Ernesto Farina era un tipografo di Bologna. Stampava a sue spese migliaia di denunce e proclami contro il fascismo. Stanco di essere sospettato e controllato di giorno e di notte, si lasciò sorprendere mentre platealmente lanciava manifestini, e fu condannato a scontare il suo gesto. Stava per scadere il secondo anno di confino, non a lungo nello stesso posto secondo il regolamento, per impedire ai confinati di stringere amicizie e accentuare il senso della loro solitudine, quando dovette lasciare il convento e adattarsi in una misera casetta senza servizi igienici. Da allora era passato un mese.

     Dal suo ufficio, dove era stato raggiunto da don Armando, l’usciere giudiziario lo vide seduto mestamente su una panchina, al lato opposto della piazza, a ridosso dei “ferri”. Frequentando gli uffici giudiziari e i carabinieri, l’usciere era venuto a sapere che era giunto l’ordine di un nuovo trasferimento di Ernesto,  e disse a don Armando: 

«Gli avranno già detto che deve cambiare aria. Purtroppo dovrà continuare la peregrinazione, che per lui è incominciata due anni fa».  

     Don Armando decise di andare a salutarlo. Ernesto, assorto nei suoi pensieri, si accorse della sua presenza solo quando se lo vide davanti, Si strinsero la mano, don Armando gli disse parole di conforto e Ernesto si aprì a uno sfogo, lasciando scorrere un fiume di parole tenute dentro dal giorno in cui fu prelevato davanti alla sua tipografia di Bologna  mentre lanciava volantini.  

«Lo feci platealmente proprio per chiudere con i sospetti  e soprattutto con i continui appostamenti, di giorno e di  notte. Da cinque anni sono vedovo, senza figli […] e ormai  senza più patria. Furono duri i due mesi di carcere e i primi di confino in un paesino fuori dal mondo. Mi mancava la tipografia, il rapporto con la gente».

«Ho saputo che domani vi trasferiranno, vi attende un’altra prova: sappiatela affrontare con la forza e la sensibilità che avete dimostrato fino a oggi. A tutto c’è una fine. E voi tornerete al vostro lavoro nella vostra tipografia; ne sono certo».

«Don Armando, la mia tipografia è stata distrutta dopo  l’arresto. La serenità, voi dite. Ma la serenità è una finzione per poter sopravvivere. Sono stanco e questa nuova destinazione mi rende difficile ogni cosa. Un uomo solo  non ha proprio nulla da perdere e da vivere; vai a rimettere insieme rapporti in un posto del tutto sconosciuto. Qui è stato diverso, abbiamo trovato immediatamente ospitalità e comprensione. Un mese fa ci hanno costretti  ad abbandonare il convento di padre Aurelio, per me ed  altri è stato un trauma».  

     Don Armando intravide  in lontananza il dirigente della milizia mentre camminava tra due sottoposti e augurò la buona notte a Ernesto. Era l’ora che i confinati dovevano rientrare: l’ora del coprifuoco, disse amaramente Ernesto.

     Tutta la notte Ernesto fece su e giù nella fin quando filtrò la prima luce del giorno; allora, inginocchiato, si mise a infagottare il cappotto, un impermeabile blu, un  paio di scarpe, qualche camicia e un maglione grigio di lana pesante. «Siamo in estate e questa roba non mi serve», disse.

     Michele fu incuriosito dall’insolito comportamento del  compagno. Poi si insospettì, ebbe come un presentimento. Ernesto riuscì a tranquillizzarlo e, a giorno fatto, ebbe il permesso di andare al bar, a prendere un caffè. Vi andò col suo ombrello grigio. Salì sul palazzo ducale, si sedette sul parapetto. Il custode del palazzo non si accorse di nulla, vide per un momento l’ombrello che se ne andava per aria e udì un tonfo.

     Lascerò ripetere il racconto del suicidio di Ernesto dalla penna di Mario Trufelli, che in alcuni tratti dona alla scrittura slanci poetici.

     Da parte mia – che riassumo passi del libro con la mente e il cuore rivolti a Tricarico – richiamo un lontano misterioso suicidio o mancato suicidio, realmente accaduto ma perso quasi nei fumi delle leggende di paese, che si è trasformato in una sorta di mantra allegro, utilizzato nelle più varie occasioni, ispirando letteratura e musica popolare: M’meng – M’meng!!! Mint e frecate!

