovane vittima, ricchissima, andante. Lei ci starebbe, mi ha scritto Gullì, ma a me piace più la ladra, la poverina mi crederà ancora un poliziotto. Tossisce, che fa?  E’ bella, sa leggere intieri romanzi, e scucire borsette, mantiene il suo amore a un facchino disoccupato.

 

 (1949)

 

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