     Della disperazione che istigò un  infelice a suicidarsi o a tentare di suicidarsi, lanciandosi dal muraglione del palazzo ducale non so nulla. Io ricordo di avere sentito raccontare una versione che dà un esito comico alla tragedia. Sotto il muraglione del palazzo ducale stavano tosando un gregge di pecore. All’infelice, a cui mancava il coraggio di lanciarsi nel vuoto e porre fine alla sua vita, e come per chiedere coraggio gridava: M’meng! – M’meng (Mi butto! Mi butto), i tosatori delle pecore, pensando a uno scherzo che stava durando a lungo, lo incoraggiarono: . Mint e frecate!- E quello si lanciò nel vuoto, ma, invece che al suolo, cadde su una povera pecora, che morì, salvandogli la vita. 

     I Tarantolati di Tricarico ebbero successo con una canzone ispirata al suddetto episodio, con testo di Antonio Infantino. Nel video trasmesso in televisione, si vede cadere lentamente, al posto del fantoccio, un ombrello, che non può non ricordare l’ombrello grigio di Ernesto, che il custode del palazzo ducale per un momento vide andarsene per aria. Il testo della canzone è il seguente, salvo errori: ALL DIC / N’N GH  S’TIA NINT / MCHEL  SCIA SOP NU / PARAPIIT  / K  L VRAZZ ALL’ARIA / CUMM NU PALUMMIDD / SCH’DDAV A CH’ PASSAV / M’ MENG – M’ MENG / E NU CRSTIAN CA PASSAV / U VRETT E L RICETT / E MINT E FREKT / E MCHEL S. MNAI / E MCHEL S. MNAI.

     Nel cap. II della parte II dell’Uva puttanella si legge una versione di Rocco Scotellaro. Don Michele Valinotti, nonno di Mario Trufelli, vecchio usciere di pretura, cui i baffi coprivano la bocca, batteva l’asta, che sarebbe andata deserta, di povere cose pignorate, che nessuno aveva interesse a comperare. Con poche parole (l’elenco delle cose pignorate, la difficoltà del falegname Michele, che si lancia dal muraglione del palazzo ducale) Scotellaro rende il dramma della grave crisi sociale del paese. A questa reagisce mastro Innocenzo (mastro Innocenzo Bertoldo), calzolaio, suonatore di clarinetto nella banda musicale locale, socialista e vice del sindaco Scotellaro. Mastro Innocenzo era un rivoluzionario dal cuore mite e dal linguaggio violento, col quale sfogava la sua rabbia contro  le ingiustizie del mondo.  

Ecco il racconto di Rocco Scotellaro: 

«Lo scelse Michele [lo scavalco del muricciolo], il falegname, quando fu rovinato da un sequestro: la mattina presto  passavano i contadini per il sopportico che congiunge  il corso al viale, l’arco lo fece fare Federico secondo  di Svevia e ogni pietra in tutto il sesto porta scolpita  una figura di animale vivo o mitico, quanti più ne  sapeva, la corriera faceva fumo e puzzo di nafta ed  era partita illuminando le campagne, i gruppi di contadini non finivano mai, salivano dai rioni, attraversavano il viale con i rumori dei muli, dei basti, delle  zappe, degli aratri e prendevano la discesa, sotto le  latrine, per le terre lontane, Michele disse una volta:  Adesso mi butto – a voce alta, ma nessuno lo sentì.  Rimase appoggiato al muricciolo, indeciso. – Adesso  mi butto, – ripeté. Laria diventava di cenere, i contadini passavano come tante formiche, il sole, tra un  po‘, avrebbe avanzata la Cresta della Serra. Lo disse  unaltra volta, lo sentì qualcuno che gli rispose: – E  bùttati, e fregati! Allora lui spiccò il salto e si  ammosciò a terra».

Lusciere aveva finito. Mastro Innocenzo disse: Delinquenti! – rivolto al suo crocchio in modo che non fu sentito dall’altro. Aveva scherzato tutto il tempo: – Gli ho fatto trovare uno scendiletto di orso  bianco, roba da salotto parigino, un comò di mogano, voglio vedere che prezzo fanno. Delinquenti! – disse  poi più forte. Quelli se ne andavano al Palazzo del  Duca, lui lasciò gli stessi che avevano riso, magari  gli avevano detto: – Lasciali fare, sta zitto che ti sentono. Stasera c’incolli un bicchiere in più per il danno.

    Prese per il viale, c’èil tratto di case, poi la campagna, andava a passi lesti come inseguito se lo avessero sentito, ma ormai era deciso, parlava da solo  «Delinquenti, delinquenti». Svoltava sotto la torre e  ritrovava le case dopo la tempa degl’Impisi 

     A questo punto restituisco la parola a Mario Trufelli, da quando Michele comincia a insospettirsi per lo strano comportamento di Ernesto: 

«Ma che intenzioni hai? Non venirmi a dire che vuoi sollecitare i carabinieri ad anticipare la partenza!»

«Invece sì, perché il viaggio è lungo e non voglio arrivare  di sera».

«Ernesto, guarda che i trasferimenti i carabinieri li fanno quasi sempre con i treni della notte. Con una notte di viaggio in Calabria ci arrivi, e in pieno giorno. Né sarai  tu a decidere».

Ernesto aveva sul volto una profonda espressione di stanchezza, di rassegnazione; indicò il sacco con i suoi indumenti personali:

«Questa roba mi farai la cortesia di farla arrivare all’ospizio, a chi darla lo decideranno le suore. Sarà gradita. Mi è stato riferito che pochi giorni fa il pretore ha destinato tutto il guardaroba di Samuele proprio alla casa di riposo che vive sulla generosità della gente».

«Sarà fatto» disse Michele.

Guardò con la solita ammirazione il tipografo-editore  che parlava di arte e letteratura e lo incantava recitando versi, poi il pescatore di Barletta, comunista irriducibile che aveva perso la barca per dispetto politico, si chiuse nel silenzio. Attese che il sole entrasse nella stanza mentre la vita si risvegliava al calpestio di uomini e animali.  Infilò calzone scarpe e camicia.

«Tu di qua, a quest’ora, non esci. Se proprio vuoi uscire,  io vengo con te; ti accompagno io dai carabinieri che ti  rimanderanno di sicuro qui, e magari anche con la scorta».

Ernesto, stupefatto:  «Con la scorta?»

«Sì, perché stai dando i numeri».

«Ma io sono un poeta, tu lo dici sempre».

«No, tu sei un pazzo e vuoi fare impazzire chi ti sta vicino».

Si guardarono un po’ maliziosi, Michele anche un po’ sospettoso, alla fine scoppiarono a ridere.

Due ore dopo il paese cominciò a darsi vita. Ernesto ottenne il permesso da Michele per prendere il caffè in  piazza e vi andò col suo ombrello grigio al quale si appoggiava per civetteria.

«lo pensavo: sta giocando con l’ombrello. Perché lo apriva e lo chiudeva a scatti, se lo passava sulla testa, da destra a sinistra, lo sistemava controluce, si nascondeva dietro l’ombrello. Poi si è seduto sul parapetto – non gli è  stato difficile, lui era abbastanza alto – e non l’ho visto  più. Ho visto, ma solo per un momento, l’ombrello che se ne andava per aria. Poi ho sentito un rumore, come di  un sacco di grano che cade sulla strada venti metri più sotto».

«Ma non vi siete reso conto che si stava buttando giù?»  chiese scettico il maresciallo.

«No. Lì per lì non ho proprio pensato a un pericolo. Veniva qui perché gli piaceva il paesaggio. Mi diceva che si vedono in lontananza le murge della Puglia e il mare ricco di storie antiche».

«Dunque, lo conoscevate bene!».

Il custode del castello che viveva con la famiglia in uno degli antichi alloggi degli stallieri, si avvicinò al parapetto dell’ampio terrazzo-cortile, gettò uno sguardo sull’abisso, negato a chi soffriva di vertigini, e spiegò:  «Maresciallo, ma chi non conosce i confinati nel nostro paese! La prima volta che venne qui sopra mi disse, anzi lo disse a mia moglie che gli diede pure una tazza di caffè, che lui era un politico confinato, proprio così, un politico confinato. Ci disse che si chiamava Ernesto Farina e  che non aveva mai ucciso nessuno».

«E intanto si è ucciso lui» concluse il maresciallo. Pregò  l’uomo di seguirlo per l’interrogatorio col pretore, che  con l’ufficiale sanitario e il cancelliere stava eseguendo le  indagini di legge.

Supino a braccia aperte come in croce, sotto il muro di  cinta del castello che raccontava la storia feudale del paese, Ernesto era finito su un terrapieno tra vecchi arnesi di lavoro abbandonati a pochi metri dall’ officina del fabbro, il fratello di don Armando che aveva continuato la tradizione paterna.

«Non abbiamo sentito niente, nessun rumore sospetto anche perché col mio aiutante, forse proprio in quel momento stavamo battendo col maglio e il martello un ferro caldo sull’incudine» dichiarò al giudice. Dichiarazione subito accettata e fatta mettere a verbale; così come risultò convincente quella del custode del castello.

Professionale, quasi rapida e senza dubbi, la perizia dell’ufficiale sanitario: «Emorragia massiva con rottura degli organi interni e schiacciamento del torace». C’era in una  tasca del calzone di Farina un biglietto con nome e indirizzo: «Sirola, via Indipendenza, Bologna». Un messaggio  per un parente, per un amico, per un conoscente?

Il biglietto passò nelle mani del giudice che a sua volta lo consegnò al maresciallo al quale chiese di fare immediate  indagini per individuare la persona. Diede disposizione  ai carabinieri di allontanare i curiosi, tra i quali si stava  facendo largo don Armando. La mattina, dopo la messa,  si recava in officina dal fratello, quasi ad avviare la giornata al suono rituale dell’incudine.

Il canonico al giudice che gli andava incontro:  «Posso vederlo?»

«Voi certamente, ma giusto per una benedizione. Se ci tenete».

«Ci tengo!» disse a bassa voce il prete. Si piegò a guardare  il volto di Ernesto rivolto verso il cielo con gli occhi semichiusi; un lungo sbuffo di sangue l’aveva segnato dalla bocca fino al petto e si era perso sulla camicia rossa a quadri.  Il sacerdote si era quasi inginocchiato davanti al morto e il  ferraiolo, il leggero mantellino nero plissato che i preti indossavano d’estate dalle spalle fino alle caviglie, scivolando  coprì la scena. Sicché nessuno poté vedere don Armando  che segnava con la mano una croce sulla fronte del suicida e gli donava la sua personale assoluzione.

Il sole d’agosto non era gradito al pretore. Alle dieci del  mattino già mostrava segni d’insofferenza. In due mesi si era dovuto occupare di due suicidi, due persone mandate al confino politico in un paese dove la giustizia penale si amministrava in genere per minimi fatti di violenza  privata, per furti e più di frequente per pascolo abusivo.  Si slacciò il colletto della camicia, gesto per lui inconsueto; autorizzò il trasporto della salma al cimitero per il seppellimento immediato non essendoci dubbi circa la causa della morte; andò via frettoloso e a testa bassa senza salutare nessuno.

Per rutto il tempo la moglie del custode del castello era  rimasta affacciata sul parapetto della terrazza-cortile.  Vista dalla strada le faceva luce a quell’altezza il fazzolettone bianco che copriva il capo. Dopo l’uscita di scena del giudice, la donna inaspettatamente lanciò un mazzolino di garofani rossi che cadde proprio vicino a  don Armando. Il canonico guardò in alto, capì e posò i fiori sul petto di Ernesto, che pochi minuti dopo finì pure lui tra quattro tavole di abete; poi i facchini, con  la bara sulle spalle e la scorta di due carabinieri, s’incamminarono a passo svelto verso il cimitero. Per un  buon tratto di strada don Armando seguì la bara: accompagnamento autorizzato il suo, ma solitario. Le  persone che si erano raccolte sotto il castello si allontanavano una dopo l’altra; soltanto Michele, che si trovò  accanto Francesca Luigi e Pietro in tuta da muratore, trovò la consolazione del pianto mentre recuperava l’ombrello grigio, l’immaginoso parasole che era finito  sopra un cumulo di pietre a pochi metri dal solco lasciato sul terrapieno dal corpo di Ernesto.  

 

P.S. Il palazzo ducale era adibito a scuole elementari, pretura, ufficio del registro e ufficio delle imposte dirette e abitazioni delle famiglie del direttore (Gorgone)  e del fattore (Sattanino) della tenuta di Calle, di proprietà del cav. Silvio Turati, che era anche proprietario del palazzo. Un appartamento era occupato dalla famiglia Romano, incaricata anche di badare al palazzo, per quanto potesse occorrere.

 

 

 

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